lunedì, novembre 30, 2009

Ibra spezza l'equilibrio.

Vince il Barça un Clásico di alto livello. Una partita estremamente equilibrata, di grande intensità, con la tensione giusta ma senza che questa sacrifichi l’elevatissimo livello tecnico. Fasi alterne di supremazia (superiore il Real Madrid nella prima mezzora, leggera prevalenza blaugrana fra fine primo tempo e inizio ripresa, poi Madrid sottotono quando gode della superiorità numerica per l’espulsione di Busquets), la classica partita nella quale il pareggio sarebbe stato il risultato più giusto ma nella quale allo stesso tempo la vittoria del Barça non rappresenta un furto, così come del resto non lo sarebbe stata un’affermazione madridista.
Si muove pochissimo a livello di classifica (in questo momento della stagione, il contro-sorpasso del Barça e il vantaggio di due punti rappresentano un mero dettaglio), in cambio le sensazioni sono positive per entrambe le squadre: il Barça conferma una personalità e una qualità che gli permettono di venire a capo anche di situazioni in cui non riesce a imporre il gioco, il Madrid invece dimostra di esserci tutto come competitività in attesa di perfezionare i propri meccanismi.

Pellegrini conferma la sua formazione tipo degli ultimi tempi, il 4-4-2 asimmetrico con Marcelo esterno alto: la scelta “pesante” nell’occasione è, col ritorno di Cristiano Ronaldo dal primo minuto, la panchina di Benzema a favore di Higuaín (la supplenza di Raúl invece non fa più notizia). Guardiola invece recupera Messi ma risparmia Ibra dal primo minuto, con Henry confermato centravanti dopo l’Inter.
Il piano delle due squadre è chiarissimo fin dall’inizio: il Barça cerca come da costume di salire su ritmi controllati con azioni manovrate sin dalla difesa, il Madrid all’opposto cerca strappi violenti, verticalizzazioni repentine che colgano il Barça impreparato finalizzando l’azione prima possibile anche per evitare possibili contro-ribaltamenti. Non è un calcio di possesso, chiaro, ma non è nemmeno una difesa bassa+contropiede: l’idea è quella di pressare abbastanza alto, rubare palla possibilmente dal cerchio di centrocampo in su e ripartire veloci, non solo sfruttando la profondità senza eguali che possono dare alla transizione offensiva i Kaká e i Cristiano Ronaldo, ma portando avanti anche più giocatori in fasi di possesso un po’ più elaborate, in grado di evidenziare le difficoltà che il Barça accusa quando è costretto a difendersi ripiegando nella propria metacampo invece che aggredendo in quella avversaria.

È proprio questo che succede nella prima mezzora del primo tempo: il Barça non riesce a costruire un’azione pulita, non riesce a imporre il suo gioco, e anzi soffre le imboscate merengues. Guardiola propone le solite varianti all’interno del 4-3-3, cercando in particolare la superiorità tra le linee: un attacco che non dà punti di riferimento, Henry non staziona sempre al centro, e anzi dopo pochi minuti scambia la propria posizione a turno con Messi e Iniesta, che nella posizione di falso centravanti possono innescare dubbi nel sistema difensivo avversario (se vanno a prenderli i difensori centrali, lasciano alle loro spalle uno spazio invitante per i tagli o gli inserimenti, se invece i difensori non escono al Barça rimane un giocatore fra le linee e la superiorità numerica a centrocampo). Giusta intenzione, perché la possibilità di creare questa superiorità esiste, ma l’applicazione lascia a desiderare.
Il Real Madrid ha il merito infatti di accorciare alla perfezione con la linea difensiva, sempre molto vicina alla mediana, inibendo così Messi e Iniesta. Non solo, col Barça che non riesce a distendersi, ogni pallone recuperato dal Madrid è un potenziale contrattacco: con un baricentro medio-alto rientra in possesso del pallone quasi sempre lontano dalla propria area, e può rilanciare subito. A questo si aggiunge una qualità di palleggio fra le pochissime in grado di superare in uscita il pressing del Barça, tremendamente intenso nelle prime due linee, ma esposto a rischi considerevoli una volta che le mezzeali vengono tagliate fuori e l’avversario supera la metacampo.
Costretto così a a correre guardando verso la propria porta, il Barça soffre parecchio, affidandosi più alle capacità di recupero e alle letture di Piqué e Puyol in chiusura piuttosto che a ripiegamenti ordinati. Il Real Madrid, con Kaká alle spalle di Busquets e Cristiano Ronaldo e Higuaín a lanciarsi negli spazi, ha molta più profondità d’azione del Barça in questa fase, arrivando pure vicinissimo al gol quando al 19’ Ronaldo, smarcato in area da una percussione di Kaká, si vede neutralizzare il suo diagonale da Valdés. Altro brivido per il Camp Nou al 25’, quando ancora Kaká libera Marcelo, ma al momento della conclusione il brasiliano viene stoppato dal primo grandioso intervento scivolato della serata di Puyol.

Tre giocatori velocissimi pronti a rilanciare l’azione d’attacco nelle file madridiste, ma poiché il calcio generalmente è un gioco a somma zero, ciò significa che la ricerca della superiorità in questa zona voluta da Pellegrini implica al tempo stesso una potenziale inferiorità in qualche altra parte del campo. In particolare, la “zona sensibile” dello schieramento madridista è la fascia destra: questo 4-4-2 ibrido, un po’ rombo e un po’ no, lascia Kaká libero sulla trequarti e piazza Lassana Diarra sul centro-destra. L’unico uomo di fascia autentico è perciò Sergio Ramos. Se da un lato Marcelo raddoppia Arbeloa, dall’altro Pellegrini si gioca l’asimmetria, confermando una scelta maturata già nelle ultime partite, perché desidera mantenere Kaká nella posizione prediletta, perché Lass è il centrocampista con più corsa (quindi più capace di correggere individualmente quest’asimmetria) e anche perché è il lato meno pericoloso del Barça, ospitando giocatori validi ma lineari come Abidal e Keita.
Sarebbe questa la chiave d’accesso alla partita per il Barça. Lì i blaugrana non solo possono creare la superiorità numerica contro Ramos attraverso le sovrapposizioni, ma possono in generale smuovere tutto il sistema difensivo madridista creando i presupposti per controllare tempi e spazi del gioco. Muovere palla rapidamente verso sinistra obbliga infatti Lass a spostarsi in aiuto a Ramos, ma siccome i giocatori sono sempre undici lo spostamento di Lass apre un altro spiraglio in zona centrale, dove finalmente Iniesta o Messi possono avere le giocate tra le linee desiderate da Guardiola. Una volta che riesci a trovare questi due passaggi, obblighi il tuo avversario prima ad allargarsi e poi inevitabilmente ad abbassare il suo baricentro, costringendolo a recuperare palla più lontano dalla tua porta.
Il problema del Barça nella fase in cui soffre risiede proprio in una gestione poco avveduta del possesso-palla. Si cerca sì il passaggio verso l’uomo tra le linee o in profondità, ma lo si cerca con eccessivo anticipo, senza aprire prima verso sinistra e quindi costringendo Messi e Iniesta a giocate forzatissime con la difesa madridista subito pronta ad accorciare verso il centrocampo chiudendo tutti gli spazi.
Solo nell’ultimo quarto d’ora i blaugrana acquistano più razionalità: senza essere particolarmente pericolosi, però la ricerca più costante di questi passaggi d’apertura a sinistra, e una maggior presenza da parte di Iniesta nella gestione della palla in quella zona fa guadagnare metri e sicurezza difensiva al Barça: inducendo il Madrid a rinculare, aumentano i metri fra il trio Kaká-Cristiano-Higuaín e il resto della squadra. Le sortite offensive madridiste perciò si diradano e la continuità di gioco scema: i merengues non possono più fare la partita come prima.

Ad inizio ripresa i padroni di casa ribadiscono di aver assimilato la lezione del primo tempo: muovere la palla da un lato all’altro, senza precipitarsi ma con una velocità di circolazione sostenuta, per non dar tempo al Madrid di coprire in ampiezza e aprire così in un secondo momento i varchi per verticalizzare centralmente.
Predominio territoriale blaugrana ora, che Guardiola vuole concretizzare con più peso in attacco: Ibrahimovic al posto di Henry non offre la stessa mobilità, ma sicuramente garantisce più presenza negli ultimi metri oltre a una maggior capacità spalle alla porta, che depotenzia così il gioco d’anticipo effettuato con tanta precisione nel primo tempo dalla difesa madridista e permette di guadagnare altro tempo e altri metri alla transizione offensiva culé.
Sarà decisivo quasi subito lo svedese, ma prima ancora, al 52’ bisogna registrare una ghiotta occasione per il Madrid, quando sugli sviluppi di un calcio d’angolo per il Barça un contropiede libera nell’area blaugrana Higuaín, bravissimo a mandare a vuoto Abidal rientrando sul destro ma fermato proprio al momento di concludere da un magnifico recupero in scivolata di Puyol.
Gol mancato/gol subito, al 55’ il Barça recupera nella propria trequarti, ribalta rapidamente con Piqué, Alves ha campo sulla destra, cross tagliato perfettamente e inserimento coi tempi giusti di Ibrahimovic, in posizione probabilmente regolare e lasciato solo da Sergio Ramos (che doveva chiudere in diagonale nel momento in cui Pepé si occupava di Piqué aggiuntosi all'attacco).
Trovato il vantaggio il Barça ha dalla sua il fattore psicologico che gli consente una gestione ancora più tranquilla del pallone: sempre passaggi da un lato all’altro, ma con appoggi ancora più corti, con Iniesta e Messi che retrocedono per venire incontro al portatore, congelare il gioco e far spazientire e perdere la concentrazione agli avversari ora comprensibilmente ansiosi. La strategia di cottura a fuoco lento del Madrid però viene prontamente sabotata da un imprevisto, la mano di Busquets che ferma un accenno di contropiede merengue e frutta il secondo cartellino giallo.

La partita cambia per forza, il Real Madrid ha il controllo del gioco (al 65’ un colpo di testa Cristiano Ronaldo su cross di Marcelo finisce alto sopra la traversa) e il Barça deve rispondere di conseguenza. Come reagisce Pep Guardiola all’inferiorità numerica? Inserendo un centrocampista difensivo, Yaya Touré, ma non al posto di un attaccante o di Xavi, bensì al posto del centrocampista più difensivo già presente in campo, Keita. Mossa sacrosanta: per una questione di equilibrio il Barça non può arroccarsi staticamente nella propria metacampo, sarebbe morte sicura, per cui restano vitali i giocatori come Xavi, Iniesta e Messi capaci di permettere un’uscita sicura palla al piede e qualche secondo prezioso per respirare e, perché no, fare male all’avversario se del caso. Il riassetto della squadra lascia perciò immutato il triangolo di centrocampo, retrocedendo Iniesta e spostando Messi largo a sinistra per intimidire anche Sergio Ramos (ad Arbeloa sull’altra fascia può essere invece lasciato campo). Contemporaneamente, anche Pellegrini muove la panchina con un cambio che non mancherà di far discutere ma che dovrebbe trovare le sue motivazioni nella condizione ancora non ottimale di Cristiano Ronaldo, senza i 90 minuti nelle gambe e per questo sostituito da Benzema.
Che il Barça non sappia adattarsi a una partita di sola difesa lo dimostra al 69’ il colpo di testa di poco a lato di Piqué su una punizione di Xavi dalla trequarti, seguito nello stesso minuto da una semi-occasione madridista, stroncata soltanto dal solito ordinario tackle monumentale di Puyol che respinge la conclusione a botta sicura di Benzema smarcato in area da un’iniziativa di Kaká nei pressi della linea di fondo. Tentativi da una metacampo all’altra, gioco scorrevole e divertente.
Al 73’ Raúl per Arbeloa, altro cambio logico: posto che il Real Madrid deve soltanto attaccare, Arbeloa non serve più, meglio retrocedere Marcelo; la presenza di Raúl invece, se non avrebbe avuto nessun senso nel primo tempo quando il Madrid cercava un altro tipo di azione offensiva, veloce e subito profonda, ha senso ora che l'inferiorità numerica blaugrana disegna una partita tutta di presidio madridista nella metacampo avversaria, nella quale perciò la capacità di inserimento in area di rigore del Capitano può avere la sua importanza (senza dimenticare più in generale il feeling tradizionale del “Siete” con il Clásico).

