venerdì, aprile 30, 2010

Atlético sino in fondo.

Se chiedete a un tifoso colchonero il suo peggior incubo, probabilmente vi dipingerà una qualche partita casalinga di Liga contro Xerez o Málaga, infernali per come spingono puntualmente la squadra al fancazzismo e alla decomposizione. Invece, davanti a una partita ad Anfield, con la Kop sovreccitata e i Reds col coltello fra i denti, gli brilleranno gli occhi. In qualche modo, non importa come, i suoi risponderanno.
Spiace ripeterci con questa retorica che non rende del tutto giustizia alla storia di un club in fondo dominante in parecchi momenti della sua storia, però se Joaquín Sabina nell’inno del centenario dell’Atlético recita qué manera de sufrir… qué manera de ganar, ci sarà pure un motivo. Senza trovarsi sull’orlo della disfatta, senza complicarsi la vita, questa squadra non concepisce la vittoria, e se per un caso sfortunato la ottiene lo stesso, non la gusta proprio.
Il merito dell’Atlético è stato questo anche ieri, in una partita per larghi tratti soffertissima, con poche possibilità di proporre una reazione, ma che non ha mai visto i colchoneros completamente abbattuti e rassegnati (quanta differenza con il Barça della sera prima, che con un contesto da sogno sembrava non crederci più già dopo un’ora… a volte anche le migliori squadre del mondo o presunte tali hanno tantissimo da imparare). Hanno saputo aspettare il loro momento, si sono andati a prendere le loro occasioni e si sono conquistati la finale. Con merito, senza rubare proprio nulla, anche se la prospettiva di partire favoriti con il meno blasonato Fulham già terrorizzerà il tifoso colchonero medio… figuriamoci poi quella di un’ipotetica doppietta con la Copa del Rey…

La terapia del terrore aveva già avuto inizio dopo 15 secondi: prima palla giocata dal Liverpool, prima occasione. Atlético del tutto spiazzato dall’avvio dei padroni di casa, disposti in maniera anticonformista e molto interessante da Benítez: 4-2-3-1 con Aquilani, ma curiosamente l’ex romanista parte sulla trequarti, e in cabina di regia arretra Gerrard, accanto a Lucas. Ottima mossa perché mette Stevie al centro del gioco e, rispetto all’andata, dà una scossa al Liverpool: al Calderón Lucas+Mascherano non ce la facevano proprio a uscire da una trasmissione della palla lenta, precaria e orizzontale, Gerrard invece rappresenta di per sé un’iniezione di ritmo, di verticalità e di “cattive intenzioni” senza uguali. Tra l’altro, nota personale, fa piacere vedere Gerrard più arretrato per apprezzare appieno il miglior centrocampista del mondo, qualifica invece inevitabilmente annacquata nel tentativo ricorrente di “attaccantizzarlo” avvicinandolo sempre più alla prima punta. In tutto questo, con Glen Johnson adattato a sinistra, Mascherano va a fare il terzino destro (bene: non sempre perfettamente coordinato coi compagni di reparto, ma una garanzia nei recuperi e negli uno contro uno), mentre di punta si nota assai la differenza fra Ngog e un lottatore come Kuijt, che tiene costantemente in tensione i centrali dell’Atlético.
Il Liverpool impone un ritmo alto e alterna intelligentemente la palla lunga e la spizzata di Kuijt con le trame palla a terra (una davvero spettacolare prepara un quasi-gol sottomisura sempre di Kuijt), sfruttando ottimamente la fascia destra (l’intelligenza di Benayoun nei tagli da destra verso il centro e il fitto dialogo sulla trequarti con Benayoun e Gerrard distrae il sistema difensivo dell’Atlético e apre spazi alle sovrapposizioni di Mascherano (cui la voglia di correre non manca di certo), mentre anche Babel sull’ala opposta contribuisce a tenere molto più basso un Atlético che invece all’andata proprio dalla sua fascia destra aveva posto le basi del proprio dominio territoriale.

Stavolta invece Reyes viene ricacciato dietro, il mediocre Valera dà meno possibilità di rilanciare l’azione rispetto a Ujfalusi, ed è tutto l’Atlético che fa una fatica terribile ad uscire. Mantiene un discreto ordine in fase di non possesso, resiste in difesa (enorme Domínguez, enorme) ma inevitabilmente soffre perché non riesce a intervallare queste fasi con quel minimo di possesso necessario ad evitare l’apnea. Perde subito palla e ricomincia un nuovo attacco avversario, il Liverpool mantiene alto il ritmo e Anfield ci crede ancora di più.
Assunção e Raúl García sono attenti nell’accorciare verso la difesa e coprire molte delle possibili incursioni dalla seconda linea del Liverpool (vabbè, il gol di Aquilani… ma se in un contesto tattico e ambientale così difficile Gerrard praticamente non ha avuto mai l’opportunità di inserirsi e prendere la mira, vuol dire che quella zona è stata ben presidiata), ma in fase di possesso sono piatti e orizzontali che di più non si può, e in generale l’Atlético Madrid conferma il solito problema delle linee di passaggio scarse e risicatissime.
Reyes è risucchiato indietro e non può comunicare stabilmente con Agüero e Forlán, limitandosi a sprazzi (per quanto notevoli, vedi il passaggio che smarca Kun, poco ispirato in tutta la serata, per un contropiede pericolosissimo); mancano gli appoggi fra le linee per collegare i reparti e far salire la squadra, il 4-4-2 è troppo leggibile, pochi interscambi, pochi tagli, poca elaborazione (un aspetto sul quale deve lavorare tantissimo l’Atlético per crescere, al di là dell’indispensabile acquisto di un regista), poca partecipazione degli esterni (male Simão, che in questa stagione ha cominciato a dare più che evidenti segnali di declino) e anche scarso protagonismo di Forlán.
Però succede che il Liverpool non può tenere questo ritmo per novanta minuti, e nella ripresa la partita comincia gradualmente a equilibrarsi, pur non facendo l’Atlético niente di trascendentale. Il Liverpool corre e aggredisce meno, abbassa di qualche metro il blocco, e pur rimanendo prevedibili i passaggi dei giocatori dell’Atlético sono di più e più continui (con una maggiore partecipazione collettiva, vedi Antonio López, non proprio Roberto Carlos, che con personalità si carica buona parte del lavoro offensivo che su quella fascia Simão non riesce a garantire), contribuendo a smorzare la tensione.

Non esaurisce però l’orgoglio il Liverpool, e la zampata di Benayoun ad inizio supplementari ne è la dimostrazione. Ma la partita comunque non riescono a dominarla più i Reds, e cresce la paura per quella singola occasione che l’Atlético da un momento all’altro può comunque sfruttare.
Non c’è solo questo però, c’è anche una buonissima lettura di Quique dalla panchina nel giocarsi la carta Jurado. Carta che a dire il vero poteva anche giocarsi prima, già nei tempi regolamentari quando il Liverpool faticava ormai a mantenere pressing e distanze tra i reparti, fatto sta che Jurado incide tantissimo, perché offre la possibilità di sfruttare quegli spazi con un giocatore capace di cambiare ritmo e verticalizzare con estrema facilità. Giocatore graziosetto ma mai esploso, sempre accompagnato da una caterva di “se”, “ma” e “però”, ieri Manolo nel suo spezzone ha giustificato tutta la propria stagione, e la condizione di dodicesimo uomo e principale variante offensiva che andrà preservata anche in vista della prossima stagione.
Questo senza dimenticare che comunque non è stato Jurado ma uno svarione di Johnson ad aprire la strada a Reyes sull’azione del gol decisivo di Forlán… Ma, come si dirà da oggi… la fortuna aiuta quelli che sanno soffrire. Qué manera de sufrir, qué manera de ganar.

FOTO: elpais.com

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giovedì, aprile 29, 2010

Paralisi.

Tanto rumore per nulla. Doveva essere la mega-partita della stagione, e invece si avvicina di più alla Corazzata Potemkin secondo Fantozzi. Come spesso capita le attese esagerate si traducono in una delusione. Nulla da spartire con la ricchezza di contenuti della gara d’andata: l’Inter passa (meritatamente) con una strategia difensiva che rimanda al Paleolitico, evidente già da prima della (giusta) espulsione di Motta; il Barça trascorre novanta minuti al limite dell’area avversaria, in una situazione che nemmeno nei suoi sogni più umidi, con i primi passaggi stra-sicuri, con Xavi libero di decidere fronte alla porta, con opzioni di passaggio facili, continuità di manovra e ampiezza quanta ne vuoi, percentuali di possesso-palla disumane, avversario in inferiorità numerica, uno stadio colmo di entusiasmo… tutto l’armamentario possibile e immaginabile, ma a conti fatti ne sono uscite fuori solo un paio di occasioni e un assedio finale soltanto negli ultimi 10 minuti, quando il gol di Piqué ha risvegliato speranze parse sopite dopo già un’ora, per quanto ciò possa sembrare paradossale in un contesto tutto a favore del Barça. Roba da matti.

Guardiola l’aveva preparata bene, superando stavolta Mourinho nel confronto tattico, aiutato anche dall’emergenza che ha costretto il tecnico portoghese a sostituire l’infortunato Pandev con Chivu, improvvisato esterno alto che qualche metro al Barça lo regala per forza.
Due mosse fondamentali di Pep: Yaya Touré arretrato in difesa, come centrale destro in una linea spesso a tre (Piqué al centro, Milito un po’ terzino, un po’ centrale sinistro, a seconda dell’azione); Pedro largo a sinistra invece che a destra. Gli obiettivi sono i seguenti: quello consueto di liberare Messi fra le linee, ma al tempo stesso senza lasciare scoperta nessuna delle due fasce all’azione di rimessa interista; in difesa invece, avere una superiorità facile all’inizio della fase di possesso, e al tempo stesso avere giocatori più pronti alla copertura e alla chiusura laterale in caso di contropiede avversario.
Ha una sua logica e funziona, almeno fino a un certo punto: Pedro tiene bloccato Maicon (che, assieme a Sneijder è il giocatore-chiave su cui l’Inter si appoggia per rilanciare l’azione), ma anche la destra è coperta da Alves che quindi può lasciare a Messi libertà al centro. Piqué e Touré hanno una qualità atletica superiore che gli permette di frenare sul nascere le possibili ripartenze interiste, e al tempo stesso sono bravissimi nel portare palla dalle retrovie, superando con estrema facilità la prima linea difensiva dell’Inter e “provocando” l’avversario, indeciso se uscire dalla sua zona o invece abbassarsi ancora di più. L’Inter collassa ai limiti della sua area, la superiorità della transizione offensiva blaugrana isola Diego Milito (comunque encomiabile) dal resto della squadra e rende quindi impossibile ai nerazzurri un passaggio fluido dalla fase difensiva a quella offensiva come avveniva nell’andata, cioè quello che nel gergo di moda si chiama transizione (spesso usato erroneamente come sinonimo di “contropiede”).
Il problema è che il Barça pur costringendo l’Inter a una sola fase, prepara le condizioni di un dominio schiacciante che di fatto però non esercita mai. L’allenatore può essere bravo quanto vuole, ma non è lui che dribbla e tira in porta, non è lui che decide negli ultimi metri. E negli ultimi metri il Barça di ieri è stato lineare, scontato e banale: palla da un lato all’altro e immancabile il cross buttato in area da Pedro e Alves, come la più normale delle squadre. L’Inter aggiunge ai quattro difensori un centrocampista che si abbassa, poi copre e raddoppia sulle fasce, ma non ci sono scuse: con una circolazione di palla più rapida gli spazi devono venire fuori per forza, tanto più se l’avversario è uno in meno. Invece al Barça è sempre mancato il cambio di ritmo, l’ispirazione, la cattiveria,.

