mercoledì, maggio 27, 2009

La storia è oggi.

Continuare ora a sostenere che il Barça 2008-2009 non è la squadra perfetta e che può ancora migliorare, cosa della quale pure resto intimamente convinto, suona quantomai fuori luogo in un momento in cui c’è soltanto da fare i conti con l’evidenza. Questo Barça entra nella storia perché nessuna squadra spagnola finora aveva ottenuto un triplete, ci entra per i gol, per lo spettacolo e per l’autorevolezza con cui ha domato l’avversario più esperto, competitivo e poderoso che potesse incontrare.
La differenza nell’indirizzare la gara l’hanno fatta la qualità e i colpi delle individualità piazzati al momento giusto: il guizzo di Eto’o al 10’ ha scosso un Barça contrattissimo ad inizio partita, ed ha rappresentato la svolta tattica e psicologica. Da lì in poi i blaugrana l’hanno avuta tutta in discesa mentre i Red Devils son stati obbligati sempre a rincorrere, hanno perso aggressività, fiducia e concentrazione e si son trovati invischiati in una gara necessariamente a viso aperto, da una metacampo all’altra, nella quale il Barça non ha rivali: con lo spazio per giocare la palla, con gli appoggi giusti tra le linee, gli uomini di Guardiola non li fermi neanche se ti chiami Manchester United Football Club.
Una volta in vantaggio, il Barça ha sempre avuto il coltello dalla parte del manico, ha gestito con pazenza e tranquillità il ritmo della partita, ha deciso quando temporeggiare col possesso-palla e quando affondare, ha mantenuto un’impeccabile disciplina in fase di non possesso (problemi soltanto sui soliti calci d’angolo, dove però i saltatori inglesi hanno mancato della scelta di tempo e della forza giusta nell’impatto col pallone) e ha persino avuto l’opportunità di infierire su un avversario sempre più sbilanciato alla ricerca dell’impresa disperata. Negli sviluppi e nella padronanza dimostrata dal vincitore, questa finale è idealmente la gemella di Spagna-Germania, l’atto conclusivo dell’ultimo Europeo. È il marchio di fabbrica di un calcio spagnolo che non si può certo dire dominatore assoluto in Europa (tre anni consecutivi con tre semifinaliste di Champions inglesi parlano chiaro), ma che nelle sue espressioni d’élite incanta il Vecchio Continente.

Ferguson conferma la sua preferenza per Anderson rispetto a Scholes, avanza Giggs sulla trequarti a sostegno di Cristiano Ronaldo, unica punta con Rooney largo a sinistra e Park a destra. Guardiola alla fine non rischia Keita terzino e rispolvera Sylvinho.
L’avvio è imbarazzante per tutti coloro che tengono alle sorti blaugrana. Lo United esercita un dominio sfacciato sui primi dieci minuti del match; la squadra dei palleggiatori, quella che ha l’attacco come idea fissa invece quasi non mette il naso fuori dalla propria metacampo. Con il Barça in apnea, i Red Devils vogliono far pesare tutta la loro sicurezza di campioni in carica, di chi sa fino alla noia come si giocano certe partite. Al tempo stesso, vogliono forzare la possibile insicurezza di un’avversario con la difesa inedita, affondando subito i colpi senza dare a Yaya Touré e Sylvinho il tempo di acclimatarsi.
Valdés gioca il rinvio corto su Piqué e Touré, larghissimi vicino al calcio d’angolo per iniziare l’azione palla a terra, ma lo United pressa pure lì. Il Barça non riesce ad alzare il baricentro e a collegare centrocampo e attacco, lo United è più corto e anticipa con una linea difensiva molto vicina al cerchio di centrocampo. Cristiano Ronaldo ha una partenza decisa, subito ha una chance su punizione, sfruttando un Touré un po’ingenuo nel fallo su Anderson: velenosissimo il destro dalla lunga distanza, al solito si abbassa e rimbalza davanti al portiere, un Valdés titubante nella respinta che deve ringraziare il riflesso di Piqué che evita in extremis il tap-in sottomisura di Park. Ancora Ronaldo tenta una conclusione da più di 30 metri (egoista nell’occasione) e poi spaventa con un sinistro incrociato appena dentro l’area di rigore.
Eccola però la qualità dei singoli che sbilancia il match: una frase celebre proprio di Guardiola recita “En el fútbol, cuando 'muñeco' supera a 'muñeco', el equipo que defiende está perdido”. A portare il Barça in partita di botto non è altro che una percussione di Iniesta, il “pupazzo ” che, al primo pallone recuperato lontano dall’area di rigore e al primo serio-possesso palla blaugrana, da solo buca il centrocampo inglese e crea la superiorità decisiva sulla trequarti. Il resto lo fa l’istinto di Eto’o, che da destra finta di cercare il fondo, rientra verso il centro (malissimo Vidic, il manuale chiederebbe di accompagnare verso l’esterno l’attaccante avversario) e in maniera fulminea anticipa la conclusione sul primo palo, trovando un Van der Sar un po’impreparato.
Partita segnata, ribaltata, stravolta: il dato psicologico ricade su quello tattico. Lo United si scopre vulnerabile, il Barça scopre invece che da lì in poi nessun suo possesso palla potrà essere sterile. La perdita di tranquillità degli inglesi si traduce in perdita delle distanze sul campo, mentre in maniera esattamente uguale e opposta il Barça trae dal vantaggio la spinta per trovare i punti di riferimento desiderati.
Questi sono tutti al centro: assente Alves, il triangolo classico di destra con Xavi e Messi, il motore della manovra per tutta una stagione, non ha più motivo di esistere. Ecco quindi Messi al centro dell’attacco: una mossa che ha sorpreso qualcuno ma che Guardiola aveva già proposto in più di un’occasione con successo, su tutte il 2-6 del Bernabéu. Il fulcro del gioco si sposta così dal lato destro al rombo che in pratica Messi va a formare col trio Busquets-Xavi-Iniesta.
Non sempre il Barça allarga il gioco quando dovrebbe, però il fatto di poter contare su un dialogo costante e ravvicinato fra la Pulce e Xavi ed Iniesta spinge avanti tutto il baricentro della squadra e dà un’altra dimensione alla partita, di controllo blaugrana (in più Eto’o a destra può assicurare più corsa e sacrificio nei ripiegamenti su Evra rispetto a un Messi giustamente preservato per la fase creativa). Inoltre lo United si allunga col passare dei minuti, diluisce il pressing e così Carrick e Anderson, unici centrocampisti centrali puri (Anderson nemmeno così puro…), esposti a una potenziale inferiorità numerica, vengono facilmente presi nel mezzo. Lo stesso trucco del Bernabéu: con Henry ed Eto’o pronti a tagliare dalle fasce verso il centro, nessuno dei difensori dello United esce a prendere Messi, e così il Barça può assicurarsi il miglior possesso-palla.
Quello che cerca Guardiola non è la verticalizzazione precipitosa, rischiare di avviare il contropiede dello United sarebbe uno sproposito, perciò raggruppando in pochi metri i migliori palleggiatori si cerca di far guadagnare metri a tutta la squadra nella metacampo avversaria. Una volta avanzato il baricentro ed evitata la perdita di palloni pericolosi, allo United si lascia così l’unica opzione di ricominciare la manovra dalle retrovie, con tutto l’undici blaugrana compatto e pronto a disturbare, partendo dal pressing di Eto’o sui rinvii di Van der Sar fino a una linea difensiva improvvisata ma insospettabilmente puntuale e sicura nel giocare alta, ora uscendo per accorciare ora temporeggiando per dar modo a tutta la squadra di ripiegare. I blaugrana in questo modo non stradominano (si conta solo un tiro di Messi da fuori sopra la traversa al 18’) ma comunque limitano al massimo le sofferenze, non si registrano infatti altri brividi nel primo tempo al di fuori del giallo a Piqué per fallo su Cristiano Ronaldo lanciato al 16’, unica testimonianza della pericolosità dei ribaltamenti mancuniani.

Nella ripresa Ferguson mostra i denti, inserisce subito Tévez per Anderson, ma a posteriori si dimostra un indebito eccesso di aggressività. Non per l’ingresso in sé del magnifico Carlitos (la cui presenza in campo dal punto di vista di chi scrive è sempre cosa buona e giusta), quanto piuttosto per come il cambio incide sul disegno globale della squadra. Giggs e Carrick restano ancora più soli, Rooney e Park si scambiano di fascia ma rimangono altissimi e larghissimi: praticamente lo United passa a giocare con quattro punte schiacciate sui quattro difensori avversari.
Il Barça così si trova ancora più comodo: Xavi, Iniesta e Messi hanno ancora più spazio per far fruttare il piano blaugrana: gestione del possesso-palla accorta, niente rischi, ritmi contenuti e nessuna possibilità per i ribaltamenti veloci dello United, verticalizzare soltanto quando si presenta la possibilità chiara del contropiede, come al 48’ quando Xavi lancia Henry nello spazio lasciato sguarnito da O’Shea in un’avanzata, il francese ridicolizza Ferdinand nell’uno contro uno ma conclude un po’molle su Van der Sar. Insiste il Barça: Iniesta parte ancora in in percussione e al 52’ procura una punizione dal limite che Xavi stampa sul palo non coperto benissimo da Van der Sar.
Lo United mantiene l’orgoglio e al 55’ costruisce un buon attacco manovrato, sul quale però Park (ingannato forse dal liscio di Touré sul cross di Rooney dalla destra) manca la deviazione decisiva, al 62’ ancora un cross di Rooney sventato provvidenzialmente da una scivolata di Piqué, però la partita è sempre blaugrana: per gli inglesi, sempre più sfilacciati, recuperare il pallone è un’impresa titanica quando fra Busquets, Xavi, Iniesta e Messi il Barça ha sempre superiorità numerica e opzioni di passaggio agevoli. Non aiuta di certo l’ennesimo attaccante inserito da Ferguson, Berbatov per Park Ji-Sung di fronte a un Barça che mantiene ordinatamente le proprie posizioni difensive, abbassando leggermente il baricentro rispetto al primo tempo.
Con l’avversario lunghissimo arriva il colpo di grazia quando al 70’ Xavi alza la testa, taglia un cross magnifico verso il secondo palo e offre il gol del Pallone d’Oro a Messi: Ferdinand e O’Shea si addormentano, l’argentino salta indisturbato ma si inventa una torsione e un pallonetto di testa che scavalca Van der Sar andandosi ad infilare sul secondo palo, un pezzo inedito quanto straordinario del repertorio della Pulce.
Lo United prova subito a rientrare in partita un minuto dopo con una conclusione sottomisura di Cristiano Ronaldo nata da un’azione palla al piede di Giggs (unica nota positiva della partita del gallese), ma Valdés è molto attento.
È l’ultimo scatto d’orgoglio di una squadra che ha nello spirito le rimonte impossibili, e in questo non può che esserci il merito del Barça, impeccabile nell’ultimo quarto d’ora a congelare il possesso-palla nella metacampo avversaria, la strategia difensiva più raffinata possibile, che quasi frutta un altro gol, in entrambe le occasioni con Puyol (la prima un colpo di testa un po’troppo centrale su punizione dalla destra di Xavi, la seconda un inserimento in area con tentativo di pallonetto neutralizzato da Van der Sar in uscita).