L’attesa occupazione madridista della metacampo culé però non avviene, e anzi va detto che il Madrid che aveva impressionato favorevolmente in condizioni di parità nel primo tempo, una volta in superiorità numerica delude. Come in troppe altre occasioni a difesa avversaria schierata, c’è poco ordine e fluidità, e si moltiplicano i tentativi individuali infruttuosi. Forse l’ingresso di un palleggiatore come Granero al posto di un attaccante (Higuaín) avrebbe potuto permettere trame più fitte ed elaborate, ideali per sfruttare la superiorità numerica pescando con calma l’uomo libero di volta in volta invece che ammassando attaccanti nell’area avversaria, fatto sta che sullo schermo appare verso la fine una grafica che recita “Barcelona-possesso palla-64%”, il che a molti minuti dall’espulsione di Busquets è indicativo di come i padroni di casa siano riusciti a gestire con relativa e imprevedibile tranquillità l’inferiorità numerica, poggiando sulla capacità di fare reparto di Ibrahimovic, sulle percussioni di Messi utilissime per guadagnare falli preziosi e sul “freezer” Iniesta.
Inferiorità che non ha impedito ad esempio ad Abidal di sfiorare il gol al 74’ con un sinistro a fil di palo al termine di un’azione tutta manovrata sin dalle retrovie, e allo stesso modo non ha tolto a Messi lo sfizio del gol del 2-0 divorato all’ 88’, a tu per tu con Casillas grazie a un geniale passaggio filtrante di Alves che dalla destra prende in controtempo Pepe. A partita già decisa, il secondo giallo per Lassana Diarra all’89’ ha un valore soltanto statistico.


BARCELONA (4-3-3)

Valdés: Poco impegnato (ma non certo perché il Madrid non abbia attaccato…), la zampina provvidenziale la mette comunque quando si trova solo contro né più né meno che il Pallone d’Oro in carica. C’è poco da fare: questo portiere non gode di grande stampa, talvolta commette sbavature, ma nelle partite-clou (finale Champions 2006, Stamford Bridge l’anno scorso in coabitazione con Ovrebo) risulta non di rado decisivo. In più sbriga con sicurezza l’ordinaria amministrazione, la gestione dell’area piccola e anche le uscite basse, sua specialità. Voto: 7.
Daniel Alves: Nel primo tempo il Barça che non si scioglie non scioglie nemmeno lui. In fase offensiva può distendersi giusto per un paio di cross sbilenchi nei primi minuti, poi il Real Madrid corto e stretto e lo scarso sfruttamento delle fasce da parte blaugrana lo ammutoliscono. Ha comunque il merito di mantenersi mentalmente sempre in partita, particolarmente attento anche in fase difensiva nelle chiusure diagonali e negli uno contro uno (Cristiano Ronaldo prova a farlo secco con uno di quei suoi arresti e cambi di direzione lanciandosi col tacco, ma lui non ci casca). Nella ripresa serve a Ibrahimovic il gol-partita, e gioca in un crescendo di iniziative offensive, con spazi per contrattaccare e invenzioni niente male (vedi l’assist per Messi a fine partita). Voto: 6,5.
Piqué: Solita prestazione di notevole spessore. Si fa saltare da Kaká sull’occasionissima per Cristiano Ronaldo, ma per il resto è perfetto, come personalità, come lettura delle situazioni e come tecnica, difensiva e non solo. Gioca sempre vicino a Puyol, entrambi pronti alla copertura reciproca, puntuale e pulito anche nelle chiusure laterali quando il Madrid contrattacca negli spazi alle spalle di Alves. In certi momenti fa impressione vederlo a chilometri di distanza da Valdés andare deciso all’entrata su giocatori lanciati nettamente più veloci di lui, di fronte ai quali però esce quasi sempre vincitore. Poi c’è l’altra metà del ricchissimo bilancio, ovvero quello che fa col pallone tra i piedi: è lui ad avviare l’azione del gol rubando palla, ribaltando e prendendo d’infilata lo schieramento madridista. Voto: 7.
Puyol: Una cosa dell’altro mondo. Per caratteristiche, è un giocatore portato ad esaltarsi in maniera proporzionale all’importanza della partita. La sente come nessuno questa partita (o meglio, solo come Raúl dall’altra parte), e la azzanna senza pietà. Iperconcentrato, non sbaglia un movimento che sia uno, in più ci mette il dettaglio del fuoriclasse, quei tre-recuperi-tre da kamikaze che sventano altrettante conclusioni a botta sicura madridiste. Puro Puyol. Voto: 8.
Abidal: Rimane basso come terzo difensore quando il Barça inizia l’azione con due attaccanti madridisti a pressare. Prudente, si aggiunge all’attacco solo ad azione molto avanzata quando lo richiedono i movimenti di Iniesta, Keita o Henry, sfiorando pure il gol in una sortita a sorpresa nel secondo tempo. Attento in copertura a collaborare con Puyol e Piqué, le sue leve lunghe fanno sempre comodo quando si deve trattare con bestie come Kaká e Cristiano. Voto: 6,5.
Xavi: Sottotono, è un giocatore che ha come limite principale la dipendenza quasi assoluta dai movimenti di tutta la squadra. Siccome il Barça nel primo tempo non riesce a dare continuità alla manovra attraverso i movimenti di Messi e Iniesta (come era stato invece mercoledì, quando Iniesta gli aveva aperto la strada), lui non fa nulla per venirne a capo, subendo eccessivamente la partita. Solo quando nel secondo tempo Ibra, Iniesta e Messi distendono più in avanti la squadra, lui affaccia la testolina. Troppo poco. Voto: 5,5.
Busquets: Strana gara. Tantissima presenza, molta quantità, anche alcune giocate preziose, ma anche imprecisioni e manifestazioni d’inesperienza in una zona del campo in cui queste si pagano carissime. Cerca di pressare altissimo sull’uscita in palleggio del Madrid, ma qualche volta va fuori misura (o lo mandano fuori misura le doti di palleggio merengues), e una volta che parte Kaká non ha certo le doti di corsa che avrebbe invece Yaya Touré. I rischi che corre col suo gioco lo portano a forzare un cartellino giallo, e nel secondo tempo all’espulsione per un fallo di mano forse evitabile. Voto: 6.
Keita: L’intelligenza tattica lo induce a cercare spazio allargandosi, ma il Barça del primo tempo non ci sente da quell’orecchio e lo costringe così a una partita disciplinata ma di nulla incisività. Comincia a entrare nel vivo quando la palla gira da un lato all’altro e interagisce con Iniesta, ma l’espulsione di Busquets ne fa la vittima sacrificale di Guardiola. Voto: 6. (dal 65’ Yaya Touré: Efficace apporto atletico e tattico come rimpiazzo davanti alla difesa. Voto: 6).
Messi: Partita difficile, poco brillante ma con momenti efficaci. Nel primo tempo fa più fatica rispetto a Iniesta a trovare la posizione giusta, ad adattarsi ad una partita di ordinaria amministrazione del pallone e degli spazi che comunque sul piano collettivo può far sempre comodo. Quando parte largo a destra Arbeloa e il raddoppio di Marcelo gli impediscono di girarsi, quando cerca spazio al centro, tra le linee, il Madrid accorcia e lo spinge ad azzardare giocate individuali poco funzionali. Nella ripresa si trova meglio, comunica di più col centrocampo e aiuta il possesso-palla, in dieci contro undici invece le sue zingarate dalla fascia sinistra permettono di guadagnare falli e secondi preziosi. Voto: 6.
Henry: Non entra mai in partita. Parte al centro, poi si sposta a sinistra, poi torna al centro, ma il risultato non cambia: non ha più il passo degli anni migliori, e così ogni volta che cerca la profondità lo dominano ora Pepe ora Ramos. Nonostante la mobilità non ha poi nelle corde nemmeno il gioco da punto di riferimento che può fare Ibrahimovic al centro dell’attacco. La differenza con lo svedese si nota subito. Voto: 5,5. (Dal 50’ Ibrahimovic: Importante non solo per il gol. Il suo ingresso offre al Barça un punto d’appoggio in più a partire dal quale organizzare la propria manovra. In inferiorità numerica poi è bravo a proporsi allargandosi per offrire il passaggio sicuro in uscita, maestro nel temporeggiare e proteggere la sfera dando tempo ai compagni di salire. Ogni pallone a lui è qualche metro guadagnato. Voto: 7.).
Iniesta: Anche lui in apnea nella prima mezzora, quando in diversi momenti arriva a coprire tutte e tre le posizioni del tridente, poi ne esce diventando una pedina importante. Non è certo l’uomo-partita come contro l’Inter, però è il giocatore sul quale il Barça riposa per schiarirsi le idee e ritrovare i tempi e le misure giuste. Comincia a ritrovarsi fra fine primo tempo e inizio ripresa partendo largo a sinistra e propiziando combinazioni più continue, poi con l’inferiorità numerica si disimpegna benissimo da mezzala, portando su una gran quantità (e soprattutto una gran qualità) di palloni. Voto: 6,5.


REAL MADRID (4-4-2)