Così la partita si è ridotta, colpevolmente per i padroni di casa, a una mera sfida di individualità. E, rovesciando una frase proprio di Guardiola “En el fútbol, cuando 'muñeco' NO supera a 'muñeco', el equipo que ATACA está perdido”. Ibrahimovic ha perso contro Lucio e Samuel, Messi a parte un’azione delle sue nel primo tempo ha perso contro tutti quelli che l’hanno affrontato, il Barcelona ha perso contro l’Inter. Punto.
Niente diavolerie di Mourinho o storie simili stavolta, l’Inter ha fatto leva sullo spirito di sacrifico e la concentrazione nella propria area, e sulla qualità dei suoi interpreti difensivi, sui due difensori centrali che respingevano tutti i cross e tutti i passaggi filtranti come in un flipper, su Zanetti che non si faceva saltare nell’uno contro uno, su Cambiasso che anticipava le intenzioni avversarie.
Il Barça ha spesso giocato male collettivamente in questa stagione, e in più di un’occasione ha trovato Messi a salvarlo. Non si può rimproverare Leo per non aver recitato da Deus-ex-machina in queste due partite, capita, si può rimproverare invece un Ibrahimovic cadaverico. Se l’assedio del Barça ha avuto il sapore della camomilla, parte della responsabilità è anche dello svedese, esasperante quando per l’ennesima volta non accenna un tiro in porta e quando ogni volta che lo cercano i compagni l’alternativa si riduce al “fallo in attacco o anticipo del difensore avversario”.
Nel suo spezzone Bojan ci ha messo molto più veleno, fiutando l’occasione e arrivando prima sui palloni, anche se un po’ impreciso e un po’ sfortunato nelle conclusioni (colpo di testa a botta sicura su cross magnifico di Messi, a lato di poco; tiro in porta che sarebbe stato gol in una delle ultime azioni del match, se l’arbitro non avesse fischiato un fallo di mano parso inesistente a Yaya Touré). Giusto che parta lui titolare col Villarreal sabato (mezza Liga è in gioco, l’altra metà a Siviglia due giornate dopo), giusto investire sulla sua crescita e giusto anche archiviare con una solenne bocciatura l’affare Ibrahimovic.
Ci ha provato il solito immenso Piqué, trascinatore non solo nelle dichiarazioni pre-partita (accolte con scandalo dalla permalosetta stampa nostrana), a suonare la sveglia con un gol da urlo, ma la sostanza resta quella: la miglior squadra del mondo nell’occasione più importante ha tenuto accuratamente da parte le proprie virtù collettive.

FOTO: elpais.com

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venerdì, aprile 23, 2010

Buon Atlético, piccola ricompensa.

Un peccato, l’aveva in pugno questa semifinale l’Atlético. La pochezza del Liverpool, disarmante, invitava a qualcosa in più dell’1-0 finale, rendita troppo scarsa, e fra una settimana Anfield cambierà per forza l’immagine dei Reds, persino di questi Reds. El Kun es mucho Kun (rientrerà dalla squalifica), pero Anfield es muchísimo Anfield.
È parso addirittura timido l’Atlético nel non voler concretizzare fino in fondo una superiorità inaspettata ma netta durante i 90 minuti. Una superiorità costruita, udite udite, a centrocampo. Sì, proprio il reparto più problematico, l’eterna croce degli ultimi anni di ordinaria follia colchonera.

Tiago è ineleggibile per la Uefa, c’è Raúl García accanto a Paulo Assunção, ma le cose comunque girano nel mezzo: buona mobilità, buoni interscambi e buona circolazione di palla. Raúl García si defila leggermente sulla destra per offrire un appoggio facile ai difensori, e assieme a Jurado che fa da trait d’union con Forlán unica punta ma si abbassa sempre coi tempi giusti (Manolo non fa cose sconvolgenti sul piano strettamente individuale, però ti assicura controllo nel mezzo, e questo ha la sua importanza) offre un appoggio facile ai difensori centrali, Perea e Domínguez, altrimenti assai propensi a buttare il pallone a casaccio al minimo pressing avversario.

Il vero caudillo però è José Antonio Reyes, che ha assunto un peso sulla transizione offensiva dell’Atlético Madrid fuori dal normale: è lui la bussola, è lui che tiene palla, attira gli avversari, crea spazi e opportunità di avanzare per i compagni.
Non ci si deve infatti fermare alla resa individuale nel giudicare la partita di Reyes: se utilizziamo quest’ottica, in fondo il gitano ha dribblato sistematicamente l’avversario ma nei novanta minuti non ha mai concluso con cross o tiri in porta davvero significativi. Se però si guarda a come l’Atlético ha utilizzato quella fascia destra per dominare territorialmente e squilibrare il sistema difensivo del Liverpool, la partita di Reyes diventa semplicemente favolosa. Assorbe il possesso-palla e le attenzioni difensive avversarie, sostiene il baricentro della propria squadra nella metacampo avversaria e ne limita anche, in maniera indiretta ma consistente, le sofferenze difensive. Non è proprio Zidane, ok, ma è molto di più del Reyes solista che ci ha consegnato l’immagine convenzionale.
Fascia destra rafforzata dall’ennesima ottima prestazione di Ujfalusi, sottovalutato ma importante come pochi, con una profondità nell’accompagnare l’azione offensiva generalmente poco riconosciutagli, ma insostituibile nel contesto della rosa rojiblanca. La sfortuna di Ujfalusi è che servirebbe anche da centrale, ma non potendo sdoppiarsi deve lasciare che ad accompagnare Domínguez sia Perea, ogni intervento un brivido lungo la schiena. Va dato atto comunque al colombiano di essersi mantenuto su livelli decenti, soprattutto nella ripresa.

Insomma, è la capacità di gestire il pallone che assicura all’Atlético la superiorità e blinda il meritato vantaggio ottenuto da Forlán ad inizio partita, uno sgorbio, che però vale lo stesso sul tabellino. I colchoneros rimangono nella metacampo avversaria, e da lì mostrano una buona solidarietà nelle coperture e nel pressing. Quique a fine partita si vanterà dei zero calci d’angolo concessi al Liverpool, e a ragione, perché non è un dato casuale.
Dall’altra parte c’è invece una squadra che già recupera il pallone troppo basso per il citato effetto-Reyes, e che poi ci mette del suo con una circolazione di palla che è un vero pugno in un occhio. Mascherano non può andare oltre Mascherano, Lucas è una palla al piede (Aquilani in panchina per tutti i 90 minuti: perché?). Tutto il tempo all’Atlético per piazzarsi. L’unica possibilità di sorpresa nasce da qualche palla persa che coglie scoperto l’Atlético nella primissima transizione difensiva, con la possibilità di verticalizzare subito e lanciare Gerrard negli spazi (situazioni che generalmente mettono in un certo imbarazzo la difesa colchonera, che ha sempre qualche problema nei tempi d’uscita sul fuorigioco… e addirittura Abel Resino pretendeva di farne una tattica sistematica), ma è pochissima cosa. Stevie deve andare a cercarsi il pallone e inventarsi la vita, addirittura con un tentativo da metacampo nella ripresa che ne sottolinea tutta l’impotenza. Poi non c’è nemmeno Torres per allungare la difesa avversaria e guadagnare metri, ma un corpo trasparente che gli scienziati chiamano Ngog, e insomma se in assenza del Niño preferisci lui a Babel poi non ti puoi nemmeno lamentare…

L’Atlético ha pure accresciuto il controllo del match nel secondo tempo, con un paio di buone occasioni, però ha dato sempre la sensazione che gli mancasse quell’ulteriore passo che lo portasse a comprendere appieno che la bestia non era così feroce come la dipingevano, e che fosse proprio il caso di darle il colpo di grazia. Anche Quique dalla panchina, con l’incomprensibile ingresso di Valera al posto di Simão, ha dato nel finale un segnale in questo senso, un segnale conformista che lascia un po’ di amaro in bocca.

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mercoledì, aprile 21, 2010

Presi in contropiede.

Chi ancora crede che gli allenatori non contino nulla, o chi continua a ritenere José Mourinho semplicemente un “grande comunicatore” (il modo più gentile per dargli del clown), provi a immaginare un’Inter esattamente uguale a quella di ieri sera e a quella di Stamford Bridge, ma con in panchina Roberto Mancini. Provi a immaginarla e poi scoppi in una risata fragorosa e incontenibile. Il Maradona degli allenatori ha trasformato un club perdente e dalla mentalità perdente (questo era diventato l’Inter) in una delle Grandi d’Europa. Dopo Ancelotti impassibile a bordocampo col sopracciglio alzato, schianta anche Guardiola, che subisce la prima vera batosta di una carriera da allenatore finora sempre prodigiosamente in discesa.
Il Barça è una squadra talmente abituata a pensare alle proprie partite indipendentemente dall’avversario, sulla base di un complesso di superiorità non tracotante ma pienamente giustificato dai fatti oltre che dalla propria filosofia di gioco (che impone di giocare sempre allo stesso modo, perché se fai tutte le cose per bene domini e vinci, e non importa chi hai di fronte), che di fronte a una sconfitta, soprattutto una come questa (Guardiola non aveva mai perso con due gol di scarto), la prima reazione è sempre interrogarsi su dove ha sbagliato il Barça. Stavolta però credo sia il caso di sottolineare la prestazione di un avversario che ha superato nettamente se stesso oltre che un Barça che non ha certo sfoderato la sua migliore versione ma non ha nemmeno giocato peggio del Clásico (anzi, direi che ha giocato meglio) o di tante altre gare vinte in relativa scioltezza quest’anno.