BARCELONA
(4-3-3)

Valdés: Rischia la papera sul calcio di punizione di Ronaldo nei primi minuti, poi interpreta bene il ruolo di portiere “da Barça”, pronto cioè ad agire da libero aggiunto alle spalle della difesa alta e anche ad iniziare la manovra coi piedi, cercando di creare la superiorità nel possesso-palla già dalle retrovie insieme ai difensori. Ottimo sottomisura su Ronaldo nella ripresa. Voto: 6.
Puyol: Ha cominciato la parabola discendente della propria carriera ma, si poteva starne certi, questa partita l’avrebbe giocata a mille. Come Eto’o, vive per sfide simili. Non fa rimpiangere Alves e anzi blinda la fascia forse meglio di quanto avrebbe potuto fare il brasiliano (per decenza, mi fermo qui coi se e coi ma). Pronto nelle chiusure, nelle diagonali, in aiuto a Touré, reattivo e mai superato nell’uno contro uno: 100% Puyol. Si offre intelligentemente anche in sovrapposizione, e sfiora due gol. L’azione del 2-0 di Messi la avvia lui rubando un pallone in anticipo sul rinvio di Van der Sar. Voto: 7.
Yaya Touré: Qualche svarione, qualche sofferenza nei primi metri negli uno contro uno, qualche uscita dalla propria zona in cerca di margheritine, ma una prova complessivamente molto più affidabile rispetto al ritorno col Chelsea. L’esperimento partito da Stamford Bridge e passato per la finale di Copa con l’Athletic, ha avuto un rodaggio sufficiente per non dinamitare la difesa blaugrana nella gara più importante di tutta la stagione. La linea difensiva ha tenuto, Touré ha migliorato l’intesa con Piqué e il reparto si è mosso con sincronismi soddisfacenti. I minuti più difficili per l’ivoriano sono i primi, quando Cristiano Ronaldo trova una posizione insidiosa dalla quale prendere palla e puntare. Col passare dei minuti però Yaya accorcia sul portoghese e spesso riesce ad intervenire e ad anticipare con successo. Molto sicuro col pallone tra i piedi, a volte pure troppo, ma l’azione riparte sempre pulita dai suoi piedi. Voto: 6,5.
Piqué: L’ultimo mese ha chiarito che può essere un grande leader difensivo, anche in assenza di Márquez. Vince il confronto a distanza coi suoi due ex “superiori” Ferdinand e Vidic, ed entra ufficialmente nel club dei grandi difensori europei. Semplicemente perfetto, sempre al posto giusto, coi tempi giusti, pulito ed efficace in tutti gli interventi, decisivo in un paio di occasioni, quando evita il gol sicuro in ribattuta di Park ad inizio partita sulla punizione di Ronaldo e quando nella ripresa intercetta un cross di Rooney dalla destra destinato alla deviazione sicura sul secondo palo. Va in difficoltà soltanto in quell’unica occasione nel primo tempo in cui il Barça lascia il contropiede allo United e lo costringe a pagare col cartellino giallo l’enorme differenza di passo con Cristiano Ronaldo. Voto: 7,5.
Sylvinho: Mai seriamente considerato nel corso della stagione, ha finito col giocare la partita-clou. Diffidavo del suo inserimento per via della sua scarsa capacità atletica, soprattutto di fronte ad avversari dallo spunto incendiario come Ronaldo, il che rendeva plausibile persino l’utilizzo di un giocatore fuori ruolo ma più tonico come Keita, comunque autoesclusosi dalla corsa al posto di terzino nelle dichiarazioni della vigilia. La fortuna di Sylvinho è che dalle proprie parti giri, e giri a vuoto, Park, e che Cristiano Ronaldo non vada mai a puntarlo in quella zona. Inaspettatamente alleggerito di lavoro difensivo, il brasiliano ha potuto dedicarsi a una partita sobria, con un buon piazzamento e un contributo sempre prezioso in fase di palleggio, senza mai cercare il fondo ma garantendo sempre un appoggio sicuro alle trame dei centrocampisti. Voto: 6,5.
Xavi: Vienna 2008, Roma 2009. Dai e dai, quello che qualche pensatore particolarmente diabolico aveva definito una delle cause della penultima Coppa dei Campioni blaugrana (per essersi infortunato, non per altro), è diventato un vincente. Un vincente di razza, anche col suo fisico da pensionato e la sua velocità da lumaca. Scavando sotto la superficie poi vai a scoprire che in questa finale si sobbarca chilometri come nessun altro, e ruba persino una serie di palloni preziosi. Impreziosisce con lo spirito di sacrificio e l’agonismo la solita prova di meravigliosa lucidità in regia: impossibile togliergli il pallone blablablabla fa sempre la cosa giusta blablablabla non sbaglia un tocco blablablabla… a tutto l’armamentario tradizionale aggiunge il cross al bacio per Messi. Voto: 7,5.
Busquets: Tocca relativamente pochi palloni, ma il contributo tattico è assolutamente rilevante. Si temeva la sua inesperienza, soffre un po’nei primi minuti Ronaldo che lo prende alle spalle, ma poi copre al meglio gli spazi davanti alla difesa, in qualche caso correggendo anche gli sporadici errori di posizione di Touré, non tirando mai indietro la gamba, spezzando e rilanciando il gioco con continuità. Pur toccando i citati pochi palloni, è importante in fase di possesso per come libera gli spazi a Xavi e Iniesta col movimento senza palla, in quelle costanti rotazioni del triangolo di centrocampo che agevolano la fluidità di manovra. Voto: 6,5.
Iniesta: Va bene, il Pallone d’Oro andrà a Messi, e non c’è niente di male perché si tratta comunque del miglior giocatore del mondo e del capocannoniere della Champions, ma ad Iniesta riservate almeno un Pallone d’Argento. Sbalorditiva facilità di gioco per uno che a questa gara non è arrivato nelle migliori condizioni (e mi è capitato pure di leggere che Andrés potesse soltanto portare palla, evitando il più possibile di tirare per non rischiare la ricaduta dell’infortunio), prende palla e decide “La partita sono io”. È lui che la indirizza creando dal nulla l’azione del vantaggio, è lui che trascina avanti tutta la sua squadra ogni volta che prende palla, è lui che gestisce ogni situazione con una personalità e una brillantezza disarmanti. Ha le geometrie e la visione di gioco, la pausa e l’accelerazione, pressa e ruba palla come un mediano, imposta come un regista, dribbla come un trequartista, ti punta come un’ala. Se sei in difficoltà poi ti salta da solo il centrocampo avversario. È l’anello di congiunzione ideale tra il tipo-Messi e il tipo-Xavi. Voto: 8 (dal 91’ Pedro: Dopo quelli nella finale di Copa del Rey, Guardiola lo omaggia di altri spiccioli simbolici. Non sarà dispiaciuto il canario. S.V.)
Eto’o: Gran partita di sacrificio, personalità e disciplina tattica. Parte largo a destra con l’intento di pareggiare Evra e di minacciare i centrali mancuniani con le diagonali negli spazi lasciati dall’arretramento di Messi. In questa partita di sacrificio trova il modo di lasciare il segno con lo spunto del grande attaccante: grande intuizione su Vidic e soprattutto nel rubare il tempo a Van der Sar con la conclusione immediata d’esterno. Voto: 7.
Messi: Chi da lui si aspetta immancabilmente l’azione epocale non sarà rimasto soddisfatto, ma il suo primo tempo poco appariscente è in realtà un grande primo tempo. Da falso centravanti fornisce un appoggio decisivo al centrocampo per controllare la partita. Nella ripresa lascia un po’a desiderare perché ci sarebbero più spazi per il contropiede e quindi per partire palla al piede. Stranamente da questo punto di vista si mostra meno brillante che da centrocampista aggiunto, in più di un’occasione si fa infatti recuperare in velocità dagli avversari. Sembra essersi un po’defilato dalla partita quando finalmente appaga anche gli appetiti mediatici col suo gol, un gol che oltre all’importanza ha il pregio dell’originalità. Voto: 7.
Henry: Recuperato in extremis come Iniesta, dà il suo contributo. Partita tatticamente intelligente, offre il riferimento per allargare il gioco e va anche a tagliare centralmente per tenere “in ostaggio” i centrali avversari e assicurare libertà a Messi fra le linee. Risponde tutto sommato bene dal punto di vista atletico, ha la grande occasione ad inizio ripresa quando va in fuga, dribbla Ferdinand ma sciupa tirando su Van der Sar, confermando una freddezza non proprio da killer in queste occasioni. Voto: 6,5 (dal 70’ Keita: entra perché Henry non ha i 90 minuti e perché occorre rinvigorire un po’il centrocampo per proteggere il 2-0. S.V.).

In panchina: Pinto, M. Cáceres, Gudjohnsen, Bojan, Muniesa.


MANCHESTER UNITED (4-2-3-1)

Van der Sar: Non risponde al meglio. Un po’ lento di riflessi e ingenuo sul gol di Eto’o, rischia di prendere un altro gol sul suo palo sulla punizione di Xavi. Bene coi piedi, anche se con qualche brivido per i suoi tifosi. Voto: 5,5.
O’Shea: L’anello debole dell’undici titolare, tutto sommato regge quando Henry calca la sua zona, non si scompone nell’uno contro uno. Tatticamente attento, supporta l’azione offensiva senza strafare ma senza sbavature; tuttavia si fa una brutta dormita sul cabezazo di Messi. Voto: 5,5.
Ferdinand: Serataccia per lui e Vidic. La posizione di Messi gli crea seri problemi, anche per la presenza di Henry che lo costringe a rimanere basso. Quando il Barça ha sempre più spazi poi soffre gli uno contro uno in campo aperto, su tutti quello che propizia l’occasione di Henry ad inizio ripresa. Grave corresponsabilità con O’Shea sul gol di Messi, dove purtroppo accusa una di quelle carenze di concentrazione che hanno sempre costituito il suo vero punto debole. Voto: 5.
Vidic: Dalla versione calcistica di Ivan Drago ci si aspetterebbe un po’ più di decisione nell’occasione in cui Eto’o indisturbato si insinua in area di rigore e fulmina Van der Sar per l’1-0. Non solo decisione e forza bruta, ma anche e soprattutto mestiere: inconcepibile per un difensore del suo livello concedere quello spazio. Assieme a Ferdinand, ha difficoltà ad accorciare verso il centrocampo. Non riesce mai ad anticipare, gli avversari arrivano sempre fronte alla porta con la possibilità di puntare o cercare il passaggio filtrante. Così diventa impossibile. Voto: 5.
Evra: Protagonista effimero d’inizio gara, quando lo United riesce ad occupare con costanza la metacampo avversaria e lui può sovrapporsi, perde del tutto importanza quando il centrocampo del Barça prende il sopravvento e viene bloccato dalla presenza di Eto’o, lui che era pronto per una sfida con Messi. Voto: 5,5.
Carrick: Prova a darsi da fare, ma è penalizzato dal contesto. Dei centrocampisti è il più lucido, quello che si offre al portatore di palla e cerca spesso di velocizzare la manovra e cambiare gioco. È la sua partita finchè è la partita dello United, ma poi con gli spazi che si moltiplicano per gli onnipresenti centrocampisti del Barça, diventa difficile capirci qualcosa. Voto: 6.
Anderson: Molto propositivo ad inizio partita, offre un gran dinamismo, triangola e si sovrappone, poi si spegne e naufraga quando la parola passa a Xavi, che nella sua zona comincia a prendere il sopravvento. Continua in assoluto a non convincermi questa sua conversione da trequartista a mediano: ha corsa, ha piede, ma non ha tempi e visione di gioco e non ha senso tattico. Oltrettutto con un solo altro centrocampista centrale ad accompagnarlo rischia di lasciare i suoi bei buchi. Voto: 5,5 (dal 45’ Tévez: Prova a offrirsi in appoggio al centrocampo e a fare movimento fra le linee, ma dura dieci minuti. Poi viene risucchiato dalla difesa avversaria e dalla mancanza di idee dello United. Voto: 5,5.).
Park Ji-Sung: Inesistente. Stavolta la sua corsa non è utile, non ha un ruolo di rilievo né nella manovra, né nell’uno contro uno, né negli inserimenti e nemmeno nei ripiegamenti. Forse resta troppo largo, non ha le caratteristiche dell’ala, magari stringendo maggiormente verso il centro sarebbe potuto entrare di più nel vivo del gioco e anche aiutare Carrick ed Anderson a non andare in inferiorità. Nella ripresa si scambia con Rooney e passa a sinistra, avrebbe l’occasione su un cross di Rooney lisciato da Touré, ma cicca anche lui. Voto: 5 (dal 65’ Berbatov: Ingresso non necessario, prestazione spettrale, tanto per cambiare. Voto: 5,5.)
Giggs: In assoluto una leggenda, ieri, 27 Maggio 2009, un uomo in meno. Non si riesce a capire il suo ruolo: un po’ seconda punta, un po’ trequartista, alla fine né carne né pesce. Non interviene nella manovra, non inventa sulla trequarti, non aiuta gli esterni a creare la superiorità numerica e non aiuta nemmeno il centrocampo in fase di non possesso. Nel secondo tempo arretra a sostituire Anderson in mediana: saltato regolarmente, ha solo un’azione individuale degna di nota. Voto: 5. (dal 74’ Scholes: Chi come il sottoscritto non segue costantemente lo United, è rimasto sorpreso dalla sua esclusione in favore di Anderson. Probabilmente il saldo fra l’intelligenza tattica, la classe e tutti gli altri fattori in questo momento si presenta negativo per Ginger Prince. Entra a frittata fatta e a centrocampo defunto, si fa notare solo per un’entrata assassina su Busquets, uno dei suoi classici raptus. S.V.)
Rooney: Altra grande delusione. Non ha un Alves che lo costringa a sacrificarsi da terzino aggiunto, ma gioca una partita terribilmente lineare ed anonima. Fa la fascia sinistra senza mai trovare il fondo, senza mai andare via all’avversario (quasi senza nemmeno provarci) e senza convergere verso il centro per provare il tiro. Nella ripresa passa a destra, con un avversario più facile di Puyol, trova un paio di cross e nient’altro degno di nota. Voto: 5.
Cristiano Ronaldo: Le analisi preconfezionate dovrebbero individuare in lui il grande sconfitto, ma al contrario è stato assolutamente all’altezza. Oltre i limiti di una serata storta per lo United non può andare neppure lui che affronta la gara con la personalità del grande giocatore. Lui e Messi simboleggiano l’affascinante confronto di stili fra Barça e Manchester United: l’argentino si fa attirare dal centrocampo per costruire una ragnatela di passaggi, Ronaldo è invece l’anima delle transizioni offensive (almeno nelle intenzioni) supersoniche dei Red Devils.
Ispiratissimo nei primi minuti, crea le sue brave difficoltà al Barça venendo a prendere palla nello spazio fra la difesa e Busquets, un movimento che inizialmente i blaugrana faticano a registrare. Oltre a questo allunga la sua squadra dettando il passaggio in profondità per lanciare il contropiede, come quando forza il cartellino giallo di Piqué. Un movimento ricorrente che dimostra la sua importanza anche nel gioco senza palla. Succede però che il possesso-palla del Barça spinge troppo dietro lo United, e separandosi dal resto della squadra anche Ronaldo viene inevitabilmente limitato. Nel secondo tempo con l’ingresso di Berbatov va largo a sinistra, ma ormai la partita è sfuggita e lui si lascia andare anche a qualche manifestazione di nervosismo. Voto: 6,5.