Casillas: Senza particolari responsabilità sul gol, impegnato solo da Messi nel finale per il resto (ed è metà merito suo metà demerito di Messi). Voto: 6.
Sergio Ramos: Partita completa, anche se con la macchia decisiva della mancata diagonale sul gol di Ibrahimovic. Per il resto fa le cose a modo: segue l’uomo quando deve seguire l’uomo, segue il pallone quando deve seguire il pallone, copre lo spazio quando deve coprire lo spazio. Questo moltiplicato per le strepitose doti atletiche fa sì che praticamente nessuno passi dalle sue parti, cosa non facile visto che lo schieramento madridista era suscettibile di condurlo all’inferiorità numerica nella sua zona. Piacevolmente ordinato anche in fase offensiva, senza strafare, senza conduzioni di palla prolisse, ma arrivando in corsa coi tempi giusti e limitandosi ai tocchi essenziali. Voto: 6,5.
Pepe: Grande prestazione, specie nel primo tempo. Autoritario e dominante come nelle sue migliori versioni, anche lui con maggior intelligenza tattica rispetto al solito. Tiene la linea difensiva alta assieme ad Albiol, accorcia e anticipa a dovere e poi, nelle rare occasioni in cui il Barça riesce a far filtrare palloni alle spalle della difesa merengue, ridicolizza Henry in allungo. Voto: 7.
Albiol: Meno appariscente ma anche lui senza alcuna sbavatura, preciso nell’interpretare la strategia difensiva, nel togliere spazi, veloce e ben piazzato come da consuetudine, il più regolare dei difensori madridisti finora. Emergono però tutte le sue lacune nell’impostazione del gioco quando viene pressato e la butta via, soffre molto di più da quanto punto di vista rispetto ai compagni di reparto. Voto: 6,5.
Arbeloa: Difensivamente è una garanzia, replica la partita su Messi che fece al Liverpool nell’ottavo d’andata della Champions 2007, non facendolo girare mai, almeno finchè Leo si muove dalle sue parti. Quando poi si tratta di coprire soltanto la zona, mantiene sempre le distanze giuste e la concentrazione. Quando la superiorità numerica richiede invece maggiore propensione offensiva, lascia giustamente il campo. Voto: 6,5. (dal 73’ Raúl: Poco tempo a disposizione, aspetta la palla giusta. Che non arriva. Voto: s.v..)
Kaká: Solo teoricamente esterno destro, ripiega da quelle parti due-tre volte in tutti i novanta minuti. Gioca un ruolo rilevantissimo nel primo tempo, perché quando il Madrid esce con facilità dal pressing blaugrana è lui a guidare quasi tutte le transizioni offensive madridiste, col suo cambio di passo. Ispira le due situazioni più pericolose del primo tempo, poi quando il Barça guadagna campo anche lui perde un po’ contatto con la partita. L’espulsione di Busquets vede un Madrid più confuso nei suoi attacchi, e un Ricardo più individualista ed estemporaneo, per necessità più che per inclinazione personale. Gli manca quello spunto che lascia il segno “made in Kaká”. È un discorso esteso un po’ a tutta questa sua avventura spagnola: molto presente nella manovra, spesso con un apporto positivo, ma non ti viene mai da dire “è stata la partita di Kaká”. Voto: 6,5.
Lass: Si deve sdoppiare fra la collaborazione con Xabi Alonso al centro e il raddoppio sulla destra e la copertura a Sergio Ramos quando questi avanza. Ha fiato e doti di corsa impressionanti, quindi può farlo, mettendo le sue buone pezze. Quando il Barça si infrange al centro nel primo tempo lui vince praticamente tutti i duelli e ripulisce una gran quantità di palloni, quando invece il Barça comincia a gestire meglio il pallone e ad accerchiarlo con le triangolazioni soffre di più, naturalmente per un discorso collettivo che esula dalla sua soddisfacente prestazione. Voto: 6,5.
Xabi Alonso: Gran punto di riferimento nel primo tempo, quarantacinque minuti poco appariscenti ma di notevole sostanza e intelligenza. Se Lass fa il mastino a briglia sciolta, lui presidia lo spazio strategico davanti alla difesa con un’interpretazione tatticamente perfetta. Non soffre mai il Real Madrid in quella zona, e in più Xabi è decisivo per rilanciare il gioco eludendo il pressing alto del Barça. Fa girare la squadra… finchè la squadra gira, poi il Madrid perde compattezza e Xabi Alonso cala, non raccapezzandosi neanche quando la sua squadra va in superiorità numerica ma attacca ormai troppo a sprazzi. Voto: 6,5.
Marcelo: Ordinato in fase di non possesso, aiuta sia Arbeloa che Xabi Alonso, dà una buona mano anche nel rilanciare l’azione grazie alla sicurezza di cui fa sempre sfoggio palla al piede, ma perde l’attimo o ha il tocco di troppo quando occorre finalizzare le giocate. Voto: 6.
Higuaín: Delusione, e siamo al cinquecentesimo big-match toppato. Quando il Madrid gioca bene lui resta comunque alla periferia delle transizioni offensive costruite sull’asse Xabi Alonso-Kaká-Cristiano Ronaldo. Non collabora, non partecipa, l’unico graffio è il contropiede nel secondo tempo, ma Puyol gli spezza gli artigli per tempo. Voto: 5,5.
Cristiano Ronaldo: Si sposta nella zona alle spalle di Alves quando il Madrid ha la verticalizzazione facile nel primo tempo, si muove con una certa intelligenza, dando continuità agli sforzi di Kaká, però non fa la differenza negli uno contro uno e nelle conclusioni, con una gran palla-gol sulla coscienza. Anche lui perde protagonismo quando il Barça taglia il filo del gioco madridista. Voto: 6. (dal 65’ Benzema: Prova ad avvolgere la difesa blaugrana con i suoi classici movimenti soprattutto verso le fasce, un paio di volte va via, tenta la conclusione ma mancano la precisione e anche i riflessi, quelli che forse avrebbero sfoderato Raúl e Higuaín quando su un calcio d’angolo la palla rotola sottorete proprio dalle sue parti. Voto: 5,5.).

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domenica, novembre 29, 2009

Valencia e Sevilla, occasione persa.

Due pareggi casalinghi, forse un po’severi ma assolutamente indicativi: nella giornata in cui Barça e Real Madrid per forza di cose si toglieranno punti a vicenda, le presunte, sedicenti inseguitrici non ne approfittano. Per chi si fosse illuso, la Liga resterà anche quest’anno un duopolio.



Grida particolare vendetta lo spreco del Valencia, 1-1 col Mallorca al termine di una partita non stradominata, non scintillante, ma sicuramente posta sotto un certo controllo dal primo minuto fino all’istante, a cinque minuti dalla fine, in cui Bruno commette un fallo da rigore che più ingenuo non si può trasformato poi da Borja Valero, leader tecnico di un Mallorca avviato sulla strada dell’ennesimo miracolo da Goyo Manzano (un club che vive in una perenne incertezza istituzionale, senza un soldo, con l’organico stravolto ogni estate e i nuovi acquisti ammonticchiati alla meglio gli ultimi giorni di mercato). Va dato comunque atto agli ospiti di aver mantenuto pur subendo una certa reattività durante tutta la partita, abbottonati nella propria metacampo ma pronti ad approfittare del minimo spiraglio.

Un peccato questo passo falso, perché frena la traiettoria e riduce l’autostima di un Valencia che avrebbe bisogno proprio del massimo della fiducia nelle proprie possibilità per sciogliersi del tutto e arrivare a giocare stabilmente un gran calcio dopo aver trovato un equilibrio. Quest’ultimo è un dato evidente delle ultime giornate: se infatti il più grande difetto della squadra di Emery l’anno passato risiedeva nella tendenza a spezzarsi in due tronconi, ultimamente il Valencia dà l’impressione di muoversi come un blocco unico, finalmente.
Ordine acquisito a partire dalla connessione fra Banega e Silva, la cui capacità di gestire il pallone e i tempi del gioco permette a tutta la squadra di guadagnare metri e salire ordinatamente nella metacampo avversaria (mentre l’anno scorso gli spunti del trio Mata-Silva-Villa erano troppo slegati dal resto della squadra e dipendenti in maggioranza dalla presenza di spazi per il contropiede), guadagnando tra l’altro buone posizioni per accorciare subito e recuperare una volta persa palla; ordine favorito anche da una maggior disciplina e concentrazione del settore difensivo, con un Albelda in ottime condizioni (ma anche l’apporto di Banega in interdizione è rilevante) e una linea difensiva inaspettata nella sua composizione ma che ormai si recita a memoria tale è l’affidabilità che Bruno-David Navarro-Dealbert-Mathieu stanno nei fatti dimostrando (i due centrali soprattutto).
Insomma, sembra esserci l’impressione di una struttura dalla quale poter partire per proporre un calcio sempre più autorevole, colmando quei momenti di stanca che ancora permangono fra le varie fasi della partita nelle quali il Valencia riesce a dominare. Valencia che oltre a risolvere il problema della continuità all’interno dei novanta minuti dovrà anche rendere pienamente credibili le proprie prestazioni fuori casa, finora affrontate con risultati paradossalmente molto migliori rispetto alle partite casalinghe, ma in realtà troppo legate allo sfruttamento dell’episodio isolato oppure prontamente messe in discesa, come a Pamplona la scorsa settimana.

Un grosso interrogativo pesa però su questo processo di crescita, ed è l’infortunio che terrà fuori Silva per le prossime quattro settimane. Troppo importante il canario per dare spessore al possesso-palla del Valencia, che già ieri ha sofferto un certo disorientamento con la sua uscita nel primo tempo (Mata è una seconda punta portata ad attaccare lo spazio, non certo un rifinitore), dal quale è uscito solo nel secondo tempo quando si sono aperti gli spazi per alcuni contropiedi che avrebbero potuto e dovuto chiudere la partita, su tutti la meravigliosa combinazione tutta al volo fra Villa, Mata e Joaquín culminata nel palo dell’andaluso.



Bel rammarico anche per il Sevilla, costretto a nuotare contro corrente in una partita in cui tutto sembra andargli storto. Dal primo minuto è un monologo: Zokora e Renato impongono il loro ritmo in mezzo al campo al Málaga, Navas va via quando e come vuole, palloni su palloni in area, occasioni, palo di Luis Fabiano e clamoroso errore di Negredo sulla ribattuta (al vallecano manca stavolta il killer instinct in mezzo alla solita partita di sostanza e generosità)… ma a passare in vantaggio sono gli ospiti, incredibilmente. E per ben due volte: non basta l’opportunismo di Fernando sul mezzo svarione di Dragutinovic dopo calcio d’angolo, ci si mette anche un tiro malamente svirgolato dallo stesso Fernando che si trasforma per puro caso in un sensazionale passaggio filtrante d’esterno a rientrare verso Duda, che incrocia col sinistro e punisce Javi Varas (ancora titolare nonostante il ritorno di Palop dall’infortunio, e non a torto: portiere da tenere d’occhio).
Jiménez prova a reagire nella ripresa giocandosi il tutto per tutto in attacco, con Kanouté per Renato, praticamente da trequartista a supporto di Negredo e Luis Fabiano. Luis Fabiano trova subito il gol su un calcio d’angolo, è vero, ma la fase successiva è quella in cui in realtà il Málaga, sostenuto dalla sola fortuna nel primo tempo, gioca una grande partita. Gli ospiti cominciano a imporre il loro ritmo, nel senso che rallentano quello del Sevilla tenendo palla come una squadra di vertice più che come l’ultima in classifica. Guidati dalla validissima regia di Apoño (miracolosamente disponibile dopo aver dato del negro a Ewerthon e aver sputato in faccia ad Ander Herrera nello scorso turno col Zaragoza, giusto per non farsi mancare nulla), sostenuti dalla mobilità del sempre ottimo Obinna davanti, stazionano nella metacampo di un Sevilla forse un po’disunito col solo Zokora in mediana e sembrano molto più vicini al terzo gol che a subire il pareggio.
Però le grandi squadre son quelle che hanno anche i grandi giocatori capaci d’inventare dal nulla: questo è Luis Fabiano, il più geniale e dotato finalizzatore di tutta la Liga ora che Van Nistelrooy è praticamente inattivo. Chi aveva ancora negli occhi la sua perla contro il Villarreal, deve di nuovo stropicciarseli per l’abilità con cui al limite dell’area, nonostante la sorveglianza di Iván González (promettentissimo difensore della cantera malaguista con già un gol all’attivo nella partita d’esordio col Zaragoza), O Fabuloso incrocia verso l’angolo opposto quasi avesse gli occhi anche sulla nuca.

Pesantissima battuta d’arresto per i padroni di casa, il punto invece può incidere al momento più sul morale che sulla classifica di un Málaga che finora non aveva ancora trovato un filo logico nella sua manovra (con frequenti cambi di modulo, fra 4-2-3-1, difesa a cinque e il 4-4-2 di ieri), fanalino di coda nonostante un organico nettamente superiore rispetto alla passata stagione.

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mercoledì, novembre 25, 2009

A lezione di filosofia (e, di passaggio, anche di calcio).


Un pugno sul tavolo, una perentoria dichiarazione di intenti. Suona così questo Barça-Inter 2-0, un’ultima spiaggia trasformata dai blaugrana in un allenamento semiserio. La morale della serata è chiara: puoi pure avere difficoltà, contrattempi, ma al momento del dunque il tuo discorso lo imponi, perché nessun altro possiede i tuoi argomenti e la tua convinzione nell’affermarli.