Il pregio fondamentale dell’Inter di ieri è stato la chiarezza e l’essenzialità della sua proposta. Di tenere il pallone non ce ne importa proprio nulla: senza timore del naso arricciato degli esteti, i nerazzurri l’azione la iniziano sparacchiando avanti, sic et simpliciter. Meglio non provocare il pressing del Barça, meglio non svegliare il can che dorme, meglio costringere il Barça a un gioco discontinuo, andando a contendergli subito le seconde palle sulle respinte della difesa. Meglio far transitare in maniera immediata, senza fronzoli e senza alcun rischio, il pallone nella trequarti difensiva avversaria, e da lì adattarsi alla successiva fase di possesso blaugrana per forzarne la perdita di palloni nelle zone più pericolose. Mourinho assume intelligentemente l’inferiorità della propria squadra, e lascia perciò che a provare a fare la partita sia l’avversario, per poi reagire colpo su colpo. Anche se l’assetto tattico e i ritmi di gioco sono ovviamente diversissimi, nello spirito, incarna la miglior tradizione del calcio all’italiana.
Pressing alto nerazzurro, ma non altissimo: la situazione preferita dell’Inter richiede che i difensori del Barça qualche passetto avanti col pallone lo facciano, in modo da alzare la linea, soprattutto la posizione di Alves, in maniera sufficiente perché la velocità di Eto’o e Milito possa poi fare la differenza negli spazi. Quindi gli attaccanti iniziano a infastidire, ma poi all’altezza del cerchio di centrocampo sono soprattutto i mediani (sempre ben scortati dalla difesa, molto vicina e pronta ad accorciare e togliere spazi fra le linee) a spezzare e rilanciare, con Motta e Cambiasso in grande evidenza. Eto’o in ottime condizioni atletiche rientra e riparte tagliando spesso da destra verso il centro, mentre Milito come uomo più avanzato, sul filo del fuorigioco, fra i due centrali e spesso andando a cercare la diagonale negli spazi alle spalle di Alves, rappresenta un’inenarrabile rottura di palle per la difesa blaugrana durante tutta la serata. Difesa blaugrana che, peraltro, in più di un’occasione dimostra un notevole talento nell’applicare il fuorigioco, nonostante una situazione così svantaggiosa, con l’avversario che ruba e verticalizza a palla scoperta.
Avevamo detto Inter che sparacchia lungo quando inizia l’azione dal fondo, e guardacaso proprio nell’unica occasione in cui Lucio si fa tentare dal disimpegno un po’ più leggero, il Barça riconquista palla e costruisce il gol di Pedrito (Maicon e Cambiasso un po’ imbambolati sulla percussione di Maxwell), al solito inappuntabile. Ingigantisce i meriti dell’Inter la veemenza della reazione (soprattutto a inizio ripresa), che ha portato alla rimonta contro la squadra “irrimontabile” per eccellenza, quella che ti nasconde il pallone e gioca sul tuo nervosismo e la tua frustrazione.

Barça che ha trovato quindi difficoltà nella fase in cui si apriva e si distendeva ad inizio azione, la fase più delicata (sofferenze analoghe evidenziò la sconfitta in casa dell’Atlético, in quel caso però con più demeriti blaugrana e molto meno splendore avversario). A questo si è aggiunta la serata sottotono delle individualità che potevano sbilanciare il match, su tutte Alves e un Messi dallo spunto un po’ annacquato. Senza punti d’appoggio stabili anche Xavi è naufragato, mentre davanti ha pesato l’incertezza sul centravanti. Non la situazione ideale: Henry tagliato fuori da una brutta stagione, Bojan dalla poca affidabilità in gare di questo livello (aggravata dallo scarsissimo utilizzo che ne fa Guardiola, che lo tratta come un peluche da Copa del Rey), Ibrahimovic appena rientrato dall’infortunio.
Un peccato che Zlatan sia stato bloccato da questo contrattempo proprio subito dopo la gara che lo aveva… sbloccato, all’Emirates. Lo svedese ha anche giocato discretamente in appoggio spalle alla porta, ma sempre costretto troppo lontano dall’area interista, senza mai farsi sentire in fase conclusiva. Ha sorpreso il cambio di Guardiola, che subito dopo il 3-1 interista (viziato da un fuorigioco di Milito) ha tolto proprio Ibra per inserire Abidal e alzare la posizione di Maxwell, tornando al 4-3-3 dal 4-2-3-1 iniziale.
Non è andato malissimo il cambio, perché (con Messi falso centravanti per mantenere superiorità nelle opzioni di passaggio fra centrocampo e trequarti) ha comunque contribuito ad avvolgere l’Inter negli ultimi 20 minuti, i migliori del Barça, dominati nettamente. Lo abbiamo più volte rimarcato, anche se fare più possesso-palla di per sé non conta niente (è importante la qualità, non la quantità), è anche vero che correre dietro al pallone, stare sempre concentrato su come lo muove l’avversario, tende a esaurire le energie, mentali prima ancora che fisiche, più rapidamente. È fisiologico perciò che gli avversari del Barça concludano sempre le partite cedendo metri e collassando nella propria metacampo, tanto più quando Diego Milito, la principale minaccia alle spalle della difesa blaugrana, è costretto a uscire per i crampi.
In questa fase il Barça, trascinato da un Piqué sempre più “Piquénbauer” (vero che sbaglia un gol e che in un paio di occasioni ostacola compagni meglio smarcati, ma è difficile trovare in giro difensori più dominanti in transizione offensiva… al punto di rubare la scena a Messi e Xavi!) staziona costantemente nell’area interista, reclama a ragione un rigore su Alves e manca di poco il gol.
Forse, non ne abbiamo la controprova, proprio nel momento in cui l’Inter difendeva così basso la capacità di Ibrahimovic di trattenere palla sarebbe servita di più rispetto ai minuti precedenti. La scelta che farei per il ritorno sarebbe proprio quella di riservare Ibra per le fasi, a ripresa inoltrata, in cui l’Inter abbasserà inevitabilmente il baricentro, mentre dall’inizio partirei con giocatori più aggressivi e verticali (utili anche per allungare la difesa avversaria e “pulire” quindi la trequarti per le percussioni di Messi), tipo Henry in attacco, sempre che sia presentabile, e Abidal al posto di Maxwell, perché l’Inter andrà spaventata anche sul piano del ritmo e della fisicità, soprattutto nei primi minuti, come impone la rimonta.

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lunedì, aprile 19, 2010

Il Madrid recupera buone sensazioni.

Avevamo parlato dopo l’eliminazione dalla Champions dell’importanza degli stati d’animo, della loro capacità di incidere anche sulle prestazioni tecniche e tattiche a livello collettivo. Aver perso l’obiettivo principe di una stagione che secondo la propaganda estiva avrebbe dovuto essere necessariamente trionfante comportava anche la perdita della voglia di continuare a progredire sul piano del gioco, quasi una semplice Liga non giustificasse uno sforzo simile. Dopo Lione, e fino ad Almería, con il picco del Clásico, avevamo visto proprio questo: un Real Madrid depresso e regredito a livello collettivo. Un ottimo Espanyol, che ha imposto il pari al Barça, ha però subito annullato quello svantaggio nel morale che dopo il Clásico sembrava praticamente definitivo. Non ha annullato lo svantaggio di classifica, ora –1, ma ha restituito perlomeno al Madrid la fiducia nel proprio modello di gioco, immaturo ma a tratti molto brillante, come è tornata a dimostrare la netta e convincente vittoria di ieri sera contro il Valencia.

Il Real Madrid quindi sfodera di nuovo il suo calcio migliore: circolazione di palla vertiginosa, nessuna posizione fissa dalla trequarti in su e inserimento senza palla del “terzo uomo” nello spazio che questo rimescolamento continuo di posizioni apre nella difesa avversaria.
È dal lato destro che i merengues costruiscono in partenza la loro netta superiorità; con l’assenza di Kaká Pellegrini ha messo da parte il rombo per proporre un 4-4-2 con gli esterni falsi come quello del suo Villarreal: Van der Vaart a sinistra e Guti a destra, confermato l’assetto di Almería con Gago nel doble pivote con Xabi Alonso.
Ed è Guti, abilmente collocatosi in una posizione ambigua fra la fascia e il cuore della trequarti, ad aprire i varchi più interessanti, in collaborazione con Cristiano Ronaldo e Arbeloa (Sergio Ramos centrale). Cristiano si sposta spesso largo da quella parte perché forse fiuta il sangue di Jordi Alba (terzino non di ruolo, con delle sporadiche ingenuità megagalattiche a sottolinearlo), fatto sta che così sostiene un bel triangolo, continuo e propositivo, del quale Arbeloa può approfittare per sovrapporsi coi tempi giusti, senza scomode responsabilità palla al piede. Triangolo che sbilancia da quel lato il sistema difensivo del Valencia, aprendo così la possibilità del cambio di gioco repentino verso l’altra fascia. Qui si incarica Xabi Alonso di far andare la macchina a pieni giri, con le sue aperture a occhi chiusi di prammatica (attorno a lui un Gago mai d’intralcio nel costante movimento d’appoggio), liberando largo un brillantissimo Marcelo, che ha un dribbling secco che pochi terzini possono vantare, oppure pescando fra le linee Van der Vaart, che così come Guti ha la possibilità di inserirsi a sorpresa a ridosso dell’area di rigore. Un Guti Guti che cambia spesso la zona di competenza, con la massima libertà, più coinvolto nell’elaborazione della manovra rispetto a un Van der Vaart più limitato agli inserimenti, ma le linee-guida generali restano sempre quelle: combinazioni da un lato-->sovrapposizione terzo uomo sulla stessa fascia/passaggio verticale fra le linee/cambio di gioco--->sorpresa dal lato opposto-->pase de la muerte (dal fondo all’indietro verso il centro o il limite dell’area di rigore)-->inserimento a rimorchio-->tiro in porta diretto/passaggio filtrante.