In panchina: Kuszczak; Rafael, Evans, Nani.

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domenica, maggio 24, 2009

Il punto sulla trentasettesima giornata.

Barcelona-Osasuna 0-1: Pandiani 25'.

Athletic Bilbao-Atlético Madrid 1-4:
Raúl García 59'(AM); Etxeita 68'(AB); Forlán 73'(AM); Forlán 77'(AM); Forlán, rig. 87'(AM).

Sevilla-Deportivo 1-0: Perotti 90'.

Almería-Espanyol 0-3: Iván Alonso 25'; Iván Alonso 71'; Coro 88'.

Villarreal-Valencia 3-1: J. Llorente 15'(Vi); J. Llorente 32'(Vi); Villa 42'(Va); Cani 67'(Vi).

Getafe-Numancia 1-0: Soldado 60'.

Málaga-Betis 1-1: Edu(B); Luque 81'(M).

Valladolid-Sporting 1-2: D. Camacho 43'(S); Jonathan Sesma 69'(V); Bilic 78'(S).

Recreativo Huelva-Racing Santander 0-1: Zigic 75'.

Real Madrid-Mallorca 1-3: Higuaín 19'(R); Arango 25'(M); Cléber Santana 58'(M); Keita 70'(M).

Due lezioni in una settimana, è troppo per il Valencia. Se con l’Atlético erano state le motivazioni e le gambe, nel derby della Comunitat Valenciana è il futbol de toque del Villarreal a far arrossire Emery. Fuori matematicamente dalla Champions il club che, e destinato a un pesante ridimensionamento. Tre gol su tre azioni alla mano, triangolazioni da un lato all’altro, un calcio armonioso e squisito che scava la nettissima differenza fra le due squadre.
Il Villarreal è discontinuo ma è sempre uno dei progetti più credibili di tutto il calcio spagnolo degli ultimi anni; il Valencia va a sprazzi, non ha una struttura solida e dipende ancora eccessivamente dal suo trio offensivo (è impossibile non dipendere dai tuoi giocatori migliori, ma c’è misura e misura). Come contro l’Atlético l’assenza di Silva ha pesato tantissimo, togliendo del tutto continuità di gioco.
Dopo una fase iniziale combattuta a centrocampo, con le squadre cortissime, in pochi metri, il Villarreal passa con una sua azione tipica: Ibagaza dalla destra si accentra, lascia la corsia al terzino Javi Venta, da questi al centro per Llorente che estrae un’altra perla da orrenda bestiaccia da area di rigore qual è (molle Maduro, ma il controllo e la conclusione fulminea del basco sono puro fiuto del gol). Ibagaza esce per infortunio (e con l’entrata di Bruno Pellegrini torna ai due centrocampisti difensivi), ma il Villarreal continua ad avere le idee molto più chiare: senza Silva centrocampo e attacco non legano, come al Calderón, si procede in orizzontale o con lanci precipitosi. Il Villarreal invece è tutto un triangolare, incrociare e sovrapporsi, una vera orchestra che esalta anche giocatori normalissimi come Javi Venta: ancora lui e ancora Llorente che incorna il 2-0.
Splendido il centrocampo dei padroni di casa: Bruno ci sguazza che è una meraviglia (nelle serate giuste, che spero arrivino più spesso in futuro, questo è un signor centrocampista), e Cani manda in sollucchero. Sottolineatura per l’aragonese: più volte indicato, giustamente, come promessa mai del tutto mantenuta, si sta proponendo su livelli alti in questo finale di stagione, dal gol al Real Madrid della scorsa giornata fino al partitone di ieri. Grande padronanza dei tempi del gioco, ora accelera, ora tocca di prima, ora tiene palla e fa salire la squadra, concretezza e raffinatezza al tempo stesso (pure un tentativo notevole da metacampo con César fuori dai pali), per una volta uomo-squadra e uomo-partita lui che ha sempre avuto il difetto di nascondersi dietro una personalità poco autorevole. Il suo bilancio globale al Villarreal resta inferiore alle attese, probabilmente in estate arriverà una cessione, ma la soddisfazione del gol di ieri è strameritata: un pochino intimorito dal 2-1 di Villa a fine primo tempo (incertezza nella difesa per il resto attenta del Villarreal, soprattutto un eccellente Godín), il Submarino nella ripresa cede il possesso-palla e cerca il contropiede. Quello buono nasce sull’asse Bruno-Pirés, ed è finalizzato proprio da Cani che trova l’unico spiraglio buono.
Resta solo da attendere buone notizie dalla radio, che però non arrivano: alla Catedral l’Atlético va giù pesante, conferma il suo gran momento di forma e rimane con tutte le carte in mano per assicurarsi il quarto posto all’ultima giornata. C’è poi Forlán che fa il passo decisivo per il Pichichi: in una partita sofferta per l’Atlético, l’uruguagio ancora una volta, l’ennesima, trascina di peso alla vittoria i suoi, con una tripletta che lo porta a 31 reti, una cifra straordinaria per qualunque attaccante, ancora di più per uno sgobbone come lui che avrebbe anche tutti motivi per non arrivare sempre lucidissimo alla conclusione a rete.
Tre gol che vanno di traverso a Eto’o, che aveva chiesto espressamente di essere risparmiato dal turnover di Guardiola in vista della finale. Non c’è trippa per il camerunese: già molto poco partecipe alla manovra in questa stagione, trovandosi a dipendere dalla squadra succede che da Xavi Torres, Gudjohnsen, Hleb depresso e Pedrito non gli arrivano tanti e buonissimi rifornimenti. Solita difesa blaugrana ballerina sul calcio d’angolo e così il Rifle Pandiani ha il gol buono per tenere vive le speranze dell’Osasuna, che nella ripresa gestisce il vantaggio davanti a un Barça non motivatissimo e certo non particolarmente affiatato nel suo undici di riserva. Entra pure il promettente difensore Muniesa, che subito si prende un rosso forse un po’severo, provocando a ruota l’espulsione di Guardiola, molto protettivo col suo canterano, per proteste (la pañolada sugli spalti del Camp Nou però dura anche troppo).
Ora è vigilia della finalissima: l’interrogativo più grande riguarda la composizione della difesa blaugrana, un serissimo fattore d’instabilità. Le squalifiche, gli infortuni, l’esaurimento di Sylvinho e la colpevole scarsa valorizzazione di elementi come Cáceres da parte di Guardiola costringe seriamente a pensare a improvvisazioni davvero ardite. Sebbene il maliano abbia messo le mani avanti esprimendo il suo diniego, Keita terzino sinistro è un’ipotesi molto concreta, che si va ad aggiungere all’altra invenzione, Touré difensore centrale (il che, fattore non secondario, implica l’utilizzo di Busquets, talentuoso ma non si sa quanto maturo per una ribalta simile).
Il Manchester United non cercherà il possesso-palla, nessuno lo cerca contro il Barça, ma questo non vuol dire che non imposterà una gara molto aggressiva, soprattutto all’inizio: gli scambi di posizione e gli incroci fra i vari Rooney, Ronaldo, tanto caratteristici nel gioco dei Red Devils, tolgono punti di riferimento e richiedono una ferrea disciplina tattica difensiva per non aprire buchi. Giocatori come Touré e Keita, con un bagaglio tattico non da difensori, potrebbero essere facilmente portati fuori posizione da questi movimenti. Guardiola non potrà certo fare appello a meccanismi rodati, quanto piuttosto affidarsi alla concentrazione, alla forza di volontà e allo spirito di sacrificio che l’eccezionalità dell’evento possono infondere anche in giocatori palesemente fuori ruolo. Il piano dovrà essere quello di tenere palla più lontano possibile dalla porta di Valdés, ma senza rischiare palle perse o giocate forzate: se possibile, tirare da lontano, tentativi anche velleitari pur di finalizzare l’azione e permettere alla squadra di recuperare le posizioni difensive senza provocare contropiedi, perché il Manchester United non ha rivali in Europa quando può ribaltare l’azione in campo aperto. Giocare sul filo dell’equilibrio, non tradendo la propria filosofia di gioco ma senza fare il passo più lungo della gamba. Il problema è che il Manchester United è anche squadra che sa competere come poche, che non si scompone di certo davanti a uno 0-0 che perdura. Ed è una squadra che avrà più carte a partita in corso per smuovere quest'eventuale 0-0: se sia Henry che Iniesta partiranno dall'inizio, a Guardiola non rimarranno più cambi davvero incisivi (non possono esserlo, per motivi diversi, i Hleb e Bojan attuali), mentre dall'altra parte Sir Alex potrà sguinzagliare un certo Tévez che entra in partita con grande facilità.
La vera carta del Barça è il puro talento, perfino superiore in alcuni giocatori a quello dello United: se Messi trova campo la partita allora può finire in qualunque modo, l’argentino da solo può ribaltare una situazione che complessivamente vede il Barça sfavorito. Importantissimo anche valutare le condizioni in cui Henry e Iniesta si presenteranno all’appuntamento: soprattutto il manchego, che potrebbe distogliere attenzioni preziose da Messi e dare al centrocampo quella capacità di penetrazione che imponga al Manchester United di recuperare palla lontanissimo da Valdés.

Ingarbugliatissima la lotta-salvezza: retrocesse matematicamente Recre e Numancia (normale, le due squadre più povere, economicamente e tecnicamente) perfino il Valladolid si è inguaiato (incredibile, se si pensa che è da un mese che si pensava bastasse una sola vittoria agli uomini di Mendillibar per mettersi al sicuro, e invece è stato letargo), e dovrà pareggiare in casa del Betis, al solito con l’acqua alla gola.
Lo scontro diretto fra Betis e Valladolid permette al Getafe rigenerato da Michel (in casa del Racing già salvo), allo Sporting (in casa col Recre) e all’Osasuna (in casa col Madrid già balneare) di dipendere da loro stessi: tre punti e sono salve. La sensazione è che faranno bottino pieno tutte e tre, e che al Ruiz de Lopera domenica prossima scorrerà tanto tanto sangue.


CLASSIFICA
1 Barcelona 86
2 R. Madrid 78
3 Sevilla 67
4 Atlético 64
5 Villarreal 62
6 Valencia 59
7 Deportivo 57
8 Málaga 55
9 Mallorca 51
10 Almería 46
11 Racing 45
12 Espanyol 44
13 Athletic 44
14 Valladolid 42
15 Getafe 41
16 Betis 41
17 Sporting 40
18 Osasuna 40
19 Numancia 35
20 Recreativo 33

CLASSIFICA MARCATORI
Forlán 31(Atlético Madrid, 5 rig.)
Eto’o 29(Barcelona, 2 rig.)
Villa 26 (Valencia, 8 rig.)
Messi 23(Barcelona, 3 rig.)
Higuaín 21(Real Madrid, 3 rig.)

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lunedì, maggio 18, 2009

L' Atlético batte un colpo.