Poche partite come questa possono rendere felice un allenatore, e in particolare Pep Guardiola: pur senza il suo giocatore migliore, Messi, senza un’altra stella come Henry e una pedina importante come Yaya Touré, il Barça stravince affermando la propria identità a prescindere dalle contingenze. Chiaro che nessuna squadra potrà mai risultare del tutto indipendente dalle proprie individualità, questa è utopia (fino a prova contraria, in campo c’erano pur sempre Iniesta, Xavi, Piqué e Alves…)… ma qui, signori miei, c’è un modello di successo che si impone da sé, con la forza della propria evidenza. Prestazioni come questa non sono frutto né dell’ispirazione di un giorno, né di un momento di particolare forma, né, arrivo a dire, del lavoro pur fenomenale di più di un anno di Guardiola: queste prestazioni sono figlie di una politica più che decennale che a partire dal lavoro di Cruijff ha dato al Barça un’impronta, una filosofia e una personalità da grandissima squadra che in occasioni come questa escono prepotentemente, indipentemente dalle circostanze e dal momento di forma. È qualcosa che è scritto nel tuo DNA e di cui ti puoi far forte in qualunque momento: il possesso-palla, il gioco di posizione, la consapevolezza che anche nella peggiore delle ipotesi tutto comunque dipenderà solo e soltanto da te. L’Inter dai tempi di Helenio Herrera questa personalità dominante a livello internazionale non l’ha ancora ritrovata, e la differenza sta qui, ancora di più che nelle individualità (non credo che, a parte Iniesta e Xavi, la formazione del Barça di stasera fosse così tanto superiore sulla carta). Una sottolineatura sacrosanta fatta dallo stesso Mourinho.

Ci sono giocatori che da soli possono decidere una partita con un colpo di genio. Su un gradino ancora superiore poi ci sono quei giocatori che da soli la partita la indirizzano, la guidano come se manovrassero i fili di una marionetta, ogni benedetto secondo, minuto dopo minuto. Il demiurgo di questa sera si chiama Andrés Iniesta.
In assenza di Messi, è lui che fa da Messi. Parte teoricamente da ala destra, ma è il giocatore a tuttocampo che da solo condiziona tutto, che crea il contesto favorevole perché Xavi possa muovere palla da maestro e perché Alves, Pedro e compagnia possano attaccare gli spazi con successo. Insomma, credevamo tutti che si trattasse di un big-match, invece era soltanto un giocattolo nelle mani di questo ragazzo.


Andresin
si muove tra le linee, sfugge costantemente al radar di Mourinho mandando in tilt il suo rombo di centrocampo, giocando ogni pallone con classe e intelligenza sbalorditive: venendo nel mezzo offre una sponda decisiva a Busquets, Xavi e Keita (magnifici nel loro costante scambio di posizioni che permette tocchi rapidi e sempre fronte alla porta avversaria) e attira in zona centrale tutto il blocco difensivo interista aprendo un’autostrada ad Alves. Presi in mezzo Chivu e Motta, un centrocampo a rombo per definizione non può coprire in ampiezza, e qui si fionda Alves. Così, dopo il vantaggio di Piqué su azione da calcio d’angolo, nasce il capolavoro del 2-0, una splendida manovra sull’asse Xavi-Alves (onestamente non si è ancora capito quanti occhi abbia Xavi) finalizzata dal solito Pedrito, non un cervello calcistico sopraffino ma comunque un affidabile dodicesimo uomo, tatticamente funzionale e raramente in ritardo sotto rete.

Barça tremendamente superiore per filosofia di gioco, per convinzione e per intensità, con un pressing alto mai così gagliardo in questa stagione. Nel secondo tempo l’Inter raddrizza qualcosa, Mourinho cambia il disegno del 4-4-2 affrontando il problema-Iniesta con una marcatura più stretta (non proprio a uomo) di Chivu e con Muntari largo per tenere Alves. Il Barça perde qualcosa in fluidità, anche per appagamento e per un calo atletico, l’Inter è più presente nella metacampo avversaria ma non mette mai seriamente in discussione un verdetto così schiacciante.

FOTO: marca.com

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lunedì, novembre 23, 2009

Lotta a tre?

Importanti responsi dalla giornata di sabato. Il Barça fermato alla Catedral sul pareggio cede la leadership al Real Madrid, che così potrà giocare su due risultati favorevoli il Clásico della prossima giornata al Camp Nou. Nel mentre a Tenerife nel pomeriggio il Sevilla ottiene il massimo risultato: i tre punti di distacco dal Real Madrid obbligano a tenere in considerazione anche gli andalusi (il Valencia a –4 richiede invece un esame ulteriore).


Dio benedica il risultato. Mai come in questa occasione il Real Madrid può nascondersi dietro il responso del tabellone. La prestazione, assai deludente, passa in secondo piano stavolta, perché momentaneamente la pressione si sposta dalle spalle di Pellegrini al Barça, e perché anche una vittoria striminzita e grigia come quella di ieri può fungere da trampolino data la prossimità del match del Camp Nou. Passare di colpo da una situazione di totale indefinitezza, di mormorii e di ansia attorno al nuovo progetto a un possibile vantaggio addirittura di quattro punti sul Barça potrebbe comportare una svolta radicale nella stagione madridista. Potrebbe subentrare l’ottimismo, e il dato psicologico retroagirebbe anche su quello tecnico, favorendo il consolidamento di un progetto, sinora rimasto solo sulla carta, che fra l’altro proprio a partire dal Clásico tornerà a contare su Cristiano Ronaldo.

A fronte dei discorsi sul valore potenzialmente molto elevato di questo risultato rimane però l’immagine di squadra davvero inconsistente che offre questo Real Madrid incapace di condurre il gioco con continuità per 90 minuti. Ancora una volta si vede qualcosa di buono soltanto nel primo quarto d’ora/mezzora del match: ci mette del suo anche il Racing appena affidato a Portugal dopo l’esonero di Mandiá.
Timidissimo nel suo 4-2-3-1, sprofonda ai limiti della propria area senza pressare l’inizio dell’azione madridista: strana passività per una squadra che della disciplina e dell’intensità in fase di non possesso aveva fatto il suo cavallo di battaglia negli ultimi anni. Senza doversi preoccupare alle sue spalle davanti a un Racing con troppa poca qualità per ripartire in spazi così estesi, il Real Madrid può far circolare palla con buona continuità (Pellegrini propone una nuova combinazione a centrocampo nel suo consueto 4-4-2 ibrido: Xabi Alonso vertice basso, Granero che un po’lo accompagna al centro e un po’ tende alla fascia destra coordinando i suoi movimenti con quelli di Kaká), con la possibilità sempre presente di inquietare coi suoi tiratori dal limite dell’area (palo di Xabi Alonso). Albiol acciaccato e Sergio Ramos squalificato portano Garay accanto a Pepe (dominante contro gli attaccanti del Racing) e Arbeloa a destra, con Marcelo di nuovo terzino a comporre una catena di sinistra con Drenthe che lavora discretamente nel primo tempo.
Come al solito però il gol di vantaggio (Higuaín d’opportunismo) intorpidisce gli uomini di Pellegrini. Il film di sempre: giocatori che cominciano a portare palla disordinatamente, squadra che non attacca più in blocco, si allunga e comincia a perdere palla in zone del campo sempre meno avanzate e a faticare nel recuperarla. Così succede che nella ripresa anche il Racing come il Tenerife, il Xerez e il Valladolid guadagna metri e possesso-palla.

Contro una squadra normale il Madrid avrebbe sicuramente pagato, ma la sua fortuna è di trovare sulla sua strada una delle più ferme candidate alla retrocessione. Indebolito rispetto all’anno scorso, il Racing continua a patire la scarsissima creatività del doble pivote Colsa-Lacen e in più perde chiaramente colpi in attacco. Le cessioni di Pereira e soprattutto di Zigic non sono state riassorbite: Tchité rapido e generoso nel cercare la profondità, ma con troppe carenze qualitative nel finalizzare l’azione; Geijo, che gli subentra, ha doti potenzialmente superiori come riferimento offensivo, ma è una pura incognita a livello realizzativo (l’ex Depor Xisco, la terza scelta, è invece elemento abbastanza modesto).
Così in una fase pure favorevole, il Racing non fa nemmeno sporcare i guanti a Casillas. Qualcosa di più sensato e ambizioso si intravvede soltanto con l’entrata del canterano Canales, unico vero rifinitore della rosa (non lo sono né il Munitis che parte da destra e che non ha più l’elettricità degli anni migliori, né quel Luis García davvero malinconico rispetto alle buone stagioni con Barça e Liverpool). Con lo spostamento di Luis García a sinistra Canales assume il comando tra le linee e lega di più centrocampo e attacco, propiziando combinazioni un minimo elaborate e segnando anche un gol ingiustamente annullato dall’arbitro. Nulla di sensazionale, ma in una squadra in cui i centrocampisti non vedono al di là del proprio naso e due attaccanti non fanno mezzo gol, il fatto di saper giocare a calcio dovrebbe porre in secondo piano le considerazioni anagrafiche che ne hanno finora ritardato il lancio in prima squadra (18 anni, campione d’Europa con l’Under 17 nel 2008, integrato nell’Under 19 già nell’ultimo Europeo).


¿Qué pasa, Pep? È un momento chiaramente delicato per il Barça, non tanto perché questa flessione sia irreversibile, ma perché il brevissimo termine presenta ostacoli forse non del tutto alla portata delle possibilità attuali del Barça. Giocarsi tutto con l’Inter non solo senza gli influenzati Abidal, Touré e Márquez, ma anche senza Messi e forse senza Ibrahimovic non rappresenta un handicap da poco, tanto più in un momento in cui il gioco e la condizione psicofisica sono ben lontani dai migliori standard. Quello che si nota è una certa carenza di cattiveria e intensità rispetto alla passata stagione: non è quel Barça che in tutte le partite e in ognuno dei 90 minuti impone il suo ritmo.

Caparrós infoltisce il centrocampo con tre centrali (Javi Martínez, Gurpegi, Orbaiz), in un 4-5-1 che vede Susaeta e Yeste larghi a supporto di Llorente. Il pregio dei padroni di casa in quest’occasione risiede nell’utilizzare più il cervello che quella foga un po’demagogica che alla lunga ne compromette le chances in numerose partite: Javi Martínez non si avventura nelle sue missioni impossibili ma tiene la posizione corretta vicino alla difesa, e così i suoi compari. Raggiunta la parità numerica con Xavi, Busquets e Keita, il peso della manovra blaugrana ricade nelle prime fasi del match sui difensori, in una misura anche eccessiva (ottimo comunque Chigrinskiy, alla sua miglior prestazione finora). Passati i minuti iniziali il Barça si riequilibra e coinvolge più giocatori, e in maniera più continua, nella manovra, garantendosi il dominio territoriale (e alcune buone occasioni), a partire soprattutto dalla posizione di Messi, in assenza di Ibra falso centravanti come in alcune delle migliori partite della passata stagione.
La fase migliore degli uomini di Guardiola si estende fino all’inizio della ripresa, quando Alves pescato magistralmente da Xavi si inserisce per lo 0-1. Ma è proprio dal vantaggio in poi che si apprezza tutta la differenza fra questo Barça e quello della scorsa stagione: i blaugrana non congelano né ammazzano la partita, improvvisamente cominciano a farsi trascinare dall’Athletic su un piano a loro completamente sgradito, e cioè quello dei ritmi spezzettati, delle palle contese, dei capovolgimenti da un fronte all’altro… Buonissima in ogni caso la reazione d’orgoglio dei baschi, che trovano il pareggio con il neo-entrato “Diego Armando” Toquero, che approfitta di una dormita fra Piqué ed Alves sugli sviluppi di un’azione tipicamente “made in Athletic”: rinvio del portiere, spizzata di Llorente e inserimento vincente della seconda punta.
Costretto a fare a meno di Messi, Guardiola si gioca il finale con l’onesto Henry e con Bojan, la cui panchina iniziale, pure in assenza di Ibra, fa davvero riflettere sulla scarsa considerazione in generale riservatagli da Pep. È un finale comunque giocato male, più sui nervi e le azioni individuali, con molte imprecisioni e scarsa continuità.