Schiacciato tutto dietro, con la linea di centrocampo che sprofonda su quella di difesa, il Valencia vede soffocare sul nascere anche la propria transizione offensiva: recuperando palla così vicino alla propria porta e in situazioni così scomode (e cioè col portatore di palla che ogni volta perde necessariamente qualche attimo per girarsi e cercare un’opzione decente quando la propria squadra deve ancora ricomporsi e riprendere le posizioni; o che senza tanti complimenti la butta via), per il Madrid è un gioco da ragazzi accennare il pressing e iniziare subito una nuova azione offensiva. Così non è strano vedere anche Guti recuperare parecchi palloni, a conferma che il recupero della sfera è frutto di un lavoro di squadra, e non di un qualche fantomatico “rubapalloni” (di per sé saper rubare palla non giustifica l’attribuzione della qualifica di calciatore). A questo discorso poi si aggiunge poi la scarsa lucidità del Valencia, che frutta fequenti errori di misura nei disimpegni, come quello che avvia il gol del vantaggio di Higuaín (palla rubata e passaggio proprio di Guti).

Il Valencia è una grossa delusione. Anzi, in realtà no, purtroppo già partite come quella di Siviglia o come la stessa andata col Madrid avevano denunciato la persistente inadeguatezza della squadra di Emery di fronte a certi impegni. Già condizionato dalle carenze difensive (pioggia di assenze che peraltro vanno a colpire il reparto nettamente più debole dell’ organico: ieri dal sorteggio pre-partita è uscita come coppia di centrali Maduro-Alexis, e non hanno neanche sfigurato), mostra scarsissima personalità anche nei momenti in cui potrebbe controbattere con la sua fase di possesso, cui pure non mancherebbero gli argomenti.
Banega conferma che gli manca ancora quell’ultimo salto di qualità per passare da grande giocatore a giocatore dominante, ci sono un’infinità di errori nei passaggi, una lentezza e una banalità a tratti esasperante nella manovra valenciana, quasi come se giocatori come Villa e Silva volessero farsi più piccoli di quello che sono (quelle che giocano Mata, Pablo H. invece sono partitacce senza mezzi termini). Comunque Silva nella ripresa colpisce l’incrocio dei pali con una bordata terrificante, e si era ancora sull’1-0: nota dolente per il Real Madrid, calato nel secondo tempo come troppe volte in questa stagione, incallitosi ormai in questo vizio. Fai scorpacciata di palle-gol, potresti avere già due o tre gol di vantaggio nel primo tempo e poi invece rischi la beffa. Qualche volta ti costa pure una Champions.

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sabato, aprile 17, 2010

Fidatevi di Pochettino.


No, decisamente l’Espanyol 2009-2010 non si è rivelato una squadra capace di ergersi sopra la mediocrità diffusa della Liga, chiariamolo subito. Però c’è mediocrità e mediocrità: ci sono squadre grigie e sempre uguali a loro stesse, ci sono squadre del tutto inguardabili, e ci sono squadre che nella mediocrità trovano un temporaneo parcheggio, più per immaturità che per mancanza di idee. Nell’Espanyol di Mauricio Pochettino c’è un’idea di gioco chiara e ci sono giocatori non solo validi ma di prospettiva, solo che l’idea attende ancora una traduzione in un discorso più coerente e solido. E cioè maggiore continuità e maggiore personalità, anche nel passaggio fra casa e trasferta (dove i periquitos hanno speso più di una partita fra il banale, il conformista e l’irritante).

Ha passato fasi delicate quest’Espanyol, extrasportive (la morte di Dani Jarque) e sportive (una flessione accentuata nei risultati e nel gioco fra novembre e dicembre del 2009), ma Pochettino ha resistito, e per fortuna non son state spazzate via le basi di un lavoro che già in pretemporada sembrava promettente (splendido 3-0 nell’amichevole col Liverpool, inaugurazione del nuovo stadio di Cornellá-El Prat e purtroppo ultima partita di Jarque). Il tecnico argentino si è fatto forte del credito derivatogli dalla lunga apprezzata militanza nel club come giocatore e ancora di più della miracolosa salvezza ottenuta la stagione passata. I risultati restano tuttora alterni, ma il peggio pare passato e sembrano esserci i margini per un progetto a medio-lungo termine, pur entro i limiti delle ristrettezze economiche del club.
Dopo le disastrose gestioni di Tintín Márquez e di Mané, pochi vedevano l’Espanyol capace di risollevarsi a metà della scorsa stagione, e l’inesperienza di Pochettino come tecnico rappresentava un’ulteriore incognita. L’argentino però ha promosso un cambio di rotta netto, evidente nell’atteggiamento oltre che nei risultati: un Espanyol più corto e aggressivo nel pressing e molto più scomodo per gli avversari.

Quest’anno, Pochettino ha cercato di aumentare la complessità del modello di gioco, non più solo reattivo (il pressing alto a palla persa, la ricerca dell’intensità, rimangono comunque una caratteristica dominante, anche se una volta superato questo primo pressing la coordinazione non è sempre impeccabile, talvolta chi si stacca per andare a pressare perde le distanze dai compagni di reparto e così si creano buchi ancora più profittevoli per l’avversario quando si sceglie di difendere alto) ma anche propositivo. L’Espanyol non rifiuta il peso di fare la partita, e cerca sin dalle prime fasi una manovra che contemperi la massima ampiezza con combinazioni fitte e pochi punti di riferimento dalla trequarti in su.
Cominciano l’azione i due difensori, che partono larghi, e un centrocampista (generalmente quello con maggiori doti di regia, Verdù o Javi Márquez) che retrocede per offrire l’appoggio, i quali hanno a disposizione due opzioni principali: la prima è il cambio di gioco, la seconda il passaggio interno. La prima opzione, molto ricercata, vede il lancio in diagonale (Pareja fra i difensori e Javi Márquez fra i centrocampisti i più dotati nel fondamentale) verso l’esterno di centrocampo del lato opposto, che si offre per allargare il gioco; la seconda opzione invece la presentiamo come alternativa per comodità di esposizione, ma in realtà è complementare: cioè, una volta che allarghi il sistema difensivo avversario (un cambio di gioco ben effettuato ruba all’avversario quegli attimi preziosi per scivolare da un lato all’altro e coprire adeguatamente la zona del pallone), approfitti anche degli spazi che si creano al centro.
Tali spazi Pochettino intende sfruttarli con quattro giocatori fortemente coinvolti nella fase conclusiva: la cosa più interessante è infatti l’uso degli esterni di centrocampo, che diventano attaccanti aggiunti. In questa fase l’Espanyol lascia ai terzini il compito di garantire l’ampiezza: questi alzano molto la loro posizione (Chica a destra e David García/Dídac a sinistra accompagnano con frequenza l’azione offensiva, il problema però è che si limitano al cross dalla trequarti), per consentire alla squadra di guadagnare alternative in zona centrale. I due esterni per l’appunto, che possono tagliare verso il centro o per triangolare col Verdù-Javi Márquez di turno oppure per andare direttamente alla conclusione. Gli esterni poi incrociano spessissimo per accompagnare l’unica punta nei movimenti alle spalle della difesa avversaria (quando questa è alta e l’Espanyol cerca subito il lancio in profondità) oppure per attaccare il secondo palo sui cross dalla fascia opposta. Molti cambi di posizione poi che portano sovente l’esterno di una fascia a cercare la superiorità numerica assieme al compagno della fascia opposta, nell’intento di offrire meno punti di riferimento possibili. L’intento non sempre trova la migliore concretizzazione (per imprecisioni, mancanza di mordente, giocate approssimative e una certa maniera eccessivamente ansiosa di attaccare che più di una volta ha manifestato la squadra), però non si può dire che non ci sia dietro un lavoro serio: non si trovano in giro tanti allenatori interessati ad organizzare la fase offensiva (molti pensano non sia necessario, che si debba sistemare quella di non possesso, e poi lasciare in avanti libertà di seguire l’ispirazione), e in quest’aspetto è probabile che Pochettino raccolga l’eredità del “Loco” Bielsa, suo allenatore nel Newell’s Old Boys di inizio anni ’90.

Altri giocatori. Portieri: Cristian Álvarez, Javi Ruiz. Difensori: Pillud (terzino destro), Roncaglia (centrale/terzino destro). Centrocampisti: De la Peña (trequartista/centrocampista centrale), Corominas (esterno/seconda punta). Attaccanti: Iván Alonso, Ben Sahar, Tamudo.

È certo curioso che uno degli aspetti più interessanti del gioco di Pochettino riguardi un reparto come l’attacco che rappresenta il più debole di tutta la Primera, con il bilancio a dir poco ridicolo di 26 gol all’attivo finora. Bilancio che risente senza ombra di dubbio di un certo sconvolgimento riguardante gli effettivi che lo compongono. Sconvolgimento che implica addii dolorosi: quello annunciato di Tamudo alla sua squadra di sempre e quello sempre più vicino di De la Peña al calcio giocato. Brutto lasciarsi così: vero che Tamudo ultimamente aveva perso il graffio, quel decimo di secondo che in area fa la differenza, però si pensava a un congedo ben più sereno rispetto alla rottura netta col club (sul tema dell’eventuale rinnovo contrattuale) verificatasi nei primi mesi di questa stagione, rottura che lo ha portato fuori rosa. Più malinconica la situazione di De la Peña, perso in una spirale di infortuni dalla quale a quasi 34 anni sembra ormai difficile trovare l’uscita. Quattro partite tutte da subentrato per “Lo Pelat”, solo 159 minuti, 5 presenze e zero gol per Tamudo. Del “Triangle Magic” dello splendido Espanyol 2006-2007 vicecampione di Uefa rimane in piedi solo Luis García.
Altro contrattempo difficile da mettere in conto in estate era il flop gigantesco di Shunsuke Nakamura. Il giapponese, sensibilità calcistica sulla carta molto adatta alla Liga, non si è minimamente adattato alla Catalogna, non si è inserito nello spogliatoio e presto si è rivelato anche poco utile sul campo, vanificando anche tutto il possibile ritorno in termini di immagine e di seguito che l’Espanyol cercava nel Sol Levante. Provato senza successo da falso esterno a destra (simil-Celtic) o a sinistra, mancino raffinatissimo ma mobilità da Sfinge, 13 partite (6 da titolare) senza alcuna gloria e ritorno in patria agli Yokohama Marinos.