Fino a poche settimane fa Abel Resino era un morto che camminava. Il vergognoso 5-1 incassato sul campo del Racing aveva convinto un po'tutti dell'inguaribilità dell'Atlético, e dell'assoluta dimostrata inefficacia del cambio di allenatore avvenuto a Gennaio. Tutto uguale, sempre la stessa solfa da tre anni.
Uomo del club, Abel ha messo da parte le preoccupazioni riguardanti la propria riconferma, chiamando semplicemente l'ambiente all'unità: vero, giochiamo male, il pubblico ha tutto il diritto di fischiare, ma mettiamo da parte tutto questo, sosteniamo la squadra e basta, salviamo il salvabile in questo finale di stagione. Vivendo alla giornata, improvvisando come sempre ma con la massima convinzione, l'Atlético è arrivato a giocarsi il tutto per tutto nello scontro diretto per il quarto posto con il Valencia. E se l'è giocato benone.
In una delle migliori prestazioni stagionali, nel momento più importante, l'Atlético si è imposto in maniera indiscutibile su un Valencia deludentissimo, riconquistando appieno il feeling col Calderón. Finisce 1-0, pure con un rigore inesistente, ma sarebbe stato anche più giusto un 3 o un 4 a 0.
L'Atlético schiaccia il Valencia prima di tutto sul piano della personalità e delle motivazioni. Gli ospiti hanno messo una certa tristezza, undici giocatori che non fanno una squadra, senza nemmeno la grinta per cercare l'assedio nel finale. La partita, la partita più importante della stagione, gli è scivolata addosso, e Leo Franco nemmeno si è sporcato i guanti.
La maggior reattività da parte dell'Atleti al richiamo del grande evento si è tradotta sul piano tecnico in una nettissima supremazia del centrocampo colchonero. Più compatto, con un buon pressing alto che ha fatto guadagnare metri a tutta la squadra, in difficoltà soltanto sui soliti disimpegni da brivido di Pernía e Pablo, l'Atlético ha imposto un ritmo alto macinando palloni su palloni: a partire dalla coppia Paulo Assunção-Raúl García, non esaltante quanto a immaginazione ma efficientissima (l'ex Osasuna specialmente firma un partitone), passando per un Agüero molto attivo e brillante e per le intelligenti sovrapposizioni di un ottimo Ujfalusi sulla destra (mai impiegato fino a ieri da terzino, quello che in Italia era il suo ruolo), ha invaso la metacampo avversaria costruendo numerose occasioni. Il gol arriva nella maniera più ingiusta (rigore trasformato da Forlán dopo tuffo di Agüero; non nuovo a queste prodezze il Kun, che da buon calciatore argentino purtroppo ne va pure fiero), ma è pienamente meritato.
Dall'altra parte il Valencia può pure reclamare per un fuorigioco inesistente che annulla l'azione del potenziale 1-1 di Mata, ma la squadra di Emery non c'è proprio. Scialba, priva d'anima e d'identità, scollata fra centrocampo e attacca e in difficoltà nella propria area (incerto Maduro centrale, visibilmente a disagio Alexis terzino sinistro d'emergenza). L'assenza di Silva pesa tantissimo: senza il genio canario, Emery passa dal 4-2-3-1 al 4-3-3. Edu e Baraja, mezzeali designate, non legano con l'attacco e non alzano mai il ritmo, così Pablo Hernández (inconsistente), Villa (abbandonato) e Mata (spuntato) si trovano costretti a mendicare qualche episodio estemporaneo. Che non arriva in tutta la ripresa, anzi sono Simão e Forlán (non entusiasmante la partita dell'uruguagio) a fallire occasioni ghiottissime per arrotondare il risultato.

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domenica, maggio 17, 2009

Under 17, che fregatura!

L’Europeo Under 17 che si sta svolgendo in Germania e che proporrà domani la finale fra i padroni di casa e l’Olanda, da martedì scorso non è più cosa che riguarda la Spagna, eliminata già nella fase a gironi con il misero bilancio di tre 0-0.
Una delusione per una formazione che arrivava accreditatissima (già dall’anno scorso quando come Under 16 conquistò il torneo di Santarem battendo il Portogallo addirittura per 6-0), ancora di più per le modalità con cui l’eliminazione è arrivata. Centottanta minuti di dominio sterile e sonnolento contro Italia, Francia e Svizzera, certo con incredibili occasioni divorate in ogni partita, ma anche con un gioco di squadra deficitario. Un 4-2-3-1 bloccatissimo a centrocampo, il povero Borja isolato davanti, nessuna variante degna di nota proposta da Ginés Mélendez dalla panchina, figurina per figurina qualunque cosa succedesse.
Resta comunque l’opportunità di proseguire nella valorizzazione di questo gruppo, magari con qualche ritocco, offerta dal Mondiale di categoria del prossimo autunno che si svolgerà in Nigeria, al quale la Spagna si è qualificata essendosi piazzata al terzo posto nel proprio girone. La materia prima per figurare bene c’è comunque tutta.

La difesa è il reparto che ha funzionato meglio, aiutato anche dall’affiatamento già esistente fra i suoi componenti, tutti della cantera catalana, dell’Espanyol il portiere Edgar e il terzino Blázquez, del Barça la coppia centrale Sergi Gómez-Muniesa e il terzino destro Dalmau.
Muniesa il leader e il giocatore probabilmente di maggior prospettiva: centrale mancino di personalità, rapido e agile, dal buono stacco, particolarmente dotato nell’anticipo, incisivo anche nelle ripartenze palla al piede. Più legnoso, lento e anonimo, ma affidabile, Sergi Gómez.
Convincente anche Blázquez, veloce nei recuperi e attento nei movimenti difensivi, tatticamente disciplinato e con buoni riflessi nell’uno contro uno. In fase offensiva è un discreto palleggiatore, ma il fatto di essere un destro che gioca a sinistra gli toglie un po’di profondità (quasi sempre rientra sulla trequarti per effettuare il cross, fondamentale nel quale peraltro lascia a desiderare). Più potente di Blázquez il collega di fascia destra Dalmau, un terzino energico, con molta corsa per sostenere entrambe le fasi, anche se un po’ troppo lineare nella sua azione offensiva, più muscolare che tecnico.
È piaciuto, anche se attende ulteriori verifiche, il portiere Edgar, sfrontato il giusto nell’interpretazione del ruolo, con un’ottima scelta di tempo nelle uscite basse. Spesso chiamato a fare da libero aggiunto visto l’andamento monocorde delle partite della Spagna (avversario tutto nella sua metacampo che tenta di lanciare il contropiede alle spalle della difesa spagnola), ha dimostrato grande prontezza, a parte uno svarione contro la Svizzera.

Se il pacchetto arretrato parla catalano, la mediana è dominata dalla capitale, a partire dal doble pivote Koke (Atlético Madrid)-Alex (Real Madrid). Koke è il capitano e, vedendolo muoversi in campo, si capisce presto il perché. Il più maturo della rosa, una presenza autorevole a centrocampo. Grande continuità d’azione, personalità e senso tattico, sempre al centro del gioco. Ottimo piazzamento, intercetta e rigioca palloni su palloni, è geometrico, gioca a uno-due tocchi e ha ottime aperture verso le fasce. Buon fisico, usa bene il corpo per proteggere palla. A mio avviso, si potrebbe già tranquillamente pensare a un suo graduale inserimento nella prima squadra dell’Atlético, come è stato per Camacho.
Accanto a Koke, Alex ha mostrato con minore personalità discrete doti, un buon calcio col destro specialmente (tanto da venire incaricato dei calci d’angolo e delle punizioni dalla trequarti); il problema però non è risieduto tanto nelle qualità sue e di Koke, quanto nella loro amalgama. Un doble pivote un po’troppo bloccato, poco propenso ad appoggiare l’azione offensiva, forse Alex era una sorta di doppione di Koke, e poteva bastare lasciare il solo colchonero davanti alla difesa per guadagnare un uomo in più fra trequarti e attacco. Solo spiccioli nel finale contro la Francia per Pardo (Real Sociedad).

Sulla trequarti tanta scelta, molta qualità, ma pochissimi riscontri effettivi. Isco del Valencia il giocatore esteticamente più appagante, una graziosa miniatura di numero 10. Controllo di palla superlativo, dribbling stretti, ruletas e chi più ne ha più ne metta. Notevole immaginazione anche nell’ultimo passaggio, tiro in porta che invece lascia parecchio a desiderare quanto a potenza, il punto debole è il fisico, gracilissimo, perdente in partenza al minimo contrasto. Inutile dire che a 17 anni è un difetto naturale, e che potrà essere superato completando la maturazione del giocatore.
È durato pochissimo il dualismo che si stava profilando fra lo stesso Isco e Iker Muniain, il giocatore forse più mediatico della spedizione (già aggregato in più di un occasione agli allenamenti della prima squadra dell’Athletic Bilbao, oltre che già segnalato in più di un articolo): dualismo stroncato dall’infortunio che ha costretto Muniain ad abbandonare non solo il campo ma l’intera manifestazione alla fine del primo tempo della gara con la Francia (Ginés Meléndez ha chiamato come sostituto d’emergenza l’altro valenciano Portu, impiegato agli sgoccioli dell’inutile assedio all’area svizzera). Inesistente nei 40 minuti con la Francia, Muniain aveva dato una scossa importante da subentrato nella prima contro l’Italia: a una primissima superficiale impressione, il basco mostra un cambio di passo e un uno contro uno molto incisivo. Tatticamente un po’anarchico, in più rispetto a Isco ha questa esplosività, ma sembra avere minor senso del gioco e procedere più per spunti isolati. Speriamo di poterli valutare meglio nel prossimo Mondiale, magari vedendoli insieme nell’undici titolare.
Sugli esterni, Kevin del Zaragoza a destra e il madridista Sarabia a sinistra. Kevin ha buona tecnica, gioco di gambe rapido e una discreta progressione. Più fumo che arrosto però, come molti suoi compagni, e la tendenza ad accentrarsi molto più che cercare il fondo. Anche Sarabia sembra più una mezzapunta che un esterno di ruolo: uno dei più reclamizzati il madridista, ha inciso poco pur lasciando intravedere potenzialità di tutto rispetto.Elegante, buon spunto sul breve, fa tutto col sinistro (ben calibrato nei cross e nelle punizioni). Anche lui deve irrobustirsi, nelle movenze ricorda un po’ Reyes. A destra, Cifo (Valencia) è stato il rimpiazzo di Kevin a partita in corso, più portato ad allargarsi, a cercare l’uno contro uno e a dettare il passaggio in profondità come un’ala.

Europeo amaro per Borja González (Atlético Madrid), arrivato con la qualifica di superbomber, più gol che partite con l’Under 17, ma rimasto a secco, non solo per colpa sua data la scarsa assistenza. Centravanti non raffinatissimo, conosce però il mestiere, è un lottatore che sa sgomitare e usare il corpo per conquistarsi lo spazio per il tiro, con un buon istinto negli ultimi metri. Suo concorrente, utilizzato in corsa nelle tre gare, Sobrino (Real Madrid), con caratteristiche più da seconda punta, più portato alla manovra, un interessante connubio di tecnica e fisico che merita un’altra occhiata nelle prossime occasioni.

Formazione tipo (4-2-3-1): Edgar; Dalmau, Sergi Gómez, Blázquez; Koke, Alex; Kevin (Cifo), Isco (Muniain), Sarabia; Borja González (Sobrino).

Non utilizzati Yeray (p, CD San Francisco); Saborit (d, Athletic Bilbao); Albert (d, Espanyol).

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BARCELONA CAMPIONE DI SPAGNA 2008-2009

L'ufficialità è arrivata senza nemmeno bisogno di giocare: il Barça completa una settimana trionfale grazie alla sconfitta ieri sera del Real Madrid sul campo del Villarreal (3-2). Diciannovesima Liga che si aggiunge alla venticinquesima Copa del Rey ottenuta in settimana: in attesa della finale di Champions del 27 contro il Manchester United (ieri a sua volta ufficialmente campione d'Inghilterra), il "doblete" è servito.


Una stagione che ha suscitato entusiasmi come poche altre nel tifo blaugrana, segnata da numeri impressionanti: 86 punti in trentacinque partite, 103 gol segnati e 31 subiti, 70 reti firmate dal trio Messi-Eto'o-Henry, goleade in serie e imprese storiche come il 2-6 al Bernabéu. Si è più volte sottolineato come la Liga negli ultimissimi anni abbia perso competitività e spessore, e indubbiamente una parte delle caterve di gol e di punti ottenuti da questo Barça sono arrivati a buon mercato, ma da parte loro gli uomini di Guardiola hanno interpretato e onorato il gioco nella maniera più entusiasmante possibile.
Non una squadra perfetta, nemmeno la squadra più forte del mondo come da molte parti si dice, la qualificazione immeritata col Chelsea ha evidenziato alcuni limiti, ma certamente una squadra che si è distinta per una personalità, una qualità tecnica e soprattutto una filosofia di gioco che, esposta ad annate più o meno buone come capita dappertutto, rimane un caposaldo intoccabile e probabilmente un unicum nel calcio europeo attuale (negli altri club la filosofia di gioco dipende dall'allenatore di turno; al Barça viene prima, non è più un dato contingente).

