In questa sempre più imbarazzante versione aristocratica della FA Cup che è diventata la Champions League, Barça e Villarreal affacciano la testolina chiedendo permesso. Non è un bottino particolarmente esaltante, ma questo passa il convento, accodarsi al carrozzone inglese prego. Il Barça (pur non essendo la miglior squadra del mondo: quella si chiama Manchester United, e di certo nemmeno il Liverpool è inferiore ai blaugrana) ha più che legittime ambizioni di intrusione, mentre il Villarreal e il suo futbol in punta di piedi dovranno sperare in un buon sorteggio per replicare la leggenda del 2006 (dove, si badi bene, avevano una squadra nettamente inferiore a quella di adesso, non inganni Riquelme).
Le note dolenti vengono dalla capitale: uscito nel grigiore più assoluto l’Atlético (non ho potuto vedere la partita ma dagli highlights sembra non abbiano creato nemmeno una palla-gol seria… poi certo sconcerta leggere che Forlán è partito dalla panchina, e per scelta tecnica), il Madrid sprofonda negli abissi. Sono cinque stagioni che la squadra che ha fatto la storia di questa competizione non passa gli ottavi. La misura è colma e il 5-0 complessivo incassato dal Liverpool è la più umiliante condanna per una società che in questi ultimi anni, al di là di due campionati consecutivi, non ha fatto altro che accatastare giocatori spesse volte non irresistibili o poco funzionali ma comunque pagati a peso d’oro, allenatori triturati dalla mancanza di programmazione e dirigenti fanfaroni quando non al limite della disonestà.
Vada come vada la Liga di quest’anno, quest’ennesima uscita dalla Champions deve suonare come una condanna senza appello. Condanna che però va in primo piano soltanto nelle nostre considerazioni di appassionati di calcio spagnolo, perché agli occhi della generalità degli spettatori sicuramente risalta nettamente la straordinaria, antologica, meravigliosa prestazione del Liverpool, specialmente in un primo tempo che ha spazzato via ogni dubbio e che nella sua travolgente potenza ha persino fatto passare in secondo piano gli evidenti errori arbitrali che hanno viziato i primi due gol dei Reds. Una differenza di ritmo spaventosa che ha esemplificato al meglio quella esistente fra Liga e Premier, sebbene nel calcio non vinca necessariamente chi gioca a maggior velocità (diffidate quando sentite frasi di questo tipo: si può essere superiori anche giocando a passo di lumaca, pensate al Brasile o anche alla Spagna campione d’Europa).
Limitatisi a una partita di mero contenimento al Bernabeu e pure premiati eccessivamente in una sfida che aveva tutti i contorni dello 0-0, gli uomini di Benítez al ritorno hanno sorpreso un Madrid che si aspettava un avversario alla ricerca del contropiede. Invece no, il primo passo lo hanno fatto i padroni di casa, e che passo: col sangue agli occhi, gli inglesi hanno stavolta applicato la loro consueta disciplina tattica a una partita ultra-offensiva. Distanze perfette fra reparti installati in pianta stabile nella metacampo avversaria, un Mascherano che si conferma Maradona degli interdittori e che con Xabi Alonso forma una coppia da sogno, inappuntabile nell’accorciare verso gli altri reparti e nel far viaggiare il pallone a velocità altissime; oltre a questo, imprevedibilità, tantissima imprevedibilità dalla trequarti in su.
Del Liverpool generalmente non convinceva una certa rigidità nell’azione offensiva, a fronte invece di squadre come Manchester United e Arsenal capaci di stuzzicare maggiormente la fantasia con una grande mobilità degli uomini d’attacco, ma martedì il punto di forza dei Reds è stata proprio la capacitàdi togliere punti di riferimento al sistema difensivo avversario. Gerrard a dettare legge tra le linee, Torres come suo costume portato a “svuotare” l’area con movimenti in appoggio alla trequarti o tagli dal centro verso l’esterno e viceversa, ma senza mai togliere peso, perché dalle fasce tagliavano due punte di ruolo come Babel e Kuijt, eccellenti sia nel sacrificio difensivo che nel coordinare i propri movimenti con gli attaccanti. Insomma, una creazione e una gestione degli spazi esemplare, rafforzata da un’intensità di gioco cui il Madrid non ha retto.