Così il popolo espanyolista ha dovuto penare per inventarsi dei nuovi eroi. Molto di moda ora Osvaldo, in prestito da gennaio dal Bologna, e al centro di un caso che riempie un giorno sì e l’altro pure le pagine dei giornali. L’Espanyol vuole estendere il prestito al prossimo anno, il giocatore sostiene questo tentativo non risparmiando dichiarazioni forti (“Se torno a Bologna, lascio il calcio”, “Là in Italia a parte due-tre squadre nessuno gioca a calcio”). Fatto sta che il matrimonio ha fatto comodo ad entrambe le parti: rilancia Osvaldo, che in tutta sincerità non ritenevo il bomber necessario all’Espanyol (me lo ricordavo dall’Under 21 come una punta discreta, ma di movimento più che altro), e mitiga quella mancanza di mordente dell’Espanyol di cui parlavo prima. Sei gol in quattordici partite, nella squadra meno prolifica del campionato, evidenziano un’ inversione di tendenza.
Osvaldo offre un po’ più di peso e di presenza all’attacco, senza per questo vanificare quel gioco offensivo agile e con pochi punti di riferimento che predilige Pochettino. Osvaldo attacca lo spazio, svaria e triangola ma va anche a sgomitare e staccare nell’area avversaria, con quel po’ di concretezza in più rispetto ai colleghi di reparto. Potente e con buone doti tecniche, Osvaldo dà profondità ma non è molto portato al gioco spalle alla porta, il che gli impedisce di fare reparto come dovrebbe in quelle partite in cui l’Espanyol fatica a salire e supportare l’azione offensiva a pieno organico.
Osvaldo ha preso il posto di Tamudo che inizialmente sembrava tagliato su misura per José Callejón, che l’ormai ammainata bandiera espanyolista la ricorda per la rapidità, l’istinto, la capacità di muoversi fra i centrali, sul filo del fuorigioco. Il 23enne ex canterano madridista (che, a scanso di equivoci, di Tamudo non ha certo il gol, solo 2 centri finora in 30 partite) si è però riciclato emergendo nel ruolo di esterno, già sperimentato la scorsa stagione. Più a sinistra che a destra, comunque Callejón (destro naturale) incide abbastanza. Non ha doti tecniche meravigliose, però è aggressivo, verticale, punta sempre l’uomo (e gli va bene perché ha il baricentro basso e sul breve è rapido), incrocia, tira, crossa, partecipa tantissimo, aiuta in ripiegamento, è sempre attivo e si fa apprezzare.
A destra invece nelle ultime giornate pare essersi conquistato un posto (ma stasera nel derby non ci sarà), e finalmente un po’ di stabilità (speriamo) in una carriera tormentata, Fernando Marqués. A ciascuno il suo Cassano: classe ’84, non ancora ventenne Marqués era segnalato come uno dei talenti più brillanti del calcio spagnolo quando il Rayo Vallecano lo promosse dalla cantera. Poi un bel po’ di anni buttati via fra indisciplina e mattane, tiramolla fra Racing e Atlético Madrid B, un contratto rescisso prematuramente col Castellón (ne parlammo qui) e poi… e poi Marqués ha chinato il capo, si è rimboccato le maniche ed è ripartito dall’Iraklis in Grecia, fino alla firma con l’Espanyol l’estate scorsa, avvenuta negli ultimi giorni di mercato dopo un breve periodo di prova che ha convinto Pochettino. Marqués del quartetto offensivo è l’elemento più estroso, che riconosci subito dopo un paio di giocate per i cambi di direzione palla al piede, i doppi passi, gli elastici, il gusto dell’uno contro uno. A dire il vero visto finora ha un po’ controllato la sua voglia di uscire dagli schemi: il rendimento è complessivamente apprezzabile, qualche partita l’ha anche accesa, ma forse la sua priorità è più quella di rendersi credibile semplicemente come giocatore su cui puoi contare per tutti i 90 minuti tutte le domeniche. È probabile che con la fiducia consolidata e senza infortuni o altri contrattempi, la sua incisività possa crescere di pari passo con il nostro divertimento.
Chiude il quartetto il classico Luis García, sempre importante ma piuttosto lontano dai livelli che lo avevano portato fra il 2006 e il 2007 nel giro della nazionale. Due gol in trentuno partite sono una miseria per uno come lui, anche se va detto che Pochettino l’ha lungamente sacrificato in una posizione di esterno alquanto scomoda. Scomoda non tanto per il fatto di partire esterno, perché come abbiamo visto nell’Espanyol questi sono coinvolti anche nella fase conclusiva, ma perché la scelta di farlo partire prevalentemente da destra toglieva angolo al miglior tiratore fra tutti gli attaccanti. Ora però gioca centrale, subito dietro la prima punta, quella che è sempre stata la sua posizione preferita.
Abbastanza definito il quartetto di base, trovano molto meno spazio Coro (19 presenze, solo 10 da titolare, 1 gol), mitico talismano della salvezza 2005-2006, e Ben Sahar, ancora tarda l’esplosione dell’israeliano (anche lui 19 presenze e 1 gol, ma solo 4 gare dall’inizio). Più rilevante invece il contributo del 31enne uruguaiano Iván Alonso, veterano dei campi spagnoli: 5 gol in 29 partite, poco talento ma abbastanza mestiere (e un notevole stacco aereo), duttilità e spirito di sacrificio per giocare indifferentemente davanti o sulla trequarti, con un significativo apporto in fase di non possesso, col pressing e i ripiegamenti in aiuto al centrocampo.

Detto di chi si occupa di accelerare e finalizzare l’azione offensiva, non bisogna dimenticarsi di chi ne pone le premesse: Joan Verdú è un giocatore importante, non un fuoriclasse ma una mezzala classica dal notevole senso della manovra (affinato nella cantera del Barça: il marchio si nota). Il collante della squadra in fase di possesso, aiuta i difensori e il centrocampista più basso a “pulire” i primi passaggi, rifinisce sulla trequarti, collega i reparti, con ampia libertà di svariare si trova sempre al centro di tutte le triangolazioni e tocca più palloni di tutti, nettamente.
Ha contestato questa centralità di Verdù un giocatore non particolarmente attuale perché purtroppo infortunato fino a fine campionato, ma che merita una sacrosanta citazione, ovvero Javi Márquez. Si tratta senza dubbio della più bella novità della stagione espanyolista. Qualcuno è arrivato ad elaborare il paradosso della bontà di questo suo infortunio, perché utile ad occultare almeno per un po’ un talento che stava già attirando le attenzioni degli avvoltoi di media-alta classifica, magari disposti a sottrarlo subito la prossima estate senza dare tempo all’Espanyol di gustarselo e valorizzarlo in una stagione completa. Javi Márquez è un prodotto relativamente tardivo (si è affacciato in prima squadra a 23 anni compiuti) di una cantera che non sarà quella del Barça ma che resta comunque una delle migliori di Spagna (oltre a Javi sono stabili in prima squadra da quest’anno il ventenne terzino sinistro Dídac Vilà e l’interessante difensore centrale Víctor Ruiz, 21 anni). Nelle 15 scarse partite disputate (e solo 9 da titolare) è risaltata immediatamente la naturalezza e la faccia tosta in mezzo al campo. Centrocampista spagnolo e spagnoleggiante, di quelli buoni che piacciono a noi. Testa alta, sinistro millimetrico nelle aperture e la capacità che non tutti possiedono di fermarsi, rallentare, scegliere e gestire “la pausa” per poi cambiare senso e ritmo al gioco con grande criterio. Senza paura nel portare palla e ripartire vincitore dal pressing avversario, può essere impiegato anche sulla trequarti, ma lui preferisce partire dal doble pivote, perché non essendo rapidissimo ha più tempo e metri per arrivare a fari spenti e caricare la bordata dalla lunga distanza, il pezzo forte del suo repertorio. Insomma, non vediamo l’ora che inizi la prossima stagione per verificare se questo ragazzo conferma queste prime sensazioni tanto positive.
Con l’infortunio di Javi Márquez Verdù è tornato ad alternarsi fra la trequarti e il doble pivote, e in questi possibili impieghi risiede lo spartiacque fra le diverse versioni dell’Espanyol. Con Verdù in cabina di regia si accentua il carattere manovriero della squadra, che passa spesso e volentieri a un 4-1-4-1; in caso contrario, accanto all’inamovibile Moisés Hurtado (tanto invisibile quanto prezioso col suo senso tattico) Pochettino colloca un altro centrocampista difensivo come Raúl Baena (21enne andaluso, altro promosso dalla cantera, anzi il più utilizzato di tutti con 18 presenze, 10 delle quali dall’inizio) oppure avanza uno dei due difensori centrali argentini ex Boca (più spesso Forlín, ma nell’ultima trasferta a Santander anche Roncaglia), non tanto per un attacco di “JavierClementismo”, ma per la scarsa disponibilità di centrocampisti difensivi di ruolo in organico. Con queste soluzioni l’Espanyol inevitabilmente dipende più dalla palla rubata, dalla ripartenza rapida e dal contropiede manovrato, come quasi certamente avverrà stasera col Barça, perché il pallone è uno solo e ti devi saper adattare.

Dovrà funzionare come un orologio in questo derby tutto il sistema difensivo, che oltre a Moisés ha come pilastri Nico Pareja e Kameni fra i pali. Pareja è indiscutibile al centro della difesa (al suo fianco si alternano prevalentemente Víctor Ruiz e Forlín), per la personalità, l’ottimo tempismo nell’anticipo, la rapidità delle chiusure e la capacità di rilanciare il gioco (e anche una discreta familiarità coi calci di punizione). Possibile che in estate parta per qualche piazza più ricca e ambiziosa. Su Kameni invece devo cospargermi il capo di cenere: portiere che ho sempre sopportato a malapena per le sue interpretazioni strampalate, ma che sta aggiungendo una sobrietà determinante per completare assieme alle straordinarie risorse atletiche il ritratto di un ottimo portiere.

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mercoledì, aprile 14, 2010

Aspiranti nazionali blaugrana.

“Ottimo, ha la palla Xavi, sono in una botte di ferro… qualunque movimento faccia lui lo saprà leggere… anzi probabilmente mentre io qui mi arrovello a decidere dove andare lui lo sa già, prima di me… … qui vicino ho Arbeloa, e lo vedo sudare freddo… ti credo, i suoi centrocampisti si sono staccati per andare a pressare Xavi, ma è troppo tardi perché quello ha già il passaggio in canna… posso liberarmi nello spazio fra il loro centrocampo e la difesa o posso tentare la profondità, chè superata questa linea da qui a Casillas c’è una prateria… l’importante è mentire fino all’ultimo, come faceva Soldado in quel post… vado in verticale, anzi no… vengo incontro a Xavi, anzi no… ecco che Arbeloa vacilla… vado profondo… ora!.. Sì! Sì! Sì! Arbeloa è tagliato fuori, e ho pure controllato alla grande, sono già in porta… questa è la parte che preferisco… Casillas a tu per tu con me, con il palo lungo scoperto, in fondo non è tanto differente da un portiere di Tercera a tu per tu con me con il palo lungo scoperto… eh sì, questo è gol, è deciso.”