Filosofia Barça (Liverpool-Barcelona, Champions League 2001-2002)



Proprio la fedeltà alla filosofia di gioco impiantata dall'epoca di Cruijff, oltre che un abile calcolo, ha spinto Laporta e la dirigenza ad affidare la panchina a Pep Guardiola nel Maggio scorso.
Contestato, assediato, a serissimo rischio di sfiducia (la mozione di censura contro di lui, col 60% di voti sfavorevoli, non ha successo soltanto perchè non raggiunge il quorum sufficiente del 66%; intanto però spinge otto componenti della giunta direttiva a rassegnare le dimissioni), Laporta preferisce all'ingombrante figura di Mourinho quella paradossalmente (paradossalmente perchè si tratta comunque di un tecnico di esperienza quasi nulla) più rassicurante dell'allenatore che nella stagione 2007-2008 conduce il Barça Atlétic dalla Tercera alla Segunda B.
Rassicurante per i tifosi perchè strettamente legata all'eredità di Cruijff, perchè abituata ad "allenare" in campo già da giocatore e perchè mito del barcelonismo; rassicurante per Laporta perchè gli consente di ricominciare da zero, di distogliere attenzioni da sè per proiettarle su un nuovo progetto la cui riuscita possa rinnovargli il credito.


Il mercato estivo consegnava a Guardiola una rosa non troppo stravolta: Dani Alves e Hleb gli acquisti di maggior richiamo (il primo diverrà una colonna, il secondo si rivelerà il flop stagionale), Piqué il figliol prodigo, Keita importante complemento per il centrocampo, Cáceres prospetto di talento, ma per il resto gli uomini sono gli stessi delle due precedenti fallimentari stagioni.
Importante perciò lavorare sul morale, sull'ambizione e sulla compattezza dello spogliatoio: in questo senso la prima decisione di Guardiola, annunciata a chiare lettere nella conferenza stampa di presentazione, è la più significativa. Via Ronaldinho, via Deco e via Eto'o: due fuoriclasse in declino e sempre meno in sintonia con l'ambiente, e un personaggio esplosivo e imprevedibile nelle proprie uscite come il camerunese.
Alla fine Eto'o rimane, nell'impossibilità di trovare un sostituto di pari garanzie sul mercato e anche di fronte alle pressioni del resto della squadra, ma la linea è chiara: Messi è la stella, mentre nello spogliatoio comandano i canterani Puyol, Xavi, Iniesta, Valdés etc. Vivaio che viene ancora più sfruttato da Guardiola (con gli inserimenti in prima squadra di Pedro, Víctor Sánchez e soprattutto Busquets) che in alcuni casi arriva a schierare nella formazione titolare più del 50% di giocatori provenienti dal settore giovanile. Ora tutti remano nella stessa direzione.


Più rigido dal punto di vista disciplinare di Rijkaard (ma questa non è una critica al metodo dell'olandese: dare libertà e fidarsi del senso di responsabilità di professionisti maggiorenni non è un misfatto, il problema sopraggiunge quando questi professionisti tradiscono la tua fiducia), Guardiola dai primi giorni di precampionato calca la mano sul sacrificio collettivo e sull'intensità di gioco. Già nelle prime amichevoli si intravede un Barça portato a un gioco ultra-aggressivo, un pressing altissimo a partire dagli attaccanti e grande facilità nel creare occasioni e andare in gol.
Sensazioni che sfumano con il Trofeo Gamper col Boca, il ritorno del preliminare di Champions col Wisla Cracovia e soprattutto la sconfitta sul campo del Numancia alla prima di campionato, nettissimi passi indietro sul piano del gioco.

La seconda giornata segna un'importante svolta. In casa col Racing Guardiola sforna un undici "provocatorio", Busquets e Pedro in campo dal primo minuto quasi a voler sottolineare l'importanza dei giocatori che sappiano tradurre fedelmente l' idea di gioco del tecnico prima ancora dei nomi noti . Buon calcio, tantissime occasioni, ma è soltanto un 1-1 beffardo. Non importa: il guru Cruijff dà la sua benedizione dalle colonne del "Periodico de Catalunya" ("giocando così, si arriva lontano"), e dal turno successivo, col 6-1 sul campo dello Sporting, inizia il circolo virtuoso delle goleade.
Il salto di qualità decisivo arriva nel cosiddetto "Tourmalet", la serie di sfide contro le altre big del campionato, risolta con facilità irrisoria e brillantezza sbalorditiva: 12 punti su 12 contro Sevilla, Valencia, Real Madrid e Villarreal, 11 gol fatti e uno solo subito, una dimostrazione di superiorità inquietante.
I punti di vantaggio sul Real Madrid diventano dodici, il cuscinetto sul quale i blaugrana costruiscono la loro vittoria finale.
C'è un momento di crisi però: fra Febbraio e Marzo il Barça pareggia in casa del Betis, perde il derby casalingo con l'Espanyol e in casa dell'Atlético, col Real Madrid che arriva a 4 punti di distacco. La partita del Vicente Calderón è addirittura allarmante, perchè si torna a vedere un Barça come quello delle due stagioni precedenti, privo di coesione fra i reparti, e pure la qualificazione col fiatone alla finale della Copa del Rey (se non ci fosse Pinto a parare il rigore di Martí...) lascia perplessi, ma la cosa finisce qui.
Il Barça dalla vittoria casalinga con l'Athletic riacquista continuità nei risultati e fluidità di gioco (fondamentale il ritorno dall'infortunio di Iniesta, stabilmente mezzala sinistra), fissa il distacco a +6 dal Madrid, distacco che si riduce a +4 con il pareggio a Mestalla, nella gara più impegnativa e di maggior spessore dell'intera Liga. Frenata che però non toglie convinzione agli uomini di Guardiola, che vanno a fare la storia al Bernabéu, ipotecando una Liga che da ieri è realtà.


VIDEO

LIGA

Sporting-Barcelona 1-6 (primo tempo; secondo tempo)
Barcelona-Betis 3-2
Espanyol-Barcelona 1-2
Barcelona-Atlético Madrid 6-1
Barcelona-Almería 5-0
Málaga-Barcelona 1-4
Barcelona-Valladolid 6-0
Sevilla-Barcelona 0-3
Barcelona-Valencia 4-0
Barcelona-Real Madrid 2-0
Villarreal-Barcelona 1-2
Osasuna-Barcelona 2-3
Barcelona-Deportivo 5-0
Barcelona-Numancia 4-1
Racing Santander-Barcelona 1-2
Barcelona-Sporting 3-0
Betis-Barcelona 2-2
Barcelona-Espanyol 1-2
Atlético Madrid-Barcelona 4-3
Barcelona-Athletic Bilbao 2-0
Almería-Barcelona 0-2
Barcelona-Málaga 6-0
Barcelona-Sevilla 4-0
Valencia-Barcelona 2-2
Real Madrid-Barcelona 2-6 (primo tempo; secondo tempo)
Barcelona-Villarreal 3-3


COPA DEL REY


Sedicesimi
Benidorm-Barcelona 0-1
Barcelona-Benidorm 1-0

Ottavi
Atlético Madrid-Barcelona 1-3
Barcelona-Atlético Madrid 2-1

Quarti
Espanyol-Barcelona 0-0
Barcelona-Espanyol 3-2

Semifinali
Barcelona-Mallorca 2-0
Mallorca-Barcelona 1-1

Finale
Barcelona-Athletic Bilbao 4-1

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giovedì, maggio 14, 2009

El Rei de copes.

Il Barça è campione di Coppa del Re, oggi e nella storia. Con ieri sono venticinque, scavalcato proprio l’Athletic a 23+1 (la famosa “Copa de la Coronación” del 1902, antesignana non riconosciuta dell’attuale Copa del Rey), nella finale più finale che questa competizione storicamente potesse avere.
Verdetto un po’ingeneroso nelle dimensioni verso l’Athletic e la sua spettacolare tifoseria (due macchie però: i fischi assordanti durante l’inno spagnolo, peraltro ampiamente preventivabili da parte di entrambe le tifoserie, e la lattina che ha colpito in testa Alves, ma anche qui vanno applauditi quei tifosi baschi che prontamente isolano e segnalano alla polizia il colpevole), ma che rispecchia appieno il divario fra le due squadre.
Si pensava che l’eccezionalità dell’evento e l’orgoglio dell’Athletic(che appartiene alla realtà ancor più che alla retorica) potessero equilibrare la sfida e magari favorire la sorpresa, ma la sensazione è durata solo una mezzora, fino al pareggio di Touré.
Alla lunga ha prevalso inesorabilmente la qualità blaugrana e l’Athletic, incapace di ribattere colpo su colpo, ha finito col non reggere lo stress di una partita giocata quasi interamente nella propria metacampo e in fase di non possesso.

L’Athletic prevale in avvio, approccio nettamente più determinato quello degli uomini di Caparrós, che schiera il mancino Yeste a destra e David López a sinistra. Guardiola ripete l’esperimento Touré centrale, spostando Puyol sulla sinistra; come previsto Bojan (centro) e Eto’o (sinistra) accompagnano Messi in attacco.
Aggressività e voglia di giocarsela con le proprie armi anche nella metacampo avversaria, i primi 10 minuti dell’Athletic sono eccellenti: non solo si chiude a riccio ma manovra cercando di evidenziare i punti deboli nello schieramento del Barça. Esemplare l’azione che precede il gol zurigorri: Caparrós decide di concentrare le proprie migliori fonti di gioco sulla destra, pensando con Iraola e Yeste di attaccare quello che non a torto ritiene il lato più debole del Barça. Iraola porta palla e si sovrappone permettendo a Yeste di accentrarsi, Eto’o non ripiega, Keita deve allargarsi per aiutare Puyol lasciando uno spazio al centro nel quale si inserisce Javi Martínez che impegna Pinto in calcio d’angolo. Calcio d’angolo, quindi terrore nelle file blaugrana: come volevasi dimostrare, Toquero salta fra Keita e Xavi, morbidissimi, e scatena il delirio.
Il Barça non trova il passo, l’Athletic pressa a partire dagli attaccanti (commovente Toquero, interessante poi il dettaglio tattico di Caparrós, che manda i due attaccanti a pressare i difensori avversari direttamente sul calcio dal fondo, in modo da forzare il rinvio lungo di Pinto e far valere la superiorità sulle palle alte a metacampo) e gioca con le maglie molto strette sia in difesa che a centrocampo. Yeste e David López si aggiungono al centro ancor più che presidiare le fasce, per garantire la superiorità numerica su Busquets-Xavi-Keita; la linea difensiva è molto concentrata, pronta nell’accorciare, coi giocatori ravvicinati e pronti a darsi la copertura reciproca, mentre Koikili segue Messi a uomo, attentissimo a non farlo girare.
Ma quello che succede è che col passare dei minuti l’Athletic arretra eccessivamente, fino a impostare una resistenza assolutamente insostenibile lungo tutti i 90 minuti. Llorente sprofonda ben oltre il cerchio di centrocampo, isolando Toquero. L’Athletic rimane senza la capacità di far salire la squadra di Fernandote, e comunque i metri da percorrere fino alla porta di Pinto sono un’enormità, ancora di più per Toquero che non ha né la qualità né il passo per fare davvero male (però Gaizka, il “Quasi-eroe” per caso, procura un buon giallo a Touré). Al Barça si fa male solo se lo si costringe ANCHE a guardarsi alle spalle, ma la difesa dell’Athletic sparacchia tutti i palloni e la squadra non ha proprio modo di ripartire e distendersi (Yeste a questo punto c’è ma è come se non ci fosse, non per colpa sua: forse a quel punto si poteva spostare Fran davanti alla difesa per raccogliere il pallone e rilanciare assieme a Orbaiz, ma sono considerazioni a posteriori che lasciano il tempo che trovano).
Così succede che anche il Barça imbavagliato dei primi minuti una continuità di gioco la acquista per forza, volente o nolente: se Piqué e Touré recuperano e rigiocano senza disturbo tutti i palloni che passano per la linea di metacampo, la partita per quelli in maglia biancorossa si fa davvero troppo lunga.
Barça che comunque manca di fluidità e fatica ad allargare il gioco: a destra Messi è in gabbia mentre Alves conferma la scarsa forma di questo finale di stagione (non dà profondità, non sorprende sovrapponendosi senza palla), mentre a sinistra le risorse sono scarse, conseguenza arcinota delle assenze di Henry e Iniesta. Per un Keita che gioca una partita tatticamente intelligentissima, allargandosi e offrendo sempre una soluzione buona al portatore di palla (uno dei più in forma in questo periodo il maliano: attenzione alla possibile sorpresa per Roma, e cioè un suo utilizzo da terzino sinistro qualora tornassero disponibili in tempo sia Henry che Iniesta), c’è un Puyol che non può dare spinta e un Eto’o che non ha le caratteristiche di Henry e tende più a pestarsi i piedi con Bojan che ad aprire il campo.
Comunque, con l’Athletic sprofondato, i blaugrana hanno tutto il tempo e le individualità dalla loro: in mancanza di manovra corale, è proprio un’azione personale a sbloccare la rimonta. Touré da manuale: si è sempre sottolineato l’analfabetismo tattico delle sue iniziative palla al piede, ma si è anche rilevato l’effetto-sorpresa delle stesse, ed ecco il gol di ieri. Improvvisazione fuori copione, ma decisiva: con tutti i compagni marcati, l’ivoriano parte in slalom e piazza un destro da fuori che, leggermente deviato da Amorebieta, sorprende Iraizoz sul primo palo.
Roba da impiccagione nel caso venisse tentata contro il Manchester United, ma che lascia il segno in una partita in cui l’Athletic ha impegnato pochissimo Yaya, rendendone del tutto ingiudicabile la prestazione difensiva in chiave finale di Champions.
A questo punto anche l’effetto psicologico passa dalla parte catalana, e mixato con la fatica che per i baschi implica il dover costantemente correre dietro il pallone, fa scoppiare la partita. È nella ripresa che, in pochi minuti, il Barça legittima la propria superiorità: l’Athletic per un fatto fisiologico allarga le maglie, e Messi trova campo. Spostatosi in zona centrale (Koikili non lo segue per non rischiare di lasciare sguarnita la propria zona), la Pulga ha spazio per le proprie percussioni sulla trequarti che squarciano la difesa dell’Atlético: segna il gol del 2-1, poi ispira il 3-1 di Bojan (fin lì da censura il bimbo: c’è poco da fare, al di là del gran colpo da biliardo del suo gol non regge ancora il confronto fisico coi difensori avversari e nemmeno la tensione psicologica di partite come questa), infine procura la punizione pennellata quasi all’incrocio dal Maestro Xavi.
Chiusura anticipata, spazio ai comprimari, e grande manifestazione di sportività e amore per i propri colori della tifoseria dell’Athletic Bilbao. Questo lo avrà apprezzato anche Juan Carlos.