Il terzo incomodo. Intanto il Sevilla mette altro fieno in cascina, non importa se poco meritato. Il Tenerife infatti gioca una signora partita, confermandosi una delle squadre più interessanti di Primera in rapporto ai mezzi di partenza. Gli uomini di Oltra giocano un calcio veramente contagioso per lo spirito offensivo, l’intensità e il buon gusto estetico che lo caratterizzano. Non importa l’avversario, loro vogliono sempre fare la partita: pazzi scatenati che vanno a fare 56% di possesso-palla al Bernabeu (beccandosi uno 0-3 bugiardissimo), anche contro il Sevilla controllano il gioco per lunghi tratti, raccogliendo troppo poco. Schierati con un 4-2-3-1 nell’occasione (il 4-4-2 non si può fare perché la seconda punta titolare, Alfaro, è inutilizzabile perché prestato proprio dal Sevilla), pressano alto e fanno circolare il pallone con grande facilità da un lato all’altro. Mikel Alonso (gran pressing) e Ricardo (il regista) riciclano palloni su palloni, e l’organizzazione tattica offre sempre soluzioni facili al portatore di palla, che gioca a memoria. Sempre almeno due-tre opzioni di passaggio, con l’esterno vicino al portatore che stringe, il terzino che si sovrappone, l’attaccante o il trequartista che vengono incontro per fare da sponda, mentre l’esterno della fascia opposta si allarga prontamente per garantire il cambio di gioco.
Dopo una fase iniziale di predominio sevillista, il Tenerife si scioglie e attacca con continuità e a un ritmo alto (all’ala sinistra ancora una volta in evidenza la sfrontatezza del canterano Omar). Il problema però è che manca la capacità di fare la differenza negli ultimi metri: Nino, che nella scorsa Segunda ne ha fatti 29, fatica al di là dei buoni movimenti (anche se nel secondo tempo segnerà un gran gol), mentre mancano l’ultimo passaggio e l’imprevedibilità sulla trequarti, dato che Román Martínez è un semplice incursore adattato alle spalle dell’unica punta. Se la preparazione dell’azione è eccellente, la conclusione è deficitaria, con tiri dalla distanza spesso precipitosi e pochi giocatori a finalizzare in area.

E così se non mordi contro una squadra come il Sevilla, finisce che paghi. Al Sevilla al contrario basta un nulla per accendersi: una brutta palla persa da Bellvís, spazio in contropiede per Navas, e gol di Perotti. L’efficacia offensiva e le prestazioni affidabili sono in generale i grandi punti di forza del team di Jiménez. Ritmo, buona organizzazione difensiva (il reparto arretrato non risente delle assenze di Dragutinovic ed Escudé, buono l’apporto di Marc Valiente all’esordio assoluto in Primera), una fisicità alla portata di pochi nella Liga (impressionante Zokora), due frecce come Perotti e Navas a ribaltare il gioco e trovare il fondo, Kanouté, Luis Fabiano e ora anche Negredo capaci non solo di finalizzare come pochi ma anche di crearsi le occasioni da soli in area di rigore. Una volta che passa in vantaggio questo Sevilla è difficilissimo da riagguantare: si chiude e, per le necessità dell’avversario, vengono da sé quegli spazi in cui fa tanto male.
Una rosa logicamente molto inferiore per qualità assoluta a quelle di Barça e Real Madrid, ma una rosa completa. Il grande dubbio rimane il gioco, tendenzialmente più di quantità che di qualità. Alla grande capacità di gestire e concretizzare non si accompagna una pari capacità nel sapersi creare le situazioni favorevoli. La fisicità superiore frutta una grande pressione sul centrocampo avversario, molti palloni macinati, spesso anche dominio territoriale, ma questo dominio non si traduce facilmente in situazioni di superiorità numerica. È un Sevilla meno legato, con più movimento fra i reparti rispetto a quello inguardabile dell’anno scorso che come alternativa fondamentale aveva quella fra il possesso-palla orizzontale e il lancio a casaccio, però è un Sevilla che accusa sempre una certa prevedibilità. Navas e Perotti rappresentano l’unica via per la superiorità numerica, e uno schieramento con baricentro basso e raddoppi puntuali sulle fasce può irretire oltre misura il Sevilla, basti pensare allo 0-0 casalingo contro un Espanyol ridotto in dieci.
Mancano alternative perché a centrocampo prevalgono gli uomini che corrono col pallone rispetto a quelli che fanno correre il pallone (con Romaric inesploso e Maresca ceduto, Renato è sempre più indispensabile anche perché può creare più linee di passaggio coi suoi movimenti senza palla rispetto a centrocampisti bloccati come Zokora, Duscher e Lolo), e perché manca anche imprevedibilità sulla trequarti. Tutto ciò può costare qualche pareggio di troppo a fronte di avversarie come Barça e Madrid la cui tendenza prevalente è quella di andare di tre punti in tre punti.

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mercoledì, novembre 18, 2009

Una grande generazione.

Si è conclusa con un buon terzo posto la spedizione in Nigeria della Spagna Under 17. Un girone passato in scioltezza (a parte la sofferenza della prima con gli USA, costretti a rimontare in dieci sin dal secondo minuto), un ottavo altrettanto brillante con il Burkina Faso, l’altalena del quarto con l’Uruguay (partita pazza: doppio vantaggio e stradominio per un’ora di gioco abbondante, poi due ingenuità che fruttano la rimonta a un avversario che prima dei rigori va anche vicino al colpaccio) e infine la non-partita contro una Nigeria a dir poco intrattabile dal punto di vista atletico (aspetto che a livello Under 17 pesa ancora di più, anche se poi il capolavoro della Svizzera in finale ci ha dimostrato che lo si può anche aggirare). Meritata poi la medaglia di bronzo al termine di una gara con la Colombia sostanzialmente controllata.

Questa Under 17 si è mossa con disinvoltura secondo i canoni classici della scuola spagnola: 4-2-3-1 (contro il Malawi e in alcune partite a vantaggio acquisito 4-1-4-1), possesso-palla e compagnia bella. Ma quello che conta di più a questi livelli è sicuramente il materiale umano, in prospettiva eccellente. Siamo di fronte a una delle migliori ultime nazionali giovanili, senza ombra di dubbio. Giocatori di alto livello tecnico medio, pienamente funzionali a una filosofia di gioco, e con un’esperienza già ragguardevole per la loro età. Non conosco i dati delle altre nazionali del mondiale onestamente, ma impressiona che sei elementi di questa rosa abbiano già esordito a livello ufficiale con la prima squadra (Muniesa Koke, Muniain, Isco, Edu Ramos, Kevin), mentre altri come Dalmau e Borja son già stati tenuti in considerazione nel corso del precampionato.


TABELLINI
Spagna vs. USA (3-1): Edgar; Dalmau, Sergi Gómez, Muniesa, Aurtenetxe; Koke, Edu Ramos; Muniain (Morata, 84’), Isco (Amat, 7’), Sarabia; Borja (Kevin, 62’).
Gol: 0-1 (4’): McInerney. 1-1 (22’): Borja. 2-1 (30’): Sarabia. Espulso Sergi Gómez al 2’.

Spagna vs. Emirati Arabi (3-1): Edgar; Blázquez, (Dalmau, 65’), Amat, Muniesa, Aurtenetxe; Sergi Roberto, Koke; Muniain (Carmona, 61’), Isco, Sarabia (Edu Ramos, 80’); Borja.
Gol: 1-0 (12’): Isco. 2-0 (19’): Borja. 2-1 (68’): Sebil. 3-1 (88’): Carmona.

Spagna vs. Malawi (4-1): Yeray (Celaya, 77’); Dalmau, Amat, Sergi Gómez, Blázquez; Kamal; Kevin (Sarabia, 75’), Sergi Roberto, Espinosa, Carmona (Muniain, 83’); Morata.
Gol: 0-1 (32’): Carmona. 0-2 (60’): Morata. 0-3 (62’): Espinosa. 0-4 (74’): Morata. 1-4 (82’): Milanzi.

Spagna vs. Burkina Faso (4-1): Edgar; Dalmau, Sergi Gómez, Muniesa, Aurtenetxe; Sergi Roberto (Espinosa, m.88), Koke; Muniain, Isco (Edu Ramos, m.66), Sarabia (Carmona, m.80); Borja.
Gol: 1-0, M.19: Sergi Roberto. 1-1, M.26: Ibrango. 2-1, M.56: Sergi Roberto. 3-1, M.67: Sergi Roberto. 4-1, M.83: Carmona, rig.. Espulso Dalhata Soro (Burkina) all’81’.

Spagna vs. Uruguay (3-3 nei tempi regolamentari, 4-2 per la Spagna ai rigori): Edgar; Dalmau, Sergi Gómez, Muniesa, Aurtenetxe; Koke, Sergi Roberto (Amat, min.46); Muniain (Edu Ramos, min.61 (Kamal, min.90)), Isco, Sarabia,; Borja.
Gol: 0-1, min.10. Luna. 1-1, min.17. Isco, de penalti. 2-1, min.49. Borja. 3-1, min.50. Borja. 3-2, min.71. Mezquida. 3-3, min.84. Gallegos. Espulsi: Sarraute (Uruguay) al 32’, Muniesa al 45’.

Spagna vs. Nigeria (1-3): Edgar; Dalmau, Gómez, Amat, Aurtenetxe; Sergi Roberto (Espinosa, m.65), Koke; Muniaín (Carmona, m.23), Isco, Sarabia (Morata, m.65); Borja.
Gol: 0-1, m.30: Okoro. 0-2, m.61: Emmanuel. 0-3, m.71 Emmanuel. 1-3, m.84: Borja.

Spagna vs. Colombia (1-0): Edgar Badía; Dalmau, Gómez, Muniesa, Blázquez; Koke, Sergi Roberto (Kamal, m.73); Kevin, Isco, Sarabia (Carmona, m.46); Borja (Morata, m.66).
Gol: M.75: Isco.



UNO PER UNO
Nota: non ho potuto assistere alla trasmissione integrale di tutte le partite. Delle prime tre del girone Eurosport ha mandato delle sintesi (ampie quelle delle prime due, risibile quella del Malawi), per cui non ho potuto raccogliere un’eguale quantità di informazioni per tutti i giocatori (le schede delle riserve sono particolarmente striminzite). Mi ha potuto aiutare comunque l’aver osservato molti di questi giocatori già nell’Europeo o coi loro club.


Edgar Badía (Espanyol): Portiere tutt’altro che ortodosso, non proprio convincente. Ha un bel colpo di reni che gli consente interventi non facili e spettacolari, ma tecnicamente lascia a desiderare. Come tradizione dei portieri spagnoli, la gestione delle uscite alte regala brividi; sulle uscite basse invece è pronto e rapido, e consente anche buoni recuperi alle spalle di una difesa alta. Comica la papera che regala il gol agli USA, curioso il comportamento nella serie di rigori con l’Uruguay: si butta con un secolo d’anticipo, eppure i battitori della Celeste capitolano. Presenze: 6 (da titolare). Minuti: 570.