Con quest’esclusiva direttamente dal cervello di Pedrito celebriamo una delle perle della penultima giornata di Liga. Chi non ci ha fatto troppo caso in diretta lo riveda meglio, chi invece lo ha già apprezzato può ulteriormente gustarselo. Non avrà la genialità delle improvvisazioni di Messi, ma il 2-0 di Pedrito al Benabeu è un movimento da manuale che per la sua brillante reinterpretazione si eleva quasi ad arte. I movimenti inversi senza palla, il taglio deciso, il controllo a seguire, la finalizzazione glaciale. A parte la finalizzazione, nella quale Pedro è decisamente superiore, e a parte le caratteristiche generali diverse (più ala-tornante Pedro), a chi segue il Barça abitualmente questo movimento ha ricordato l’affilatissimo Giuly dell’era-Rijkaard.
L’ennesima dimostrazione di maturità ai massimi livelli per un giocatore che fino a un paio di stagioni fa deambulava senza troppe speranze per i campi della Tercera División (la nostra Serie D), altro che Bernabeu. Non solo: era pronto per essere ceduto in prestito al Portuense (Segunda B, preludio quasi sicuro dell’oblio) dal Barça, che riteneva pressochè concluso il suo percorso nelle giovanili blaugrana. Sebbene l’esordio con la prima squadra sia avvenuto nell’ultima stagione di Rijkaard, Pedro ha però trovato l’ancora di salvezza in Guardiola.
Una volta contrattato alla guida del Barcelona B (promosso dalla Tercera alla Segunda B nell’unica stagione di gavetta di Pep), verificando i giocatori a propria disposizione, Guardiola ricevette informazioni poco incoraggianti su Pedrito, descritto in un dossier interno come un giocatore che “si allena meglio di quanto competa poi in partita”. Guardiola ha comunque tirato dritto e vinto la scommessa, ed è logico perciò che ora si inorgoglisca particolarmente quando parla di Pedro, il cui successo è certamente un motivo di vanto superiore rispetto alle prodezze lapalissiane di Messi. Dalla conferenza stampa del Bernabeu: “Dobbiamo cominciare a parlare in maniera molto seria di questo giocatore. Per noi è vitale, fondamentale. È già uno dei grandi della squadra, supera sempre tutte le aspettative. Pedro è l’esempio.”

E allora sì, parliamone in maniera seria, soprattutto ora che si vocifera in maniera sempre più insistente di una sua possibile convocazione in nazionale.
Non sono retorica gli elogi all’umiltà di questo giocatore. Umilta e al tempo stesso personalità, questa la chiave. Pedro ha l’umiltà per sapersi adattare ad ogni situazione, per sacrificarsi e anche per continuare a imparare e migliorare. Però se ad ogni azione ti fai piccolo piccolo, se non osi, al Barça non vai mica avanti. Pedro talvolta si ingarbuglia col pallone fra i piedi, abbocca alle sue stesse biclette impazzite e si dribbla quasi da solo, però non cessa mai di tentare, di puntare l’uomo quando si presenta l’occasione, contando sul suo gioco ambidestro (due lati su cui fintare e scartare, maggiore imprevedibilità) e una notevole rapidità nel gioco di gambe sul breve. Altra qualità che spicca è la freddezza davanti al portiere, esibita non solo sabato scorso, e il senso del gol negli inserimenti in area. E dire che il suo ex allenatore nel Juvenil e nel Barça C, Juan Carlos Pérez “Rojo”, ricorda come l’imprecisione sottorete fosse proprio uno dei punti deboli del Pedrito più giovane. Ulteriore conferma dell’umiltà e della voglia di migliorare di questo giocatore, passato nel giro di pochi mesi da canterano nel giro della prima squadra, a pseudo-mascotte, poi a rincalzo pronto all’uso e infine a semi-intoccabile.
Molto preziosa è la sua funzionalità tattica, l’adesione totale all’idea di gioco del club, la stessa che ha facilitato nella passata stagione l’inserimento di Busquets. Pedro conosce a menadito i movimenti richiesti all’ala nel tridente culè, quando restare largo per offrire il riferimento facile in fase di possesso e aprire spazi al centro, quando tagliare dentro per lasciare strada alle sovrapposizioni o per andare a concludere, quando venire incontro e quando invece attaccare lo spazio. Inoltre offre dedizione nel pressing e una disponibilità e una capacità aerobica notevoli nei ripiegamenti, cosa che facilita anche adattamenti tattici come il recente 4-2-3-1/4-2-4 proposto da Guardiola.
Il merito del modello blaugrana risiede proprio in questo: non tanto nel produrre dalla cantera giocatori come Messi o Iniesta, fuoriclasse universali che a seconda della sorte possono nascere e diventare campioni in qualunque luogo, ma nel produrre proprio questa classe media di qualità che garantisce un ricambio costante ed estremamente economico, non solo in termini di denaro ma anche di costi d’inserimento, grazie alla naturalezza con la quale il giocatore in via di formazione viene incanalato nel passaggio dalle formazioni giovanili (improntate tutte sullo stesso modulo e sulla stessa filosofia di gioco) alla prima squadra.

Quindi, la domanda fatidica: Pedrito merita la nazionale? La risposta è no. Un no di stima, ma pur sempre no. Non bisogna dimenticare infatti i rispettivi contesti. È vero infatti che Pedro ogni domenica e mercoledì giustifica la propria presenza nell’undici titolare del proprio club, ma è anche vero che è lo stesso contesto blaugrana a rafforzare enormemente la sua credibilità, anche al di là dei buoni mezzi del giocatore. E siccome in nazionale vanno portati i migliori, non sarebbe giusto che Pedrito per il solo fatto di vestire la maglia del Barça passasse davanti ad altri giocatori obiettivamente superiori. Come extremo per guadagnare la linea di fondo l’assoluta priorità è anzitutto garantire la presenza in Sudafrica del sevillista Navas (e nemmeno il valenciano Pablo Hernández si può dire inferiore a Pedrito), mentre l’altra caratteristica forte di Pedrito, la capacità di tagliare senza palla e trovare la porta avversaria, la copre già ampiamente Mata, specialista assoluto in questo tipo di giocate, nonché individualità anch’essa superiore a Pedrito (che comunque ha il vantaggio di poter essere impiegato indifferentemente su entrambe le fasce: con un solo giocatore convocato copri due posizioni).
Tutto questo senza dimenticare che il gioco della nazionale, pur costruito sulle stesse premesse di quello del Barça (difendersi con il pallone), si declina in maniera abbastanza differente, necessitando più di falsi esterni che aiutano a creare superiorità numerica nel mezzo e svariano tra le linee (Silva & Iniesta: dopo l’ultimo infortunio, un’ eventuale indisponibilità di Iniesta per il mondiale rappresenterebbe un colpo ancora più duro per la nazionale rispetto a quanto non lo sia già per il Barça) che di ali per allargare subito il campo come nel classico tridente alla Cruijff. Lo stesso Navas in tale contesto rappresenta una variante più che una soluzione di base, figuriamoci quindi Pedrito.

L’altro “caso” blaugrana in chiave nazionale è Víctor Valdés ed è un caso davvero serio, ben più di Pedrito. C’è che il rendimento di Valdés in questa stagione si è elevato a livelli tali da mettere in imbarazzo le gerarchie e le credenze più consolidate.
Nel bagaglio dell’appassionato di calcio spagnolo figura infatti saldissimo un dogma di fede, un vero e proprio comandamento: non avrai altro portiere al di fuori di Iker. Il fatto però è che Casillas in questa stagione ha avuto più di una sbavatura, mentre dall’altra Valdés non ha sbagliato nulla, ma proprio nulla, ed è un fatto del quale comunque bisogna tenere conto. Un alone di scetticismo ha sempre circondato il portiere catalano, una certa rigidità di pensiero dettata anche dalla tradizione storica, secondo la quale le grandissime squadre, fautrici di un grande calcio offensivo, debbano per forza avere un portiere non irresistibile… c’era Barbosa, il portiere del Brasile del ’50 che secondo Obdulio Varela aveva la faccia da scemo, poi i portieri del Real Madrid di Di Stefano che nessuno si ricorda, poi ancora la presenza folkloristica di Jongbloed nell’Olanda del ’74… e insomma, pare brutto dire che uno dei Barça più grandi della storia ha anche un grande portiere.
Così di Valdés, anche inconsciamente, si è teso sempre più a sottolineare le incertezze, le papere (che ci sono state), piuttosto che le parate inequivocabilmente decisive nella finale con l’Arsenal del 2006 o l’intervento su Drogba nella semifinale-scandalo dell’anno scorso (senza quello non c’era Ovrebo che teneva). Il fatto che quest’anno non si sia vista ancora una papera ha messo tutti con le spalle al muro: è uno dei migliori portieri al mondo. Non solo con i nervi saldi e la personalità per risolvere a suo favore quelle poche occasioni concesse dal Barça agli avversari (è sempre stato una forza nell’uno contro uno e nelle uscite basse), ma anche sempre più affidabile nella gestione dell’area piccola. Le uscite alte erano un suo punto debole, ma ora calcola sempre meglio i tempi e gli spazi.
A questo aggiunge una rilevanza in fase di possesso fuori dal comune per il ruolo: avevamo sottolineato in precedenza come nel sistema di Guardiola la ricerca della superiorità già dai primi passaggi coinvolgesse in una misura notevole i difensori nell’elaborazione della manovra, e dal discorso non è escluso nemmeno il portiere. Così come i due centrali, ed eventualmente un centrocampista che si abbassa sulla loro stessa linea, ad inizio azione si allargano per aggirare il pressing dell’attacco avversario, analogo appoggio può offrire Valdés, sollecitato dai retropassaggi a reiniziare l’azione, e non solo con appoggi corti al compagno più vicino. Più di una volta si vede Valdés tagliare fuori la prima linea del pressing avversario con lanci verso le fasce, ad attivare direttamente i terzini. Anche lui nel suo piccolo contribuisce a spingere in avanti il baricentro della squadra: non è solo quello che salva capra e cavoli quando il nemico ha la palla-gol, ma a tutti gli effetti una parte integrante e attiva del sistema di gioco della propria squadra, in entrambe le fasi.
In questo senso è un portiere più completo di Casillas, che è sempre stato un estremo molto peculiare, tutt’altro che impeccabile tecnicamente ma dalle “apparizioni” miracolose e dal carisma ineguagliato. Qui resto fermo nella mia posizione: Iker è un’icona, e le icone vanno anche oltre le considerazioni contingenti legate al rendimento. Il posto fra i pali della Selección è suo, è parte dell’identità della nazionale stessa ed è già leggenda. Non ci si può non fidare.
Ciò non toglie però che Valdés sia impossibile da non convocare. Non trapela niente dagli ambienti intorno a Del Bosque al momento: il sospetto è che il CT sia titubante sulla questione per paura di scatenare un dualismo interno (fomentato prima ancora che da un’eventuale contrapposizione degli ego dei due portieri dall’illegibile stampa specializzata di Madrid e di Barcellona) che potrebbe alterare quegli equilibri di spogliaotio tanto solidi finora, con Reina tranquillo secondo-giullare.