Athletic 1 - Barcelona 4

Athletic Club (4-4-2): Iraizoz 6; Iraola 6,5, Aitor Ocio 6, Amorebieta 6,5, Koikili 6,5; Yeste 6, Javi Martínez 6, Orbaiz 6(Etxeberría s.v., m.61), David López 5,5(Susaeta s.v., m.56); Toquero 6,5(Ion Vélez s.v., m.61), Llorente 5,5.
Barcelona (4-3-3): Pinto 6; Dani Alves 6, Touré Yayá 6,5(Sylvinho s.v., m.89), Piqué 6, Puyol 6; Xavi 7(Pedro s.v., m.88), Busquets 6, Keita 7; Messi 7, Bojan 6,5(Hleb s.v., m.84),Eto’o 5,5.

Goles: 1-0, m.9: Toquero. 1-1,m.32: Touré Yayá. 1-2,m.55: Messi. 1-3, m.57: Bojan. 1-4,m.64: Xavi
Árbitro: Luis Medina Cantalejo (comité andaluz). Amonestó por el Athletic de Bilbao a David López (m.31) y Koikili (m.36) y por el Barcelona a Touré Yayá (m.22), Messi (m.50) y Keita (m.50). Incidencias: partido final de la Copa del Rey disputado en el estadio de Mestalla ante 50.000 espectadores llegados de Bilbao y Barcelona con mayor presencia de seguidores del conjunto vasco. Terreno de juego en buenas condiciones.

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martedì, maggio 12, 2009

Copa del Rey: speciale finale.

Raggruppo in un unico post i due articoli su Athletic Bilbao e Barcelona, in modo da permettere una lettura più comoda.

Presentazione Athletic (Edoardo Molinelli)

Presentazione Barça (Valentino Tola)

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Finale Copa del Rey: presentazione Athletic.

Edoardo Molinelli, alias Edo 14, curatore del blog italiano non ufficiale sull'Athletic Bilbao, ci offre ancora la sua gentile collaborazione per presentarci l'Athletic Bilbao in vista della finale di domani. Anche qui, stessa formula: un occhio alla finale di Copa e uno all'intera stagione bilbaina.

Se i risultati ottenuti fossero l’unico metro di giudizio per stimare il lavoro di un allenatore, di certo Caparros dovrebbe ricevere solo elogi per come ha condotto l’Athletic nelle ultime due stagioni. Due salvezze centrate con largo anticipo, senza troppi problemi, e una finale di Copa del Rey raggiunta dopo 25 anni di assenza dei biancorossi dall’atto conclusivo di tale manifestazione sono medaglie che risplendono in maniera accecante sul petto del generale Jokin, specie alla luce delle tribolatissime stagioni che hanno preceduto il suo insediamento a Bilbao.
Rifuggendo dalla logica tipicamente italiana del risultato, che porta ad isolare solo l’aspetto più evidente, ancorché decisivo, del percorso di un tecnico, è tuttavia impossibile non notare che alcuni degli obiettivi a lungo termine che erano stati fissati dalla dirigenza non sono stati del tutto soddisfatti. In particolare, la gestione Caparros si è distinta finora per la totale assenza di un gioco riconoscibile, una sorta di marchio di fabbrica che permetta agli appassionati di riconoscere lo stile e l’approccio della squadra a prescindere dal contesto di una singola partita.

Come gioca l’Athletic? In tutta franchezza, dare una risposta tecnicamente ineccepibile non è facile, tutt’altro. Cominciamo dicendo che lo schema unico praticato dai biancorossi è un 4-4-2 rigidissimo, nel quale ogni giocatore è tenuto a mantenere la propria posizione in maniera quasi scolastica. In fase di non possesso, le due ali rientrano ben oltre la propria metà campo per aiutare i terzini e uno dei due mediani (di solito Javi Martinez, più veloce e reattivo del collega Orbaiz) è sempre pronto ad abbassarsi fin dentro l’area se il pressing nel settore centrale del centrocampo viene aggirato; l’altro pivote resta qualche metro più avanti, pronto a far partire l’azione di rimessa e a cercare Llorente, che solitamente rimane il riferimento offensivo più avanzato e centrale, mentre la seconda punta parte da una delle due fasce. La tattica difensiva di Caparros prevede pertanto la quasi totalità dei giocatori dietro la linea della palla e l’unica discriminante diventa il tipo di pressing portato dai suoi: se l’Athletic deve aggredire, la linea difensiva si alza e la pressione sui portatori di palla avversari inizia fin dalla loro trequarti, altrimenti i rivali vengono aspettati dentro la metà campo biancorossa (questo avviene soprattutto quando i Leoni si trovano in vantaggio).

Inutile sottolineare come il gioco di rimessa sia quello più gradito ai bilbaini, che possono in tal modo ovviare con l’aggressività e i ribaltamenti veloci alle gravi carenze in fase di manovra che palesano da quando il tecnico di Utrera siede sulla loro panchina. Non sono più i tempi di Valverde, che giocava con un 4-2-3-1 capace di un’intensità straordinaria in fase offensiva e di grande armonia nei movimenti senza palla e nella distribuzione della stessa, anche se, a ben guardare, per com’è costruita questa rosa lo schema ad un’unica punta sembrerebbe il migliore (i reduci dell’era-Txingurri, peraltro, sono ancora parecchi). Caparros non è di questo avviso e ha sempre imposto il suo schema preferito come una specie di dogma, sacrificando sull’altare del 4-4-2 la qualità di Yeste trequartista, le maggiori opzioni che si aprirebbero ad un’ala come Susaeta se solo giocasse qualche metro più avanti e la possibilità per Llorente di giostrare come attaccante unico, referente assoluto per i cross e gli assist dei trequartisti. L’utrerano non ha mai neppure provato una tattica del genere e ha sempre preferito giocare con le due punte, confermando il vecchio adagio secondo il quale la pericolosità e il peso offensivo di una squadra non dipendono necessariamente dal numero degli attaccanti schierati sul terreno verde. Non basta, infatti, aggiungere un altro elemento in avanti se poi la manovra si sviluppa secondo direttrici limitate e pure piuttosto scontate, facilmente prevedibili da avversari attrezzati in maniera adeguata sul piano tattico e ben organizzati in fase difensiva.

Il gioco dell’Athletic è di lettura piuttosto semplice per le squadre rivali perché si sviluppa essenzialmente su due assi: la fascia destra, sempre alta di giri grazie alle percussioni instancabili di Iraola e alla buona intesa che questi crea con l’ala di riferimento, e il corridoio centrale verso Llorente, percorso sia attraverso il lancio lungo dalla difesa (definizione gentile del termine “pallonata”) che tramite il dialogo palla a terra. Non proprio una grande varietà di soluzioni, insomma. Per fortuna dei Leoni, quest’anno Nando è stato immarcabile per molte coppie centrali della Liga, anche di pregio, e le sue prestazioni sono sempre state all’altezza, non solo dal punto di vista dei gol fatti ma anche della capacità di creare spazi e di far segnare i compagni con le sue spizzate e le sue sponde intelligenti; proprio in questa pesantissima incidenza sul gioco della squadra, più che nel numero delle reti segnate, risiede l’importanza fondamentale di Llorente nell’economia del gioco biancorosso: disinnescare lui significa togliere all’Athletic il 70/80% di potenziale offensivo, e ormai qualunque allenatore iberico lo sa. Il difetto principale di Caparros è stato il non riuscire a studiare soluzioni alternative alla ricerca ossessiva del suo numero 9, al netto di una ristrettezza nel parco attaccanti di cui bisogna sempre tenere conto: è in questa mancanza di schemi e di alternative che risiede la critica principale mossa all’utrerano da parecchi mesi a questa parte, da quando cioè anche i sassi si sono resi conto che questa squadra si regge su qualità che esulano completamente dall’aver sviluppato un’idea di gioco personale.

I Leoni sono la squadra forse più umorale della Liga e non a caso il loro percorso in campionato somiglia ad un tracciato di montagne russe: un saliscendi continuo, un alternarsi senza sosta di cadute fragorose e grandi imprese che non facilita il compito di chi deve giudicare l’annata dei bilbaini. Ciò è dovuto principalmente al fatto che i biancorossi hanno giocato “di pancia” più che di testa, lasciandosi spesso guidare dalle emozioni e dalla spinta del pubblico e non dal freddo raziocinio di schemi e alchimie tattiche collaudate; nei momenti migliori l’Athletic ha così ottenuto risultati fantastici (uno per tutti, il 3-0 della semifinale di ritorno rifilato al Siviglia), ma ha poi finito per perdersi ogni volta che le energie mentali diminuivano d’intensità. Questa stretta dipendenza da fattori psicologici ed emozionali si riflette senza dubbio sul gioco della squadra: quando i Leoni sono in giornata-sì attaccano a folate continue, specie sulle fasce, pressano senza soluzione di continuità e costringono spesso gli avversari nella loro metà campo, annichilendoli con una ferocia agonistica che tocca punte di puro furore; risulta chiaro, però, che situazioni del genere non possono durare nel lungo periodo (spesso non durano neppure per una partita intera…) ed ecco spiegati certi blackout a prima vista incomprensibili, forieri di prestazioni oscene anche a seguito di brillanti vittorie o di primi tempi eclatanti. Ovviamente la squadra palesa enormi difficoltà quando non riesce a trovare la giusta sintonia col match, ovvero nel momento in cui, esaurita la carica agonistica, una compagine decente dovrebbe iniziare a masticare calcio, per quanto semplice possa essere. L’Athletic raramente lo fa e non perché non abbia dei buoni palleggiatori, che nella rosa ci sono eccome; semplicemente, il suo tecnico li tiene isolati e senza raccordi tra loro, impedendo di fatto il dialogo stretto a dei giocatori che potrebbero dare del tu al pallone. Emblematico, in tal senso, è il caso di Yeste che, nonostante sia l’unico elemento realmente disequilibrante del centrocampo basco, viene esiliato sulla fascia sinistra e si trova così lontano dal cuore pulsante del gioco, lui che potrebbe essere decisivo come pochi se solo giocasse centralmente e a ridosso dell’area avversaria. Fran rimedia talvolta a questa situazione seguendo l’istinto e accentrandosi, ed è proprio dai suoi movimenti a tagliare che nascono alcune delle situazioni più interessanti in fase offensiva, anche se la squadra paga i pochi inserimenti di Koikili e una mancanza generale di movimento senza palla che talvolta è quasi disarmante.
Gli unici a fornire opzioni di passaggio in fase di possesso, infatti, sono Iraola, Javi Martinez, la seconda punta (Toquero o Velez) e Llorente, il quale ogni tanto prova ad allargare la difesa spostandosi sulla fascia per fare spazio agli inserimenti da dietro o per tentare la conclusione da fuori. Gli altri si muovono pochissimo, ancorati come sono alle disposizioni di Caparros, e davvero non si comprende perché gli esterni debbano restare spesso appiccicati alla linea laterale quando avrebbero davanti una boa dai piedi buoni, capace cioè di triangolare con profitto tenendo la palla a terra.