Presi in mezzo, Lass e Gago non sapevano dove coprire, e la difesa è rimasta esposta alla figuraccia (vedi Cannavaro, positivo in questa stagione ma nell’occasione in versione “prendi la pensione e scappa”). Disorientati dall’atteggiamento avversario, i merengues si sono trovati persino impossibilitati ad iniziare l’azione dalla difesa, Sneijder (schierato trequartista) non ha mai trovato una connessione con Gago e Lass, Robben (sostituito a sorpresa a fine primo tempo, a favore di Marcelo, l’unico positivo della serata assieme a un Iker oberato di lavoro) praticamente non ha avuto palloni giocabili, l’attacco è stato sin dall’inizio condannato dalla mancanza di peso, con Raúl incapace di competere coi due centrali e pure troppo distante in alcuni momenti da Higuaín, che ha iniziato sulla fascia sinistra.
Il secondo tempo, aperto dal gran gol di Gerrard, ha visto un Madrid con qualche metro di campo in più, regalato dal Liverpool soltanto per potersi guadagnare gli spazi per il contropiede finalizzato dal rincalzo Dossena che ha massacrato la partita.
Quando il Real Madrid scende, il Barça sale, e viceversa: è una legge scientifica che ogni appassionato di calcio spagnolo conosce bene. Quindi se il Madrid tocca il fondo, il Barça esce dalla propria crisi in maniera imperiosa. Una ventina di minuti al massimo, manifesto del calcio blaugrana, cancellano con 4 gol un Lione che certo non è l’ultimo arrivato, ma che ben presto dopo il fischio d’inizio si trova in soggezione.
Non è il Barça “liquido” del Vicente Calderón, è tornato il Barça che occupa militarmente la metacampo avversario. Toulalan, Makoun e Juninho si trovano eccessivamente schiacciati verso la propria difesa, i collegamenti con Benzema, tanto devastante all’andata, saltano, Cris e Boumsong non accorciano, non anticipano e vanno a vuoto (l’esatto opposto della prestazione autorevolissima dell’andata), Messi (sempre meno attaccante di fascia e solista e sempre più trequartista e uomo-squadra) prende palla tra le linee e il sangue comincia a scorrere. Poi c’è anche Iniesta che gioca un altro partitone da mezzala sinistra (in questo momento è la coppia migliore quella con Xavi), dando un’altra via di fuga al gioco del Barça oltre a quella del lato destro, il che rende molto più difficile per gli avversari distribuire le proprie attenzioni in chiave ostruzionistica.
Il pressing torna costante e molto alto (eccellenti poi sia Márquez che-finalmente-Piqué nell’operare la chiusura laterale quelle volte in cui il contropiede del Lione riesce a saltare il primo pressing e le coperture in seconda battuta di Touré), il Barça rimane lì e la continuità di gioco blaugrana fa da subito presagire quei gol che nel primo tempo arrivano in serie: doppio Henry, un “normale” assolo di Messi e poi Eto’o.
A questo punto però subentra il Lato Oscuro del Barça: due gol regalati fra fine primo tempo e inizio ripresa (il primo una dormita su calcio d’angolo che permette a Makoun di saltare indisturbato; il secondo un inserimento di Juninho liberato da un velo di Benzema su un’azione comunque viziata da un fallo iniziale del Chelito Delgado su Iniesta), inammissibili per una squadra che si vorrebbe matura per vincere la Champions. Maturità che manca anche nella gestione di questo ritorno in partita del Lione: non esageriamo se diciamo che dopo il gol di Juninho ci sono stati dieci minuti buoni di panico vero e proprio nelle file blaugrana, che avrebbero potuto seriamente mettere in pericolo la qualificazione.
Non si hanno parole a vedere infatti una squadra che in vantaggio di due gol si mette a giocare da una porta all’altra cedendo campo ai contropiedi avversari. Una fase di impazzimento che fortunatamente viene superata nel quarto finale di partita, quando il Barça riguadagna le posizioni predilette e gioca con maggior tranquillità, difendendosi col pallone.
Non è più la fase in cui il Villarreal era la Cenerentola invitata al gran ballo: nonostante certi servizi ne sottolineino inevitabilmente il folclore (in trasferta ad Atene c’erano 50 tifosi 50, ognuno dei quali conosciuto per nome e cognome dai giocatori della rosa), la squadra di Pellegrini è ormai rodata a certi livelli, possiede uno spessore indiscutibile e giocatori di esperienza internazionale.