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domenica, aprile 04, 2010

AVVISO.

Vi saluto per una settimana di "vacanza". Assisterò dal vivo a Barça-Arsenal, ma non penso potrò scriverne sul blog, salvo sorprese. Grazie a tutti come sempre per il seguito e la stima.

Saluti
Valentino


La macchina gira.

In attesa dell’insidioso ritorno con l’Arsenal, il Barça sembra rifiorito. Il 4-1 con l’Athletic Bilbao non è una vittoria cinica ma nuovamente prodiga di ritmo, di geometrie e di spettacolo, come nella migliore tradizione blaugrana, un seguito convincente del capolavoro incompleto dell’Emirates.
Il meglio per Guardiola è aver confermato la solidità della struttura anche al di là degli uomini. Perso infatti Ibrahimovic per infortunio (brutta assenza con l’Arsenal: lo so, sono una banderuola, ma nel calcio quello che è certezza in un momento determinato diventa l’esatto contrario nel giro di una settimana, penso lo abbiate capito), ancora indisponibile Iniesta, a riposo Xavi e la coppia Milito-Márquez (fortemente sospettata di titolarità per martedì), Pep rispolvera Chygrinskiy (ingiusto bersaglio di sberleffi dell’entorn culè), si gioca un doble pivote Busquets-Touré, Jeffren ala destra, ma soprattutto il doppio terzino a sinistra, Abidal al rientro con Maxwell esterno alto. Ancora una volta come con l’impiego di Keita mercoledì, non bisogna fermarsi a un’impressione superficiale nell’analisi: non è neanche questa una mossa difensiva, ma a conti fatti risulta anzi uno dei fattori di superiorità del 4-2-3-1 (Messi ancora libero e bello sulla trequarti blaugrana).
Due gol su quattro infatti nascono da sovrapposizioni di Abidal generate dal perfetto gioco di posizione di Maxwell. Anche questo un piccolo “caso Ibrahimovic”, un giocatore che tardivamente sta giustificando l’investimento estivo: il brasiliano non va mai in percussione, ma ha un senso tattico e una dimestichezza nel palleggio pienamente funzionali all’idea di gioco blaugrana. Porta via l’uomo, apre spazio ai compagni e collabora col centrocampo. Il primo tempo blaugrana è convincente per la continuità impressa alla manovra, ancora di più perché l’avversario ha fatto poco per agevolarlo.
Un Athletic con distanze ravvicinate fra i reparti e che ha disposto anche della prima occasione seria della partita, con Susaeta, stavolta preferito a Toquero alle spalle di Fernando Llorente (fe-no-me-no, forse l’attaccante più in forma del campionato nelle ultime settimane: lasciatemi anticipare tutta la mia possibile indignazione nel caso in cui Del Bosque gli preferisse il pur ottimo Negredo fra i 23 dei mondiali). Non sappiamo se l’intenzione dell’Athletic fosse quella di pressare alto in stile Osasuna (Caparrós in questo senso ha oscillato nei suoi precedenti contro il Barça: molto aggressivo nella finale di Copa la stagione scorsa e nella Supercoppa di Spagna a Bilbao, più conservatore invece nell’andata di Liga quest’anno), fatto sta che il Barça trovava sempre i primi passaggi (anche con Valdés) e riusciva a spingere dietro l’Athletic alzando i terzini. Il merito dell’Athletic nel primo tempo è di non aver concesso eccessive occasioni a fronte di questa marcata superiorità territoriale, soprattutto grazie alla vicinanza e la coesione fra le linee di difesa e centrocampo, brave a limitare la possibilità di percussione diretta da parte di Messi (limitare soltanto, perché Leo non lo si può cancellare del tutto).
Quindi il “contro-merito” del Barça è risieduto nell’aver avuto pazienza e cercare proprio dalle fasce di aggirare e alla lunga far crollare il sistema difensivo avversario. Aver mantenuto pazienza, grande concentrazione e intensità, come dimostra anche il gran pressing collettivo all’origine del 2-0 di Bojan. A differenza di altre (troppe) della Liga, non una partita regalata, per quanto il risultato finale cerchi di dire il contrario. Altro discorso la ripresa: col Barça in vantaggio e con più spazi per arrotondare è impossibile rimontare praticamente per chiunque, pur avendo avuto l’Athletic le sue occasioni in un buon inizio di secondo tempo (con cambi offensivi di Caparrós: Yeste e Toquero per Gabilondo e il solito trascurabile David López). Nell’ampia vittoria va sottolineata la doppietta di Bojan, cui Guardiola continua a chiedere scusa per i troppi pochi minuti (più che sospetta paraculata di Pep, la millesima di quest’animale da conferenza stampa, una razza agli antipodi di Mourinho ma a suo modo ugualmente temibile come domatore di giornalisti): due gol da finalizzatore di razza e un’ottima partita in generale. Il suo istinto e i suoi ottimi movimenti sono risaputi, ma continua a essere incerta la sua competitività in grandissime partite come quella con l’Arsenal, per la quale si candida come sostituto di Ibra. Per colpa di Guardiola, non ha un’adeguata sperimentazione alle spalle, oltre a esserci un gap mentale e atletico di base.

In bassa classifica, interessante affermazione del Zaragoza (2-0) nello scontro diretto col Málaga (detto “Marajah” dai telecronisti cinesi). Ora a sette punti sul terzultimo posto, la squadra di Gay fa il pieno di tranquillità, e attenzione perché mantenendo l’ossatura si candidano come una delle outsider più promettenti per la prossima stagione.
Nell’articolo tutto dedicato agli aragonesi parlavamo di lavori in corso, di un’identità ancora da costruire, e la partita di ieri è un buon passo avanti. Di fronte c’era un Málaga troppo rinunciatario, è vero, però il Zaragoza ha esercitato un convinto dominio territoriale, magari non troppo produttivo in termini di occasioni (il sommo Chupete Suazo segnerà il suo quinto gol stagionale nella ripresa, però prima peccherà forse di eccessivo altruismo, facendosi sentire un po’ meno del dovuto in area di rigore), ma effettivo e visibile. Si sostiene su un doble pivote Gabi-Edmilson in mediana che dà tranquillità e permette di sganciarsi in avanti al resto della squadra, mantenendo la posizione e coprendo e accorciando prontamente a palla persa (Edmilson poi è un maestro dai tempi del Barça, sa bene cosa vuol dire giocare in copertura in un sistema di gioco basato sul possesso palla). Così Diogo torna a sfrecciare sulla destra e si fionda negli spazi creati dalla partecipazione di qualità di Suazo e dal continuo movimento del trio di mezzepunte alle spalle del cileno (Ander sempre una gioia per gli occhi, poi benone Arizmendi, va detto, sempre pronto a tagliare e ad attaccare anche l’area sui cross, dando manforte al Chupete: la titolarità se la sta meritando il nostro affezionatissimo scarpone). Tutti cercano di partecipare (già a partire da Jarošik e Contini, che cercano di non buttare mai via il pallone), il Zaragoza è corto e fluido , convince e ritira un giustissimo premio.

Málaga in calo, ma la fortuna degli andalusi è che le terzultime non si schiodano mai: con tutto l’affetto nutrito dal sottoscritto per la freschezza dei canari, il Tenerife visto a Siviglia è ancora una volta desolante. Se provi sempre a giocartela, ma ogni volta che devi mettere l’ultimo passaggio o finalizzare cadi dalle nuvole (per quanto Nino sia un onestissimo mestierante), e se a questo aggiungi una difesa di burro (Manolo Martínez un ex centrocampista riconvertito, e si vede tutto), allora fai bene a prenotarti il biglietto di ritorno per la Segunda.

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sabato, aprile 03, 2010

Valencia, audacia senza fortuna.

Dopo l’esibizione del Barça di mercoledì, anche la Uefa tiene alto il nome del calcio spagnolo. Valencia-Atlético è stata una partita imperfetta perché fra due squadre (molto) imperfette, però una partita viva, emozionante, ricca, in una parola bella.
Il 2-2 finale penalizza oltremisura il Valencia, non solo per la pesantezza dei gol incassati in casa, ma per la misera ricompensa ottenuta dalla generosissima squadra di Emery.
Il meglio della partita sono i primi 20 minuti dei padroni di casa, travolgenti per ritmo, ispirazione e intensità. Il Valencia verticalizza con estrema facilità, esalta la sua caratteristica più celebre, la mobilità del quartetto offensivo (Silva in libertà fra le linee, Villa che svaria, Pablo H. e Mata che tagliano dalle fasce), e crea una buona serie di occasioni, anche se la più clamorosa è dell’Atlético, un sinistro a girare di Simão che si stampa sul palo.
Il limite del dominio valenciano però è proprio questo, che si basa sull’esasperazione dei ritmi più che sul controllo. Inevitabileche duri finchè dura la benzina. Riassume la questione la presenza di Manuel Fernandes al posto di Banega (squalificato anche per il ritorno), accanto a Baraja. Il portoghese gioca un’ ottima partita, segnerà anche il momentaneo 1-1 nella ripresa con una delle sue caratteristiche conclusioni dalla distanza (sassate che si abbassano all’improvviso e picchiano per terra prendendo velocità prima dell’intervento del portiere), interpreta il gioco con grande aggressività, sempre pronto alla percussione, ma non può per indole offrire quel controllo, quella possibilità di riposare col pallone propria di Banega. Così quando il Valencia ha il suo fisiologico calo dopo l’inizio a tutta birra, tende ad allungarsi e a faticare sempre di più nella transizione difensiva, ancora di più con le assenze che impongono l’utilizzo forzato di giocatori fuori ruolo come Jordi Alba terzino sinistro (spaesatissimo in copertura, utile però in fase offensiva). Il centrocampo tende a saltare, la partita si sviluppa frenetica da un’area all’altra, e questo è un rischio mortale contro l’Atlético Madrid.
Il Valencia ha di certo argomenti più numerosi e più attraenti da mettere sul campo rispetto all’Atlético, lo ha dimostrato ieri e in tutta la stagione, ma la mancanza di controllo pieno sul match, della continuità e compattezza da grande squadra, ribadite ancora una volta, le paga sul ribaltamento che spalanca la metacampo ad Agüero e origina lo 0-1 di Forlán, l’episodio che mette davvero in salita la qualificazione. La generosità che ha fruttato lo strameritato pareggio di Villa potrebbe non bastare al Vicente Calderón, tanto più che le assenza continuano a massacrare Emery (Bruno squalificato, niente terzini destri per il ritorno).