Situazione disastrosa, dunque, in vista del Barcellona? Basandosi solo su un’analisi tecnico-tattica e sulla lettura della classifica, in cui i catalani hanno quasi il doppio dei punti dell’Athletic, parrebbe proprio di sì, ma per fortuna il calcio non è uno sport esatto e la sorpresa è sempre in agguato. E’ indubbio, tuttavia, che i Leoni dovranno giocare la partita perfetta per avere qualche possibilità, sperando nel contempo che gli uomini di Guardiola arrivino a questo appuntamento più spompati e confusi del solito.
Caparros ha due opzioni davanti a sé: difendere con 10 uomini dietro la linea di centrocampo, come ha fatto il Chelsea in Champion’s, oppure tentare la carta dell’aggressività e del pressing altissimo per soffocare la vena dei palleggiatori del Barça. Due tattiche diversissime e rischiose, ognuna a suo modo. Pensare solo a difendersi potrebbe essere poco salutare, visto che un gol i catalani possono sempre trovarlo (e comunque i difensori e i contropiedisti biancorossi non sono propriamente quelli del Chelsea…si rischia una figura da Bayern, più che altro), ma allo stesso tempo partire a cento all’ora fin dal fischio iniziale lascia presagire inquietanti scenari una volta che i giocatori abbiano esaurito le energie. Tre sono gli uomini chiave dell’Athletic: Koikili, che dovrà controllare Messi (auspico in tal senso una marcatura a uomo, stile Bosingwa al Camp Nou), Javi Martinez, che porterà il pressing sui centrali di centrocampo del Barcellona, e ovviamente Llorente, sul quale graverà quasi completamente il peso dell’attacco. Elementi importanti saranno Iraola e Susaeta, qualora dovesse giocare, senza dimenticare il lavoro sporco di Toquero, fondamentale per soffocare l’azione avversaria sul nascere. La variabile impazzita? Yeste, senza dubbio. E’ l’unico in grado di inventare qualcosa e senza dubbio “sente” moltissimo il match, lui che ha fornito le prestazioni migliori della sua carriera proprio contro le squadre più forti.
Inutile rimarcare che il Barça è il favorito d’obbligo, ma i Leoni non hanno nulla da perdere e pertanto potranno giocare con meno pressione. Speriamo che la partita non deluda le attese e che, a prescindere dal risultato, i 22 in campo ci regalino una partita epica come quella di 25 anni fa.
Buona finale a tutti!

Possibile formazione di domani


Athletic uno per uno.

Iraizoz: portiere affidabile, di certo non è un fenomeno ma ha saputo trasmettere sicurezza al reparto arretrato dopo un paio di stagioni alquanto traumatiche. Dal punto di vista tecnico è piuttosto rivedibile, tuttavia possiede un buon senso della posizione e tra i pali è molto efficace, nonostante uno stile poco ortodosso. I suoi punti di forza sono l’agilità e i riflessi straordinari, mentre difetta in maniera spiccata nelle uscite alte e, più in generale, nel comando della propria area sui cross e in occasione dei calci piazzati. Attualmente è in buona forma e sta garantendo delle prestazioni discrete. E’ l’unico giocatore dell’Athletic, insieme ad Aitor Ocio, ad aver vinto in passato la Coppa del Re, anche se ovviamente con un’altra squadra (nel suo caso con l’Espanyol).
Iraola: eccezionale. Basta questo aggettivo per definire il terzino destro di Usurbil, sbarcato (era l’ora!) in nazionale in virtù di una stagione eccellente sotto tutti i punti di vista. Fatte le debite proporzioni, Iraola è quello che Maicon e Alves sono per Inter e Barcellona, ovvero un regista aggiunto e non solo un semplice fluidificante. Le azioni dell’Athletic partono spesso dai suoi piedi e costante è lo spostamento dell’azione offensiva sul settore destro, dove le doti tecnico-tattiche di questo straordinario giocatore non tradiscono mai la fiducia dei compagni. Corsa, capacità di palleggio, visione di gioco, discreto uno contro uno e destro educato: Andoni doveva solo imparare a difendere per migliorare ulteriormente, e si può dire che con Caparros sia progredito davvero molto sotto questo punto di vista. E’ il vicecapocannoniere della squadra e sarà senza dubbio uno dei pochi elementi che i catalani dovranno preoccuparsi di guardare a vista.
Aitor Ocio: chiamato l’anno scorso per tamponare le falle di una difesa colabrodo, l’ex del Siviglia ha disputato fin qui una temporada in tono minore dopo le buone prestazioni offerte nella sua prima stagione da cavallo di ritorno. Centrale molto esperto e forte di testa, sa guidare la difesa e ha un buon senso della posizione, tuttavia va sovente in difficoltà contro avversari tecnici e veloci a causa del passo lento e di una certa macchinosità che palesa nello stretto; ha bisogno di protezione, insomma, e se il centrocampo non accorcerà in modo adeguato sarà esposto a delle brutte figure contro l’attacco blaugrana. Come detto in precedenza, quest’anno ha avuto un rendimento al di sotto delle aspettative, soprattutto a causo di un evidente calo fisico e di un certo nervosismo (vedere per credere alcune espulsioni che ha rimediato) che ne hanno condizionato le prestazioni, ma si è ritrovato comunque titolare a causa dei perenni infortuni di Ustaritz e dell’ancor scarsa maturità di Etxeita. Ha vinto una Copa del Rey con la maglia del Siviglia e di certo la sua esperienza sarà fondamentale in questa partita, con tutta probabilità l’ultimo incontro importante che il vitoriano affronterà nella sua carriera.
Amorebieta: grandissimi mezzi fisici e poco sale in zucca. Questo, in poche parole, il ritratto perfetto del basco-venezuelano, un corazziere tanto fornito di forza, resistenza e prestanza atletica quanto poco provvisto di intelligenza calcistica e senso tattico. Amorebieta ha tutto quello che serve per essere un grande centrale: fisico imponente, stacco imperioso, velocità non disprezzabile nei recuperi, potenza nei contrasti e capacità di “farsi sentire” nel contatto ravvicinato con l’avversario; Madre Natura, purtroppo, non l’ha però provvisto di un’adeguata capacità di posizionamento (i buchi centrali che lascia l’Athletic sono spesso opera sua) e di quel senso della misura che distingue un buon difensore da un macellaio. Rude e rozzo oltre ogni limite, Nando picchia moltissimo e spesso a sproposito, facendosi notare per delle entrate assurde a metà campo o per degli interventi assassini che vedrebbe anche un miope; tecnicamente poco dotato, nonostante un sinistro non disprezzabile quando calcia lungo, palesa tutti i suoi limiti quando viene pressato e sparacchia in curva senza riflettere. Ottimo lo scorso anno, tanto che si scomodarono per lui osservatori del Liverpool e di altre squadre inglesi, in questa stagione ha faticato molto anche a causa di una forma mai del tutto trovata, e in parecchi hanno compreso che il centrale autoritario visto nella Liga passata è ancora di là da confermarsi. E’ comunque in ripresa e sicuramente un cuore Athletic come lui sarà più che carico in vista della storica finale di mercoledì.
Koikili: l’uomo atteso dal compito più improbo, marcare Messi, è forse anche quello che più incarna lo spirito di questa squadra. Fino all’anno scorso Koikili Lertxundi era infatti un giocatore sconosciuto, con trascorsi in Tercera e Segunda B del tutto irrilevanti; prelevato in estate dal Sestao River per rimpinguare le fila del Bilbao Athletic, venne incluso a sorpresa da Caparros nella rosa della Prima squadra e si guadagnò il rispetto di tutto il calcio spagnolo a suon di prestazioni eccellenti. Un ragazzo venuto dal nulla capace di imporsi in Primera grazie al lavoro, all’umiltà e all’abnegazione: quale miglior esempio delle caratteristiche morali che da sempre sostengono il club basco? Koikili è senza dubbio un calciatore particolare: ha un fisico piccolo e tozzo, retaggio evidente del suo passato di ex campione nazionale di lotta greco-romana, è duro nei contrasti ma sempre corretto, raramente polemico, spesso cavalleresco nei confronti degli avversari; il suo sinistro non è eccezionale, ma sa pennellare cross discreti per le punte e ogni tanto esplode delle gran bordate da fuori. Dal punto di vista tecnico è un giocatore di almeno una categoria inferiore rispetto al torneo in cui milita, ma riesce a mascherare le sue notevoli lacune con un modo di interpretare la gara generoso e improntato al sacrificio. La sua dedizione alla causa è assoluta, come dimostrato dall’atteggiamento ineccepibile tenuto a inizio stagione, quando faceva panchina per lasciare spazio a Balenziaga: Koi non si è perso d’animo e ha risposto solo in allenamento e sul campo, meritandosi il ritorno fra i titolari e questa finale che per lui, forse più che per gli altri, è un sogno divenuto realtà.
David Lopez: l’ex dell’Osasuna ha compiuto un percorso inverso rispetto ad altri compagni di squadra, migliorando cioè nella temporada attuale dopo aver disputato un primo campionato in biancorosso assai poco soddisfacente. Personalmente non è un giocatore per cui impazzisco, anche perché molto lontano, come caratteristiche, dalla mia idea di ala: scarsamente veloce, in possesso di un repertorio di dribbling assai limitato e poco dotato nel breve, il riojano è un esterno che fa della continuità di corsa il suo marchio di fabbrica; più quantità che qualità, dunque, anche se il suo piede destro è davvero degno di nota, capace com’è di servire grandi assist ai compagni e di battere ottimi calci piazzati. Elemento regolare e predisposto a dare una mano in fase di ripeigamento, non chiedetegli di inventare qualcosa o di dare una scossa al match con un’accelerazione improvvisa seguita da un paio di dribbling e un assist geniale; i blaugrana dovranno comunque diffidare dei suoi angoli e delle sue punizioni, che batte molto tagliati e con un grande effetto.
Orbaiz: quando Iñaki Saez, ex tecnico della Furie rosse, lo definì qualche anno fa uno dei migliori centrocampisti della Liga, in molti addetti ai lavori la pensavano come lui su questo regista classico, dotato di una visione di gioco eccellente, di un tocco pulito e di una capacità di aprire il gioco con pochi eguali nel massimo torneo spagnolo. L’Orbaiz attuale, tuttavia, è solo una copia sbiadita del mediano che formò una coppia stratosferica col mastino Gurpegi ai tempi di Valverde: due infortuni gravissimi ad entrambe le ginocchia ne hanno minato il fisico, riducendo di molto la sua velocità di passo già non eccelsa e togliendogli anche quel poco di dinamismo che ha sempre avuto. “Don Pablo” non ha perso la sensibilità del piede destro e la capacità di leggere il gioco con profitto, ma è indubbio che ormai riesca ad esprimere al meglio le sue qualità solo quando il ritmo di gara resta basso; non appena la velocità aumenta, infatti, le sue pecche fisiche vengono a galla e la lucidità che ha sempre dimostrato di possedere viene fatalmente annebbiata da una tenuta atletica quasi del tutto compromessa. Caparros lo schiererà titolare, sia perché è uno dei suoi fedelissimi, sia perché non vi sono altri registi di ruolo in rosa, tolto il quasi desaparecido Muñoz che il tecnico di Utrera ha mostrato chiaramente di non “vedere”: un rischio, visto il dinamismo del centrocampo blaugrana, ma difficilmente il tecnico azzarderà una mossa a sorpresa proprio in occasione della finale.
Javi Martinez: senza dubbio colonna di questo Athletic e tra i primi biancorossi per livello di rendimento, il giovane navarro ha disputato una stagione fin qui inappuntabile e ha compiuto un altro deciso passo avanti verso la maturazione definitiva. Javi Martinez non è un regista e neppure un mediano puro, bensì un centrocampista moderno nella piena accezione del termine, capace cioè di difendere e attaccare, di dare una mano in fase di contenimento e di appoggiare l’azione offensiva con medesima efficacia. Non è un fine palleggiatore, ha scarsa visione di gioco e tecnicamente non è un fenomeno, ma ha dalla sua uno strapotere fisico che gli permette di imporsi anche da solo nei confronti di linee mediane formate da due o tre avversari; in fase di ripiegamento assiste da vicino i difensori, ma quando parte l’azione di rimessa lo si trova subito in appoggio alle punte grazie alla capacità quasi prodigiosa di recuperare e di proporsi in avanti con progressioni imperiose, anche palla al piede (cosa di cui si dovrebbero ricordare molto bene i tifosi dell’Atletico Madrid). Quest’anno è finalmente diventato più consistente in zona-gol, mettendo a frutto nel migliore dei modi la capacità d’inserimento, lo stacco di testa e il buon tiro dalla distanza di cui è dotato. Mercoledì sarà fondamentale la sua azione di pressing sui portatori di palla blaugrana e dalla sua prestazione dipenderanno molte delle possibilità dell’Athletic di giocarsela fino in fondo con gli uomini di Guardiola.
Yeste: genio e sregolatezza allo stato puro, il fantasista di Basauri è l’elemento tecnicamente migliore della squadra, nonché il solo (insieme forse a Susaeta) a non sfigurare in un ipotetico confronto coi fantastici palleggiatori del Barcellona. Mancino educatissimo, fa quel che vuole con il pallone ed è capace di dribbling, assist e conclusioni da fuoriclasse vero; in carriera è stato convocato in nazionale, anche se non ha mai esordito a causa di un infortunio, e questo la dice lunga sul suo valore vista la concorrenza feroce che esiste in Spagna nel ruolo. Caparros, che lo sopporta soltanto, non ha mai voluto adattare il suo schema in funzione del numero 10, costringendolo a giocare come centrale nel doble pivote (posizione per la quale non ha la necessaria cattiveria agonistica) o defilato sulla fascia sinistra, tuttavia è innegabile che il calciatore abbia toccato i suoi livelli più alti giostrando da trequartista centrale in appoggio ad un’unica punta. Poco amato dal pubblico di Bilbao a causa della scarsa propensione al sacrificio e dell’intensa vita notturna, Yeste resta comunque l’unico biancorosso in grado di creare la superiorità numerica nel’uno contro uno e di mutare la partita con un’invenzione estemporanea; partirà probabilmente dalla sinistra, tuttavia è portato per natura ad accentrarsi e con questo movimento potrebbe anche creare qualche grattacapo ad una difesa blaugrana che giocoforza non sarà quella titolare. A differenza di molti fenomeni presunti, poi, Fran è un giocatore che si esalta nelle sfide difficili: è stato strepitoso, ad esempio, nella semifinale di ritorno col Siviglia, ma ora sta a lui dimostrare tutta la sua bravura nella partita più importante dell’anno.
Toquero: se fosse tanto forte con il pallone tra i piedi quanto è generoso e altruista in campo, senza dubbio sarebbe uno dei migliori giocatori del mondo… Strano caso di attaccante che corre dal primo all’ultimo minuto senza risparmiarsi mai, anteponendo il pressing ossessivo sui portatori di palla altrui alla ricerca della soddisfazione personale, Toquero è per questo motivo uno dei preferiti della tifoseria biancorossa, da sempre attratta più dai calciatori dediti anima e corpo alla causa che dai solisti dotati di tecnica sopraffina. Piedi di marmo, pochissima dimestichezza nel controllo e nella protezione della sfera, l’ex del Sestao basa il suo gioco sull’elettricità, sulle accelerazioni improvvise e sull’istintività, compensando la mancanza di fiuto del gol e una certa anarchia tattica con la buona velocità di cui è provvisto e con l’instancabile movimento che pratica rimbalzando come una trottola da un lato all’altro della linea difensiva avversaria. I numeri della sua stagione parlano chiaro (2 soli gol tra Liga e Copa da quando è stato riscattato dall’Eibar durante il mercato invernale), tuttavia Caparros lo ritiene fondamentale per la sua azione disturbatrice e anche mercoledì lo schiererà titolare, affidandogli il delicato compito di pressare i difensori blaugrana per impedire loro di far partire tranquillamente l’azione fin dalla propria trequarti.
Llorente: si è detto e scritto moltissimo su di lui quest’anno, cosa ovvia visto il rendimento stratosferico che il numero 9 dell’Athletic ha tenuto fin dall’inizio della stagione. Se la scorsa Liga c’erano state delle avvisaglie sulla presa di coscienza del giocatore nei propri (notevoli) mezzi, il campionato in corso ha sancito la sua definitiva maturazione ad alti livelli, cosa che finora era rimasta solo nei sogni dei tifosi biancorossi che proprio non volevano arrendersi all’idea che questo gigantesco centravanti fosse destinato ad essere ricordato come una promessa non mantenuta. Llorente aveva tutto: fisico da granatiere, tecnica non comune per uno con la sua stazza, stacco di testa, tiro preciso e buon dribbling, ma difettava enormemente nel carattere e nella fiducia in sé stesso, minato in ciò anche da un paio di stagioni segnate da incomprensioni con gli allenatori e da difficoltà generali di tutta la squadra. Una volta ottenuto credito da Caparros, Nando ha iniziato a carburare lentamente per poi esplodere con un fragore assordante, che ha attirato su di lui gli occhi di mezzo mondo. Attualmente il riojano (ma nativo di Pamplona) non è solo il terminale offensivo principale, per non dire unico, dei Leoni, ma è soprattutto il perno attorno al quale girano tutte le trame della squadra, sia quando l’azione si sviluppa palla a terra, sia quando i difensori o i centrocampisti decidono di ricorrere al pelotazo centrale. Quasi immarcabile dal punto di vista fisico, Llorente è bravissimo a prendere posizione e a tenere alta la squadra, ma sa essere pericoloso anche con incursioni palla al piede e con improvvise conclusioni da fuori. Sarà lui, l’uomo più pericoloso dei bilbaini, il sorvegliato speciale da parte del Barcellona, che sa bene come fermarlo significhi togliere agli avversari il 90% del loro potenziale offensivo.