Per questo la vittoria di Atene non è da considerarsi un’impresa, ma semplicemente l’affermazione di una squadra superiore su una inferiore, affermazione che era già nelle premesse della gara d’andata, decisamente ingenerosa col Submarino. A dire il vero questa non è stata nemmeno una grande partita del Villarreal, ha pesato più la maggior qualità nel concretizzare gli episodi che un effettivo dominio.
Il primo tempo è andato praticamente perso (si registrano solo un gol annullato ingiustamente a Ibagaza da una parte e un gran intervento di Diego López su Mantzios dall’altra), bloccato su ritmi bassi e una volontà di osare esageratamente contenuta da entrambe le parti.
Il Villarreal sblocca la situazione ad inizio ripresa, con una eccellente azione manovrata sulla fascia sinistra (attaccata con grande frequenza tutta la serata, Pellegrini cerca la superiorità numerica con le sovrapposizioni di Capdevila e gli spostamenti in zona di Giuseppe Rossi) conclusa con un bel sinistro a rientrare sul primo palo scagliato da Ibagaza dal limite dell’area.
Gestisce con la mentalità peggiore possibile il vantaggio il Villarreal: basta vedere subito dopo la ripresa del gioco come i due attaccanti si abbassino quasi dietro il cerchio di centrocampo per capire che la squadra si schiaccia volontariamente nella propria area, e invita il Panathinaikos all’assedio. Assedio veemente che frutta subito il pareggio, con l’interessante Mantzios (ottima tecnica, Fuentes e Godín faticano a prendergli le misure spalle alla porta) che svetta su Godín su calcio d’angolo.
La conferma dell’errata gestione psicologica dello 0-1 da parte del Villarreal si ha indirettamente proprio subito dopo il gol di Mantzios. Rimessa palla al centro infatti il Villarreal si riappropria immediatamente del pallone: il gol decisivo però non viene da una delle lunghe fasi manovrate nella metacampo avversaria, ma da un contropiede orchestrato con classe da Ibagaza e Joseba Llorente: eccellente la conduzione dell’azione da parte dell’argentino, che sceglie l’uomo giusto a cui passarla, il momento e anche la misura del tocco (l’avesse toccata rasoterra non sarebbe potuta filtrare; dovendola alzare deve dare la forza e l’altezza giusta, l’unico modo in cui Llorente può controllarla a seguire e calciare in corsa. Il minimo errore nella scelta o nell’esecuzione dell’azione avrebbe sicuramente fatto sfumare il contropiede o comunque favorito il recupero di un difensore greco. Vedendola in diretta sembra un’azione facile facile, ma ci vogliono qualità tecnica e capacità di lettura del gioco non all’altezza di tutti), freddo e chirurgico il basco.
Due elementi che meritano una celebrazione: il “Caño”, da sempre uno dei giocatori esteticamente più appaganti della Liga, ha trovato la meritata ribalta internazionale, scavalcando nelle gerarchie di Pellegrini le altre mezzepunte: più svelto di Pires e con miglior lettura del gioco di Cani e del deludentissimo Mati Fernández, ora il partner migliore di Cazorla è lui.
Joseba Llorente invece non offre classe ed invenzioni, ma più prosaicamente presenza offensiva, quella che ha sempre garantito quest’anno a dispetto di un certo scetticisimo (anche da parte mia) di inizio stagione. Anche questi 90 minuti parlano chiaro: sbagliata la scelta di Pellegrini che parte con un Nihat che non si regge in piedi, Llorente entra ad inizio ripresa e corregge l’errore. Attaccante scarno ma essenziale, tecnicamente modesto ma sempre pronto in area di rigore, bravo a offrire profondità e sempre fortemente implicato anche in fase di non possesso (al Valladolid oltre ai gol è mancato il suo lavoro in pressing), uno su cui si può sempre contare, magari in sede di pianificazione un rincalzo di garanzia per un forte centravanti che arrivasse dal prossimo mercato.
Nemmeno la gestione del secondo vantaggio e del finale da parte del Villarreal è impeccabile: tutti dietro, rinvii senza pensarci invece che una sana melina, ma il Panathinaikos ormai ha poco tempo, ci crede poco e ha poca qualità da spendere a difesa avversaria schierata, seppure schierata male.
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