Albert Dalmau (Barcelona): Terzino destro titolare, rendimento regolare, ha le carte per una buona carriera anche se non è chiaro se il livello sia da futura titolarità blaugrana. Potente e con una notevole facilità di corsa, è un laterale abbastanza completo: tatticamente attento in fase difensiva, aggressivo in marcatura, tiene bene la posizione coordinandola con quella dei compagni di reparto, non si fa sorprendere sulle diagonali e raramente abbocca negli uno contro uno. A questo aggiunge poi una chiara propensione offensiva: costantemente in sovrapposizione e con un buon controllo di palla, lasciano però a desiderare le sue scelte quando viene coinvolto dalla trequarti in su: spesso precipitoso e impreciso, un po’approssimativo al cross. Presenze: 7 (6 da titolare). Minuti: 595.
Sergi Gómez (Barcelona): L’anello debole dell’undici titolare. Sobrio all’Europeo, in questo mondiale ha evidenziato una certa goffaggine ed insicurezza che, aggiunte a doti di base assolutamente nella norma, hanno aggravato il bilancio. Il più prestante dei difensori centrali, ma anche il più macchinoso, il più lento e anche quello con la peggior lettura delle situazioni. Al di là di una base tattica sufficiente manca proprio il talento nell’intepretazione delle situazioni difensive, difficile possa fare strada fra i grandi. Presenze: 6 (da titolare). Minuti: 482. Ammonizioni: 1. Espulsioni: 1.
Marc Muniesa (Barcelona): Buon mondiale ma comunque inferiore alle attese, perché si parla di un talento difensivo fuori dal comune, molto probabilmente destinato in futuro a far coppia con Piqué al centro della difesa del Barça e della nazionale maggiore. In ogni caso la sua assenza si è notata: una volta espulso con l’Uruguay, la Spagna ha subito la rimonta, in semifinale invece la squalifica gli ha risparmiato il massacro operato dai nigeriani. Non comuni sono la naturalezza e la personalità con le quali Muniesa si muove al centro della difesa: straordinario l’intuito e la capacità di leggere in anticipo le situazioni, che gli permettono di dominare quella frazione di secondo decisiva anche per rilanciare l’azione ribaltando subito il fronte. Agile, rapidissimo negli spostamenti laterali e nei recuperi, una volta spezzato l’attacco avversario riparte subito palla al piede, con notevole dimestichezza nel controllo in corsa. Ciò gli permette di superare con facilità la prima linea avversaria, in perfetto stile Barça, anche se il suo mancino sembra portato più allo scambio corto che ai cambi di gioco. La combinazione di grande reattività e capacità nel rilanciare l’azione ha portato qualche esperto a raffigurarlo addirittura come un potenziale mix fra Puyol e Márquez. Le doti ci sono, ma il ragazzo deve ancora limare alcuni aspetti tattici: talvolta l’audacia, la propensione all’anticipo e l’eccessiva confidenza lo portano a sguarnire la zona e lasciare spazi pericolosi alle proprie spalle. Presenze: 5 (da titolare). Minuti: 405. Espulsioni: 1.
Jon Aurtenetxe (Athletic Bilbao): Ordinatissimo terzino sinistro, adoratore del compitino, comunque preciso e funzionale nella maggior parte delle occasioni. Non ha un’anima particolarmente offensiva, ma accompagna la manovra coi tempi giusti e generalmente senza che il pallone gli scotti tra i piedi, con tocchi semplici ma precisi e che non tolgono fluidità alla manovra. Un tipo di terzino sinistro sulla falsariga dei vari Monreal, Canella e Fernando Navarro. Buon senso della posizione, reattivo sul breve, non ha mai sofferto fino alla semifinale, quando il velocissimo nigeriano Egbedi lo ha mandato al manicomio e quando un suo errore di posizione ha propiziato il primo gol dei padroni di casa. Presenze: 5 (da titolare). Minuti: 480. Ammonizioni: 2.

Sergi Roberto (Barcelona): Titolare a partire dalla seconda del girone contro gli Emirati Arabi, è una delle ultime scoperte, non c’era qualche mese fa all’Europeo di categoria e solo dall’inizio di questa stagione è stato lanciato da Luis Enrique nel Barça B, sfruttando anche l’infortunio di Thiago Alcantara. Aspettiamo qualche partita in più prima di tracciare un giudizio completo, intanto i segnali sono molto interessanti: si esalta addirittura con una tripletta col Burkina Faso, poi con l’Uruguay sbaglia un rigore ed esce per esigenze tattiche dopo l’espulsione di Muniesa. In semifinale viene sovrastato come tutti, poi sufficiente contro la Colombia. Uno degli elementi più attrezzati fisicamente, spicca per la figura prestante, ma è tutt’altro che lento, anzi rimangono impressi i suoi coast-to-coast palla al piede, così poco “da centrocampista spagnolo”, che ricordano un po’quelli del bilbaino Javi Martínez. Devastante quando ha campo per partire e ribaltare l’azione, Sergi Roberto è tuttavia assai diverso da Javi Martínez come giocatore: è una mezzala dalle caratteristiche offensive, probabilmente più adatto per giocare in un 4-3-3 come quello classico del Barça che nel doble pivote di questa nazionale. Inoltre le progressioni palla al piede sono la variazione sul tema di un centrocampista “made in La Masía”, portato cioè più a far correre il pallone e a utilizzare uno-due tocchi. Non ci pensa su due volte quando gli si presenta l’opportunità di fiondarsi in area avversaria: ha buoni tempi di inserimento, vede la porta e stacca con pericolosità sui calci piazzati. Presenze: 6 (da titolare). Minuti: 452. Gol: 3. Assist: 2. Ammonizioni: 1.
Jorge Resurrección “Koke” (Atlético Madrid): Il punto fermo del centrocampo. Resta bloccato come riferimento davanti alla retroguardia, per proteggere i difensori o per rilanciare la manovra. Ottimo senso della posizione, buon fisico, si fa valere nei corpo a corpo e nella protezione della sfera, paga invece la lentezza quando è chiamato a coperture d’emergenza in spazi più ampi. Gran continuità d’azione, macina palloni su palloni con scarsa creatività, ma sa far correre il pallone utilizzando il minimo indispensabile di tocchi. Conclusione potente dalla lunga distanza, anche se per caratteristiche si avventura molto poco. Uno dei più maturi della rosa, pronto per entrare in pianta stabile nel calcio dei grandi, non a caso fa già parte del giro della prima squadra dell’Atlético (almeno con Abel, vedremo ora con Quique). Presenze: 6(da titolare). Minuti: 570. Ammonizioni: 2.

Iker Muniain (Athletic Bilbao): Il più atteso e mediatico, non ha pienamente soddisfatto aspettative che, ricordiamolo, sono altissime per un giocatore che a 16 anni ha già stabilito il record del più giovane esordiente con la maglia dell’Athletic e del più giovane goleador in assoluto nella storia della Liga. Il suo rendimento è stato un po’discontinuo: qualche pausa, qualche fase in cui il suo talento ha pesato, ma mai fino ad affermarsi come uomo-partita indiscusso. Un infortunio poi lo ha tolto di mezzo nel primo tempo con la Nigeria, costringendolo a un rientro anticipato in Spagna. Al di là del mondiale, le potenzialità, già pregustate con l’Athletic, sono formidabili. Piccolino, compatto nel suo metro e sessantanove per sessantatre chili, soffre logicamente il contatto con giocatori prestanti, ma ha una già interessante esplosività muscolare che gli permette di aumentare le marce e andare via. Il baricentro basso poi favorisce la coordinazione nei movimenti: in un fazzoletto di campo può girare e cambiare direzione quanto desidera, e la tecnica nel controllo di palla gli consente arresti, ripartenze e cambi di direzione micidiali. Non è l’insopportabile dribblomane alla Diego Capel comunque, sa distinguere i momenti in cui prendersi la responsabilità dell’azione personale da quelli in cui per dare scioltezza al gioco una triangolazione è la cosa migliore. Non va sempre sparato, ma sa anche rallentare e gestire “la pausa”, qualità che distingue i giocatori veri. È un giocatore tatticamente difficile da inquadrare: giocando da esterno come in questa nazionale e come fatto finora nell’Athletic (ma prevalentemente a sinistra) cerca in maniera quasi ossessiva il taglio interno (ma qui Isco gli ha sottratto protagonismo); ispirato nell’assist, non è tuttavia nemmeno un trequartista: abituato più a una figura di rifinitore al centro dell’elaborazione della manovra (alla Valerón, alla Silva o alla Iniesta, per intenderci), il calcio spagnolo è meno abituato a una figura invece diffusissima nella storia recente del calcio italiano e che a mio parere può rappresentare meglio Muniain, ovvero quella della seconda punta di fantasia. Così vedo Iker: un giocatore più portato a inventare lo spunto decisivo negli ultimi 30 metri piuttosto che a indirizzare costantemente la manovra. Sulla falsariga dei Baggio, Del Piero, Zola e Cassano. Un auspicio niente male. Presenze: 6(5 da titolare). Minuti: 326. Assist: 1.Ammonizioni: 1.
Francisco Alarcón “Isco” (Valencia): Il giocatore più elegante e dotato tecnicamente della spedizione, una gioia per gli occhi. Numero 10 classico, punto di riferimento per la manovra, ha movimenti intelligenti fra le linee e non si nasconde mai. Il primo controllo, favoloso, gli dà un bel vantaggio sugli avversari, e non è raro vederlo schizzare via come un’anguilla fra nugoli d’avversari. Il suo è un calcio in punta di piedi, di piccoli tocchi che fanno sparire e riapparire il pallone all’improvviso, un film sempre nuovo. Il repertorio fantasiosissimo di finte, controfinte e controlli a seguire e con la suola (stupendo il gol agli Emirati Arabi) non lo porta in ogni caso a piacersi in eccesso: certo, in qualche momento evidenzia ancora un dribbling di troppo, ma sembra più un segno di fisiologica immaturità che di narcisismo. È comunque un giocatore che sa già coordinarsi coi movimenti dei compagni e leggere il gioco indirizzandolo con personalità: si offre sempre per il triangolo, vede ed esegue l’ultimo passaggio con classe notevole. I sopracitati piccoli tocchi e l’agilità rendono difficile da marcare sul breve, mentre nell’allungo e nel corpo a corpo qualsiasi energumeno se lo mangia. Può crescere sotto quest’aspetto, a patto di non snaturarne le caratteristiche. Il tiro non è potente, ma vede la porta, arrivando a sorpresa a rimorchio degli attaccanti e piazzandola. Presenze: 6(da titolare). Minuti: 463. Gol: 3. Assist: 2. Ammonizioni: 1.
Pablo Sarabia (Real Madrid): Probabilmente il migliore della spedizione assieme a Isco, inafferrabile nel quarto con l’Uruguay. Esterno sinistro (ma spesso nei 90 minuti si scambia di fascia con Muniain), gioca quasi esclusivamente col mancino, anche se ogni tanto si concede qualche rientro sul piede destro per rendere meno leggibile la propria azione dai terzini.
Elegante, perfetto nel controllo in corsa, sinistro più preciso che potente ma comunque assai insidioso nelle conclusioni incrociate (è anche un buon esecutore di calci piazzati) oltre che calibrato nei cross, tecnicamente non gli si possono fare proprio appunti, ma un grosso punto interrogativo riguarda l’aspetto atletico. Come Isco il suo forte è l’abilità nel breve, ma cede qualcosa nell’allungo. Se però Isco è di ruolo un rifinitore, che come principale prerogativa deve avere quella di saper nascondere e far circolare il pallone, un esterno come Sarabia ha per forza bisogno dello spunto esplosivo. Il madridista disorienta l’avversario muovendo il pallone rapidamente nel breve e aiutandosi col gioco di gambe, però non si nota quel cambio di ritmo che lascia secco l’avversario. L’evoluzione da questo punto di vista avrà un certo peso sulle sue prospettive di carriera. Presenze: 7(6 da titolare). Minuti: 496. Gol: 1. Assist: 3.