Armando: secondo portiere di grande esperienza visti i 38 anni di età, non è stato lui a difendere la porta biancorossa in Coppa del Re, nonostante di solito in questa competizione si lasci all’inizio più spazio alle riserve. Anche fisicamente appartiene ad un’altra generazione (è alto 1,80 m, una miseria per gli estremi difensori moderni), tuttavia a dispetto di ciò e di uno stile piuttosto atipico risulta essere molto difficile da superare, in virtù dei buoni riflessi e della grande agilità di cui è dotato. Mai polemico, è il dodicesimo perfetto.
Ustaritz: bersagliato dalla sfortuna e da infortuni a raffica, questo promettente difensore centrale nella sua carriera non è mai riuscito a giocare con continuità e conseguentemente a proporsi per una maglia da titolare. Un peccato, senza dubbio, perché ha caratteristiche molto interessanti e complementari a quelle di Amorebieta: buona velocità di base, senso dell’anticipo, posizionamento più che discreto e piede non disprezzabile. Rivedibile nello stacco di testa, fatica ad imporsi nella marcatura stretta di avversari molto fisici, ma in compenso se la cava egregiamente contro attaccanti tecnici e rapidi nel breve. Quest’anno ha giocato pochissimo a causa dei succitati infortuni, cosa che spiega le molte gare disputate dalla coppia Ocio-Amorebieta nonostante delle prestazioni non proprio all’altezza.
Balenziaga: il giovane terzino sinistro ex Real Sociedad aveva iniziato la Liga da titolare, strappando la maglia a Koikili e proponendosi come una delle grandi novità della stagione biancorossa. A conti fatti si può dire che non abbia convinto del tutto, altrimenti Koi non avrebbe riconquistato il suo posto tanto facilmente, anche se ha mostrato buone potenzialità e margini di miglioramento notevoli. Balenziaga dà senza dubbio il meglio di sé in fase offensiva: veloce e dotato di una buona tecnica di base, spinge sempre moltissimo e mette dentro cross a ripetizione, riuscendo a dare un’alternativa credibile all’iper-sfruttato asse di destra. Peccato che non sia altrettanto efficace quando c’è da ripiegare, e non a caso ha perso la maglia da titolare proprio a causa dei numerosi errori, soprattutto di concentrazione, che ha commesso in fase difensiva. Può essere un’arma tattica importante a partita in corso, anche come centrocampista sinistro.
Etxeita: è il terzo difensore centrale più utilizzato da Caparros e rappresenta una delle note più liete della stagione biancorossa. Classico marcatore di scuola basca, fa della potenza fisica e della rudezza del contrasto le sue armi principali, utili per compensare una tecnica non eccelsa e una scarsa propensione all’anticipo e alla giocata pulita; Etxeita possiede un buon senso di posizione e un discreto stacco, caratteristiche che lo hanno reso un elemento di sicura affidabilità e una valida alternativa ai titolari della difesa. Non è il nuovo Goikoetxea ma neppure una brutta copia di Sarriegi, cosa non da poco se si ripensa alle annate da incubo vissute recentemente dal pacchetto arretrato dei Leoni.
Gurpegi: la stagione del rientro vero e proprio è stata avara di soddisfazioni per il mediano navarro, colpito da infortuni più o meno gravi (si è rotto per ben due volte il naso, ad esempio) e apparso a sorpresa coinvolto solo marginalmente nei piani di Caparros, che pure aveva parlato di lui come elemento imprescindibile per la squadra. Il ventinovenne Carlos ha invece giocato poco, pochissimo da titolare, e non è mai riuscito a trovare quella continuità imprescindibile per riprendere confidenza con il ritmo partita dopo due anni di inattività. La grinta e il cuore sono sempre gli stessi, mancano semmai i polmoni e il passo di prima della squalifica: troppo poco per scalzare Javi Martinez dal ruolo di mediano, giacché la convivenza tra i due è apparsa da subito problematica a causa delle caratteristiche simili (il doble pivote formato da loro è sempre risultato piatto e monocorde, visto che non sono dei registi). Sarà pronto come sempre a dare una mano alla squadra, ma non era questo il ruolo che i tifosi avrebbero voluto per lui.
Susaeta: annata con più ombre che luci per il folletto di Eibar, che ha faticato non poco per confermarsi al massimo livello dopo le grandi prestazioni fornite all’esordio nella scorsa stagione. Una cosa normale per un giocatore giovane, specie considerando i buoni segnali lanciati nell’ultima parte del campionato, nel quale Susaeta è tornato a mostrare i numeri eccellenti con cui si era segnalato da subito al pubblico basco: dribbling secco, fantasia, grande tecnica e personalità spiccata, tutte caratteristiche che avevano fatto coniare per lui il soprannome di “nuova perla di Lezama”. Paragoni troppo affrettati, forse, ma resta indubbio che Markel sia un trequartista/ala molto interessante, capace di creare sempre la superiorità numerica e di sfornare cross al bacio e assist intelligenti per le punte. Occhio al suo destro liftato, specie sui calci di punizione dal limite. Se David Lopez non dovesse recuperare, a destra giocherà scuramente lui.
Gabilondo: non sarà della partita a causa del grave infortunio al ginocchio che ne ha sancito la prematura uscita di scena a marzo, lesione rimediata peraltro nel corso di un’amichevole col Bordeaux disputata in una pausa del campionato dedicata alle nazionali. Giocatore diligente e ordinato, troppe volte monocorde (ma capace di talvolta di lampi di classe quasi inspiegabili, visto il contesto grigio in cui avvengono), Gabilondo avrebbe potuto rappresentare una risorsa tattica importante contro il Barça per la sua capacità di aiutare il terzino in ripiegamento, fondamentale visto il calibro dei clienti con cui la corsia di sinistra sarà chiamata a misurarsi (Alves-Messi). Merita comunque di essere citato anche per i due gol pesanti con cui ha contribuito a portare l’Athletic in fondo alla Copa.
Etxeberria: capitano di lunghissimo corso, il Gallo è ormai l’ombra del giocatore che per più di un decennio ha contribuito alle fortune dell’Athletic. Anagraficamente non sembrerebbe finito, tuttavia bisogna considerare che milita in Primera da quando ha 16 anni e che il suo fisico ha speso tutte le energie di cui era capace, rendendolo senza dubbio più vecchio di quanto non indichi la carta d’identità. Joseba, che non possiede più lo spunto sul breve e la velocità di un tempo, si limita ormai a vivacchiare con qualche giocata d’esperienza che può sempre tornare utile, ma appare francamente al lumicino e non disputa una gara intera da mesi. Caparros lo getta spesso nella mischia quando bisogna recuperare e di certo sa che c’è più classe nel destro di Etxebe che in tutto il reparto offensivo, Llorente escluso. Mercoledì il numero 17 reciterà dunque il ruolo del jolly prezioso, pronto come sempre ad entrare se le cose dovessero mettersi male.
Ion Velez: bocciato l’anno scorso da Caparros dopo poche partite, è stato richiamato alla base dopo il prestito all’Hercules a causa della cessione di Aduriz, senza però fornire giustificazioni valide al suo impiego quasi obbligato. Di una pochezza tecnica imbarazzante, il navarro è impreciso nel tiro, scarso di testa e assolutamente incapace di saltare l’uomo; dalla sua ha solo un’apprezzabile velocità di base e l’innegabile generosità, due qualità che però non fanno, da sole, un buon giocatore di calcio, specie nel suo ruolo. Era titolare a inizio stagione, poi è scivolato in panchina a causa dell’arrivo di Toquero, più arruffone ma anche più dinamico e portato al pressing. Resta comunque la prima alternativa ai due attaccanti titolari, cosa che la dice lunga sulla bontà del reparto offensivo biancorosso.

Murillo, Muñoz, Del Olmo, Garmendia e Iñigo non giudicabili a causa dello scarso utilizzo.


EDOARDO MOLINELLI

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