Borja González (Atlético Madrid): Capocannoniere del torneo con 5 gol assieme all’uruguagio Gallegos e al nigeriano Emmanuel (nella foto posano insieme coi premi personali), è il tipico caso di centravanti che ha tutta l’apparenza dell’imbranato ma che, bene o male, all’appuntamento ci arriva quasi sempre in tempo. Destro, approssimativo nel dialogo palla a terra, il suo lessico scarno contrasta con quello forbito della maggior parte dei compagni, ma come movimenti e come soluzioni in fase di finalizzazione il mestiere dell’attaccante c’è tutto.
È questo che fa pensare che, magari non in un grande club, possa svolgere una buona carriera: ha un buon fisico ma non fa leva tanto su quello (che a livello Under 17 ha un valore tutto relativo, la cui verifica va rimandata per forza a un futuro abbastanza remoto), quanto piuttosto del fiuto, dell’intuito del centravanti, che quando c’è, resta un dato innato, ineliminabile e una carta in più che non viene mai meno. Al controllo di palla tutt’altro che impeccabile fa infatti da contraltare un’ottima capacità di guadagnarsi nove volte su dieci una posizione di vantaggio per concludere in area di rigore: sa smarcarsi rubando il tempo al difensore, e una volta arrivato sul pallone la buona coordinazione e l’istinto gli consentono di colpire al volo anche quando lo specchio della porta si trova fuori dal suo campo visivo. Bravo nel difendere palla col corpo e girarsi subito per la conclusione, può migliorare la precisione del colpo di testa. Presenze: 6(da titolare). Minuti: 518. Gol: 5. Assist: 1.

Yeray Gómez (Mallorca): Secondo portiere, titolare pochissimo impegnato col Malawi. Presenze: 1(da titolare). Minuti: 77.
Julen Celaya (Real Sociedad): Terzo portiere, Ginés Meléndez gli regala qualche spicciolo col Malawi. Presenze: 1. Minuti: 13.
Jordi Amat (Espanyol): Buon rendimento, più meritevole di Sergi Gómez, tuttavia la mancanza di centimetri potrebbe rivelarsi un grave svantaggio per il suo ruolo. Cerca di supplire col tempismo negli anticipi e nelle chiusure ed è molto pulito nel rilanciare l’azione, raramente butta via il pallone. Ha le qualità per fare il libero (nel caso qualcuno decida di riproporre questa figura) o anche il centrocampista davanti alla difesa. Presenze: 5(3 da titolare). Minuti: 427.
Albert Blázquez (Espanyol): Terzino destro o sinistro (destro di piede), bloccatissimo, tiene la posizione senza strafare. Rapido e puntuale nelle coperture. Presenze: 3(da titolare). Minuti: 245.
Edu Ramos (Málaga): Mondiale sfortunato per questo promettente regista già tenuto in grande considerazione da Muñiz (che lo fatto esordire a Jerez) per la prima squadra del Málaga: parte titolare, poi viene sorpassato da Sergi Roberto, infine, richiamato in causa a partita in corso, si infortuna contro l’Uruguay: ne avrà per un mese-un mese e mezzo. Presenze: 4(1 da titolare). Minuti: 153. Ammonizioni: 2.
Kamal (Real Madrid): Centrocampista difensivo, titolare contro il Malawi, brevi spezzoni con Uruguay e Colombia. Ingiudicabile. Presenze: 3(1 da titolare). Minuti: 137.
Javier Espinosa (Barcelona): Mezzala (ma nelle giovanili blaugrana è stato anche impiegato da ala) rapida e tecnica, dalle iniziative vivaci, si è divertito il suo col Malawi. Da rivedere con molto interesse. Presenze: 3(1 da titolare). Minuti: 117. Gol: 1.
Kevin Lacruz (Zaragoza): Esterno destro titolare a scapito di Muniain all’Europeo, qui ha trovato spazio dall’inizio solo col Malawi e nella finale terzo/quarto posto con la Colombia. Veloce e con buone qualità tecniche, assieme agli Under 21 Ander Herrera e Laguardia è una delle perle della cantera del Zaragoza, col quale ha già esordito in Primera, subentrando nella trasferta di Siviglia. Presenze: 3(2 da titolare). Minuti:193.
Adriá Carmona (Barcelona): Assente all’Europeo dello scorso maggio, aveva comunque già partecipato e vinto da titolare l’anno precedente con la nazionale dei Thiago Alcantara, Keko e Sielva. In questo torneo ha fatto da riserva di Sarabia, rispondendo benissimo quando chiamato in causa, a partita in corso (gran gol su punizione a sorpresa con gli Emirati Arabi) o dall’inizio come contro il Malawi (altro bel gol, stavolta su azione personale). Tutto mancino ma a suo agio anche partendo da destra per convergere al tiro, i movimenti e la mentalità sono quelli dell’ala classica: molto verticale e diretto nelle sue azioni, meno raffinato ma più potente rispetto a Sarabia. A differenza del madridista, lui ha il cambio di ritmo: pur avendo buone qualità nel dribbling stretto, gli fa comodo la possibilità di lanciarsi buttando il pallone oltre il difensore e lasciandolo sul posto con uno scatto esplosivo. Tiro secco e violento, traversoni veloci e tesi, difficili da gestire per i difensori avversari. Presenze: 5(1 da titolare). Minuti: 233. Gol: 3.
Álvaro Morata (Real Madrid): Rincalzo di Borja, al di là dei due gol nella passerella col Malawi non sono state tantissime le occasioni per mettersi in mostra. Attaccante più di manovra rispetto a Borja, impiegabile anche da seconda punta. Presenze: 4(1 da titolare). Minuti: 145. Gol: 2. Assist: 3.

FOTO: siemprecantera.blogspot.com; fifa.com

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sabato, novembre 14, 2009

Gestire la superiorità.

Ad oggi, 14 novembre 2009, fra la Spagna e quella che per potenziale dovrebbe essere la nazionale più forte del pianeta, l’Argentina, esiste un abisso di distanza. Per quanto questo possa contare.
L’unica cosa che importa infatti è il modo in cui questa superiorità verrà gestita da qui al prossimo giugno: se prenderà il sopravvento il coro dei “semo li mejo”, il ricordo del primo tempo di stasera, un’imbarazzante dimostrazione di forza, trarrà con sé frutti soltanto deleteri; se invece si comincerà a considerare quanto assurdo sia stato aver regalato all’Argentina oltre al momentaneo pareggio più di un’occasione per rimettersi in pista, allora la Spagna calcistica avrà dimostrato più maturità rispetto al passato.
È questo infatti il rischio sempre in agguato, che le certezze granitiche da tempo raggiunte vengano date sempre più per scontate, che non si avvertà più la necessità di confermarle sul campo, partita dopo partita, e che ci si finisca per scottare. La tendenza alla spocchia tradizionalmente insita nel calcio spagnolo è l’unico insidioso avversario (oltre al possibile logorio di giocatori impegnati su più fronti con i loro club fino alla fine della stagione) di una nazionale che dal punto di vista tecnico ha toccato già il suo tetto. Il tetto di un grattacielo per la precisione: sei più vicino degli altri al cielo, ma più in alto ti trovi più dolorosa diventa l’eventuale caduta.

Sfruttando l’assenza di Torres, Del Bosque massimizza la superiorità a centrocampo. È un 4-1-4-1 dove Xabi Alonso insolitamente gioca da mezzala sulla stessa linea di Xavi (misteriosa l’assenza dall’inizio di Cesc) e Busquets fa il vertice basso, l’esatto contrario della partita di qualificazione col Belgio. Come da copione poi Iniesta a sinistra e Silva a destra, sulle fasce inverse rispetto al piede di preferenza.
Come detto già nel post di commento al pur ottimo “nuovo acquisto” Navas, è in questa consolidata maniera, senza esterni di ruolo, che la Spagna riesce a occupare e a sfruttare al meglio il campo in tutta la sua estensione, in profondità come in ampiezza. In fase di possesso, le Furie si assicurano in ogni momento la superiorità numerica nella zona del portatore di palla. Una sorta di torello organizzato scientificamente in tutte le zone del campo, uno spettacolo.
Palla da un lato all’altro, se non c’è spazio si ricomincia, fino a quando il varco non si apre e la palla comincia a schizzare come un flipper, tutto di prima e con un continuo rimescolamento di posizioni da far girare la testa all’avversario. Possesso-palla tutto nostro, sempre nella zona scelta da noi e col ritmo scelto da noi, non importa che l’avversario si chiami Estonia o Argentina.
La superiorità in zona centrale è il primo passo: al solito i centrocampisti centrali avversari vengono presi nel mezzo fra il triangolo Busquets-Xavi-Xabi Alonso (nota di merito per Sergi B., sempre preciso e funzionale) e i tagli verso il centro dei falsi esterni Iniesta e Silva. Due cervelli da Premio Nobel questi due, sempre perfetti nell’alternare la posizione esterna e quella da trequartista, senza mai creare ingorghi alla manovra e puntualmente supportati dalle sovrapposizioni dei terzini e dagli spostamenti verso le fasce (generalmente la sinistra) di Villa.
Il canario in particolare è in un momento esaltante: da destra non solo taglia verso il centro per combinare con le mezzeali, ma va fino in fondo per allargare le maglie della difesa argentina: si avvicina a Iniesta e Villa, si sovrappone e così attrae Demichelis separandolo da Heinze e creando uno spazio invitantissimo per gli inserimenti centrali dei compagni. È un movimento che si osserva in più di un’occasione, ed è anche il movimento che caratterizza la splendida azione del primo gol, con Xabi Alonso a raccogliere i frutti avventandosi dalla seconda linea.
Dominio totale della Spagna nei primi 45 minuti, che potrebbe fruttare un meritato gol in più con un po’ più di cattiveria, di fortuna e anche con un rigore su Villa non ravvisato dall’arbitro. In questo monologo, il neo risiede in qualche leggerezza difensiva nella zona di Sergio Ramos, la cui genetica incapacità a tenere la posizione e offre buone chances a Di Maria sui ribaltamenti argentini.

Il secondo tempo, condizionato dai tanti cambi, , conta relativamente, se non per segnalare il persistere di una certa rilassatezza nell’approccio dei difensori alla gara (colpevole Albiol, che subentra a Puyol e regala il rigore del pareggio di Messi) e la doppietta di Xabi Alonso, stavolta dal dischetto (qui invece leggerezza di Demichelis sul fallo di mano), che fissa il risultato definitivo. Fischio finale e compito a casa per i ragazzi di Del Bosque: com’è che non abbiamo chiuso prima e con contorni ben più sostanziosi una gara del genere?

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Va di moda il “NormalDepor”.


Il giocoliere Djalminha, il pistolero Makaay, l’atipico Fran, Mauro Silva che ruba palla con la forza del pensiero, Jabo Irureta, la Liga 2000, le notti di Champions e il Centenariazo non esistono più. Chi parla di Deportivo La Coruña parla ora di una squadra normale, fatta di giocatori (chi più chi meno) normali, allenata da un tecnico normale che quasi certamente la condurrà a una posizione di classifica normale.
È questa la condizione attualmente insuperabile per il Deportivo: una condizione in principio vissuta con affanno e la paura di una retrocessione mai tanto vicina quanto alla fine del girone d’andata del 2007-2008, ma ora accettata e interpretata con grande equilibrio, sapendosi pure togliere qualche sfizio. Dopo dieci giornate, quinti in classifica con 19 punti, situazione abbastanza sorprendente se si pensa ad una rosa oggettivamente indebolita rispetto all’anno scorso dalle partenze pesanti di Lafita e Verdú.

Poco fumo, molto arrosto. Personifica quest’equilibrio Miguel Ángel Lotina, uno degli anti-divi per eccellenza delle panchine spagnole, col suo basso profilo, il suo buonsenso e quell’espressione perennemente accigliata eppure rassicurante.
Il basco si è segnalato come il tecnico probabilmente più duttile di tutta la Liga, sempre a partire dalle caratteristiche dei giocatori e mai imponendo forzosamente modelli di gioco predefiniti. Fu proprio la sua marcia indietro, il passaggio dal 4-2-3-1 al 5-4-1, a rappresentare la chiave di volta che portò il Depor a una grande rimonta nel girone di ritorno di quella Liga 2007-2008, dalla piena zona retrocessione fino a un piazzamento Intertoto.
Ritornato alla difesa a 4, Lotina continua tuttavia a proporre di tanto in tanto variazioni sul tema del 4-2-3-1/4-4-2: la scorsa stagione in alcune partite un 4-3-2-1 “ad albero di Natale” costruito per supportare l’inserimento di Valerón con una maggior copertura del centrocampo (e anche per aggirare il problema dell’assenza di Guardado allora infortunato), in questa un 4-3-3 non ancora proposto sul campo ma già presentato in un’intervista come possibile alternativa, partendo dal presupposto della scarsità in rosa di esterni destri di ruolo e dalla invece relativa abbondanza di attaccanti, senza contare che un ruolo da mezzala sinistra potrebbe ulteriormente esaltare le qualità di Guardado.
Partito con il 4-2-3-1, attualmente il Deportivo gioca con due punte. La nota dominante è l’estrema efficienza. Quattordici gol fatti, dato nella media, e undici gol subiti: non è la miglior difesa della Liga (è anzi la settima, alle spalle di, in ordine decrescente, Barça, Sevilla, Real Madrid, Valencia, Sporting, Espanyol), però i galiziani sono la squadra che finora ha mantenuto la porta inviolata nel maggior numero di partite, cinque, assieme a Real Madrid e Valencia.
La solidità difensiva è quindi l’arma in più di questo Deportivo. Un calcio minimalista, non proprio all’avanguardia, ma applicato con molta concentrazione e rigore: baricentro basso, ripiegamento ordinato e densità nella propria metacampo, raddoppi puntuali e poco spazio fra la coppia di difensori centrali Colotto-Lopo e il doble pivote di centrocampo Sergio-Antonio Tomás.
Il baricentro basso si sposa al meglio con le caratteristiche di Lopo (da anni rendimento regolarissimo, Del Bosque lo segue) e Colotto (non sta sbagliando un colpo da quando ha sottratto il posto a Zé Castro dopo le prime giornate), difensori non molto rapidi ma tatticamente avveduti ed efficaci in marcatura quando possono giocare sul corpo a corpo senza rischiare in spazi ampi. Va aggiunto comunque che con quest’assetto a volte la coperta si rivela un po’corta, non essendo il Depor (date le caratteristiche della maggior parte dei suoi giocatori) una squadra particolarmente veloce nel ribaltare l’azione, un handicap quando una volta recuperato il pallone i metri fra te e la porta avversaria sono molti.
Pur avendo dimostrato nelle scorse stagioni di saper gestire più registri e saper proporre una manovra sicuramente più elaborata rispetto alla versione ultraspartana di Caparrós, questo Deportivo “cinico” ha capitalizzato come non mai le palle inattive: due gol direttamente su punizione dal nuovo acquisto Juca (gran specialista, al momento però appiedato da un infortunio), e poi l’apporto dei vari Colotto, Lopo, Riki, Lassad, Juan Rodríguez a staccare in area avversaria.


Altri giocatori. Portieri: Fabri, Manu. Difensori: Laure (terzino destro), Zé Castro (centrale), Piscu (centrale), Angulo (terzino sinistro). Centrocampisti: Juca (centrale), Pablo Álvarez (esterno destro), Iván Pérez (esterno sinistro/destro, trequartista), Valerón (trequartista). Attaccanti: Adrián, Mista, Bodipo.


Si vince a sinistra. Nessuna indicazione politica, semplicemente la constatazione che la maggior parte del volume di gioco del Depor passa dal binomio mancino Filipe-Guardado, di gran lunga i due giocatori di maggior spessore tecnico nell’abituale undici titolare.
Filipe Luis Kasmirski, nonostante la delusione per il mancato approdo al Barça in estate, è arrivato all’agognata consacrazione, affermandosi come uno dei migliori terzini sinistri della Liga. All’arrivo in Spagna non sfonda nel Castilla, al Deportivo inizialmente è sottoutilizzato da Caparrós in un ruolo da esterno alto che non ne valorizza appieno le doti, quindi il vero salto di qualità coincide esattamente con quello di tutto il Deportivo nel girone di ritorno 2007-2008: la difesa a 5 lo libera da preoccupazioni difensive lasciandogli tutta la fascia per esaltarne le qualità di palleggio nel dialogo sulla trequarti con Lafita. Diventa una sorta di regista aggiunto della squadra, ruolo confermato anche col ritorno alla difesa a 4 nella stagione successiva e la partnership ripristinata con Guardado. Tali sono l’autorevolezza e la continuità di rendimento dimostrate che il brasiliano si segnala come recordman nella Liga attuale, con la bellezza di 73 presenze consecutive senza squalifiche né infortuni. E ci si augura vivamente che prosegua, perché il suo rimpiazzo, il giovane colombiano Brayan Angulo, si è rotto per tutta la stagione.
Nel gioco di Filipe risalta innanzitutto la sicurezza palla al piede, il tocco di palla nitido e lo spiccato senso della manovra: a testa alta, è sempre lui a permettere un’uscita agevole dalla metacampo ad inizio azione. Grande qualità nel fraseggio stretto, è difficile sottrargli il pallone, anche se gli manca lo spunto esplosivo per raggiungere il fondo, cosa che lo rende più incisivo quando si muove in zone più interne rispetto alla linea del fallo laterale.
Mancino pregiatissimo è anche Andrés Guardado, uno dei migliori crossatori del campionato, ma giocatore che sa andare oltre la dimensione del semplice giocatore di fascia. Anche lui portato più al palleggio che alla percussione verticale, può adattarsi anche alla posizione di interno e di terzino. Rapido e resistente, associa qualità e quantità, aiutando costantemente Filipe in fase di ripiegamento.

L’enigma della fascia destra. La partenza di Lafita ha lasciato un vuoto, e Lotina ha dovuto fare le sue belle acrobazie per trovare una soluzione. L’idea delle prime giornate è stata quella di affidarsi all’unico esterno destro di ruolo della rosa portato ad allargare il campo e cercare il fondo, ovvero il dignitoso Pablo Álvarez, poi contro l’Espanyol Lotina ha provato ad adattare l’attaccante mancino Riki, poi ancora un altro mancino contro il Sevilla, il canterano Iván Pérez (poco considerato da Lotina, promosso solo quest’anno ma già con 24 anni: punizioni velenosissime, ricorda un po’ l’ultimo Munitis nelle movenze oltre che nella morfologia), infine la scelta delle ultime giornate, ovvero spostare sulla destra Juan Rodríguez, che di ruolo sarebbe centrocampista centrale.
Juan Rodríguez non è un elemento esaltante, ma ha il pregio della duttilità. Tecnicamente sufficiente, ha però un senso del gioco limitatissimo, e la sua partecipazione alla manovra è del tutto irrilevante. A questo sopperisce con intensità e disciplina tattica in fase di non possesso e buoni inserimenti a rimorchio dell’attacco (golazo per la vittoria casalinga col Sevilla). In qualche modo entra sempre nell’undici titolare: da mediano in coppia con Juca nelle prime giornate, da trequartista al posto di Valerón poi, e ora da esterno destro senza alcuna profondità ma con un buon apporto tattico in ripiegamento sia stringendo verso il centro a sostegno di Sergio e Antonio Tomás che raddoppiando col terzino.

Concorrenza in attacco. Uno dei punti deboli del Depor dell’anno passato era rappresentato certamente dall’assenza di un attaccante da doppia cifra. In questa stagione ancora manca una certezza di qGrassettouesto tipo, però la scelta si è ampliata e non mancano i margini di miglioramento.
Lotina non ha ancora deciso fra la linea giovane di Lassad e Adrián López e i navigati Riki e Mista: decisione che probabilmente non arriverà fino alla fine della Liga, perché nessuno fra questi al momento spicca (basta sottolineare come i due capocannonieri della squadra, Riki e Lassad, abbiano finora totalizzato soltanto due gol, peraltro in compagnia di un centrocampista, Juca, e un difensore, Filipe) e perché la continua competizione pare la via migliore per stimolarne il rendimento.
Il più impiegato finora è stato Riki: seconda punta utilizzabile anche come unico attaccante o come esterno, non si è mai segnalato per una lettura del gioco particolarmente acuta, ma rappresenta comunque uno di quei pochi giocatori in rosa che permettono alla squadra di distendersi in contropiede, grazie alla velocità e al buon dribbling che lo rendono insidioso in campo aperto.
Subito dopo Riki, Lassad: tutt’altro tipo di giocatore il 24enne franco-tunisino, lanciato in prima squadra nello scorso girone di ritorno da Lotina. Se Riki dà uno sfogo in profondità, Lassad si segnala soprattutto come attaccante di manovra: costantemente attratto dal pallone, svaria tra le linee e sulle fasce laterali, segnalandosi per la grande dimestichezza palla al piede e il gioco di gambe, nonostante il metro e ottantotto e il fisico longilineo. Il suo neo è la mancanza di killer-instinct negli ultimi metri: anzi, sembrerebbe quasi allergico all’area di rigore, cosa che rende consigliabile affiancargli un’altra punta e lasciandogli una certa libertà.
Ha sfruttato appieno l’indisponibilità di Lassad per l’ultima trasferta a Getafe Miguel Ángel Ferrer Mista, con un gol e un assist nella sua prima presenza da titolare che lo rilanciano nella corsa per una maglia. Dalla sua il fiuto del gol e il mestiere (anche nel tenere palla e far salire i compagni), le doti da realizzatore sicuramente più sperimentate, ma anche parecchia ruggine: è dalla pessima esperienza all’Atlético che praticamente non è più un giocatore vero, tanto tempo.
Ancora inesploso invece il talento del nazionale Under 21 Adrián López, che alle accelerazioni palla al piede e a sprazzi interessantissimi negli ultimi metri (finora però con riscontri trascurabili in termini realizzativi) continua ad accompagnare pause secolari all’interno dei 90 minuti e un’inesistente partecipazione alla manovra che lo rendono in troppi momenti un giocatore in meno. Peccato, perché a differenza di Bodipo, rimasto come quinto attaccante staccatissimo nella graduatoria, di talento ce ne sarebbe parecchio.

La carta Valerón. Del SuperDepor che fu rimangono soltanto Sergio (perso il dinamismo, cerca di dettare i tempi e far valere il buon piazzamento), Manuel Pablo (ha recuperato un po’ di brillantezza nell’ultimo anno, pur dovendo diradare le sovrapposizioni) e lui, il Mago di Arguineguin.
Con la partenza di Verdú è rimasto l’unico rifinitore in rosa, tuttavia non può più reggere i 90 minuti domenica dopo domenica. Recuperato dopo due anni di infortuni che hanno rischiato di fargli chiudere la carriera, centellinato da Lotina che lo utilizza soprattutto nell’ultimo quarto di partita, per dare più fantasia o per congelare il risultato e far respirare la squadra quando si trova già in vantaggio.
Anche così, possiamo essere grati per questi pochi minuti, perché c’è sempre da imparare da Don Juan Carlos. Impari che quello del ritmo nel calcio è un discorso spesso frainteso: non necessariamente vince chi gioca al ritmo più alto, bensì vince chi il ritmo riesce a controllarlo e imporlo all’avversario, alto o basso che sia. È però molto più raro trovare giocatori che possiedano una classe tale da poter condizionare e dominare un match a partire da ritmi bassissimi. C’è Riquelme, e poi c’è Valerón: finchè esisteranno tipi come loro, il calcio non sarà mai omogeneizzato su un discorso di piatto atletismo.
Gioca camminando Valerón, e costringe anche gli avversari che magari schiumano rabbia per riversarsi in area avversaria a seguire il suo passo da lumaca. Gestisce con maestria consumata i tempi del gioco e fa apparire tutto più facile, con lui guardacaso si trova sempre un uomo smarcato da servire nelle migliori condizioni possibili. Anche con un minutaggio infimo, solo lui può dare un tocco superiore d’immaginazione al compitino (ben eseguito, ma pur sempre compitino) di questo Deportivo.

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