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giovedì, aprile 01, 2010

Capolavoro, ma solo a metà.

Dopo Maiorca, ennesima sonnolenta vittoria di Liga, avevamo sollevato il sospetto ottimista che forse soltanto con lo stimolo di una grande partita e di una grande competizione saremmo tornati a vedere il miglior Barça. Detto, fatto, per 70 minuti buoni i blaugrana scrivono sull’erba dell’Emirates un trattato di calcio di possesso di spaventosa profondità, verbo imposto con una padronanza tale da non curarsi nemmeno dell’avversario di fronte. L’avversario invece c’è, lo dimostrano gli ultimi 20 minuti, ma al di là dei meriti incontestabili alla base della reazione dell’Arsenal (e del pestifero Walcott), è inevitabile e giusto regalare la copertina alla prestazione del Barça, il meglio visto in tutta la stagione, non solo in ambito blaugrana e forse non solo in ambito spagnolo. Se completato il passaggio del turno, la partita di ieri potrebbe, anche andando oltre il grande rammarico per non aver completamente tradotto nel risultato un tale sforzo artistico, segnare una svolta psicologica importante in vista del rush finale, che il Barça potrebbe giocarsi con la consapevolezza di disporre sempre del suo miglior argomento, il gioco.

Detto che quella di ieri è un’affermazione collettiva, e che quindi non è del tutto corretto mettere un nome in prima fila, è stata la partita della svolta anche per Zlatan Ibrahimovic. Vada come vada alla fine, lo svedese ha dato un bel calcione al fantasma di Samuel Eto’o, dimostrando che il Barça non solo può giocare bene, creare occasioni e segnare con lui in campo, ma può farlo anche GRAZIE a lui. Dopo l’occasionissima sottoporta buttata in apertura, scuotevo la testa pensando che tanta goffaggine avrebbe mandato in fumo il buon lavoro per la squadra che Zlatan stava pur svolgendo, invece la ripresa fuga tutti i dubbi: per chi da tutta la stagione segue attentamente il Barça, partita dopo partita, vedere Ibrahimovic andare in gol proprio così, su due movimenti senza palla (!), in profondità (!!), dettando il passaggio verticale alle spalle della difesa avversaria (!!!), beh, è quasi commovente.
La mia posizione sull’acquisto dello svedese è sempre stata caratterizzata da una certa indecisione: né “meglio Ibra” né “dovevano tenere Eto’o”, ma piuttosto “aspettiamo, vediamo un po’ che succede”, nella consapevolezza che si tratti di un giocatore talmente complesso da poter togliere o aggiungere indifferentemente, a seconda delle circostanze. Però anche il sottoscritto nell’ultimo periodo cominciava a non crederci più, e a ritenere la panchina di Ibra una fonte di maggiori certezze per il Barça in un momento della stagione come questo, in cui devi essere assolutamente certo di quello che hai e devi darlo tutto.
Invece, in una sola settimana, l’ultima, grigia per la squadra ma di graduale crescita per il giocatore, Ibrahimovic ha ripreso il filo del discorso interrotto a fine 2009, fino all’exploit di ieri sera. Anche in Aprile, non è mai troppo tardi per riguadagnare un grande giocatore.

La partita dell’Arsenal inizia con decisione, con un affondo sulla sinistra e cross che attraversa l’area. Poi Messi ha spazio per ribaltare l’azione, Ibrahimovic ottiene un calcio d’angolo e si rimane lì nell’area inglese. Per venti minuti. Possesso palla-occasione-pressing-palla rubata-nuovo possesso-nuova occasione-nuovo pressing-nuova palla rubata… un ciclo ininterrotto, senza respiro, il Barça crea più situazioni pericolose nei primi 20 minuti con l’Arsenal che contro Mallorca, Osasuna, Zaragoza e compagnia messe tutte insieme. A fine primo tempo sarà 69% di possesso… contro l’Arsenal!
Il Barça impone una perfetta occupazione del campo in ampiezza e in profondità, e una circolazione di palla fluida come da tempo non si vedeva. La mossa di Guardiola stavolta è una correzione all’interno del quasi 4-2-4 visto negli ultimi tempi. Messi resta al centro della trequarti, vicino alla prima punta, ma l’ala sinistra è più che mai falsa, e cioè Seydou Keita. Quindi più un 4-4-1-1 stavolta, con Pedrito ala destra, preferito ad Henry. Superficialmente si direbbe un cambio difensivo, ma in realtà è volto ad ottenere un maggior controllo in mezzo al campo e ad assicurare situazioni di superiorità decisive sulla trequarti come sulle fasce.
Un gran peso, e non è la prima volta, lo esercita Keita, arma tattica formidabile: pur essendo tecnicamente buono, non ha la stessa capacità dei Xavi o Iniesta di dare senso al gioco col pallone tra i piedi. Quando però non ha la palla, quando c’è da capire quale spazio andare a occupare, per dare un appoggio al portatore di palla o per aprire un varco a un compagno, pochi giocatori sono intelligenti e preziosi come lui. In fase di possesso, Keita fa sia il terzo centrocampista a sostegno di Busquets e Xavi, sia l’esterno alto. In coppia con Maxwell (buona partita, va detto: non è mai troppo profondo quando va palla al piede, però ad inizio azione si situa sempre all’altezza giusta e poi si sovrappone dando anche lui la continuità desiderata al gioco) tiene bassissimi Sagna e Arshavin (costretto a uscire anticipatamente), e lo stesso fanno Pedro e un Alves mastodontico dall’altra parte con Clichy e Nasri (che comunque è l’unico gunner capace di far salire la squadra, vista la pallida prestazione di Cesc).
Con la flessibilità tattica di Keita, il Barça conquista la superiorità pure nel mezzo, perché ai tre centrali aggiunge un Messi mina vagante fra le linee. Ibrahimovic non tocca tantissimi palloni, ma meglio così perché anche lui come le due coppie di esterni aiuta a tenere bassa la linea difensiva dell’Arsenal, attaccando l’area di rigore sui cross e dettando la verticalizzazione. Così non pesta i piedi a nessuno sulla trequarti, e rende anche più profittevole lo spazio tra le linee a disposizione di Messi. L’argentino non sfodera prodezze individuali, ma in un certo senso è un dato positivo, perché il buon lavoro collettivo nella creazione di spazi non lo costringe a inventarsi azioni impossibili, è sufficiente fare movimento, offrirsi e cambiare ritmo con gli uno-due.
Con la linea difensiva bassa, l’Arsenal si trova preso in mezzo a centrocampo: se provano ad alzare un po’ il pressing, Song, Diaby e Cesc vengono aggirati e liberano alle loro spalle un avversario tra le linee; se invece decidono di rimanere bassi, allora è tutto il baricentro dell’Arsenal che sprofonda, costretto a recuperare palla talmente lontano dalla porta avversaria e in situazioni talmente scomode che il Barça ha sempre quei decimi di secondo di vantaggio per riorganizzarsi, pressare e recuperare palla prima ancora che l’Arsenal possa elaborare la propria transizione dalla fase difensiva a quella offensiva.
Il centrocampo culè funziona che è una meraviglia, con rotazioni costanti e fluidità di movimenti e di palleggio fra un Xavi che sguazza radioso nel Paradiso delle Opzioni di Passaggio e un Busquets elegantissimo col pallone ed estremamente funzionale senza. Sconfessato un altra mio preconcetto: pensavo che con un avversario bravo a ribaltare il gioco come l’Arsenal, le risorse atletiche di un Touré fossero necessarie per correggere quelle situazioni in cui il Barça non riesce a recuperare palla nella metacampo avversaria e deve ripiegare precipitosamente; invece è stata la gestione del pallone da parte blaugrana a dettare legge anche per la transizione difensiva, anche in uno scenario come l’Emirates. Se il Barça riesce a vivere nella metacampo avversaria, allora Busquets si rivela eccellente nell’anticipare e spezzare sul nascere i rilanci degli avversari. Sul “primo pressing” Sergi è fortissimo, e questa sua capacità, unita alle splendide letture di Piqué qualche metro dietro, dà grande tranquillità in partite come questa.

Il dominio del primo tempo giustificherebbe minimo due gol di vantaggio, ma lo 0-1 arriva solo appena iniziata la ripresa. Preciso Ibrahimovic, penosa la linea difensiva dell’Arsenal: Song, inguardabile una volta retrocesso con l’infortunio di Gallas, sabota il fuorigioco, Almunia esce senza un perché quando Ibrahimovic andava sì in fuga, ma da una posizione comunque defilata. Il vantaggio appena acquisito aggrava il torello blaugrana, e visibilmente accesce la frustrazione dei padroni di casa, ancora improponibili in difesa sul secondo gol di Ibrahimovic: sbaglia la difesa a tentare il fuorigioco quando Xavi può verticalizzare a palla scoperta, ma il peggio è che mentre Vermaelen sale gli altri tre restano bloccati e spalancano l’autostrada per Ibra.
La fortuna dell’Arsenal però è che anche il Barça, pensando di aver chiuso tutto, si rilassi un po’: lo dimostra la palla persa a centrocampo da Busquets, fin lì impeccabile, che avvia l’1-2 di Walcott. La velocissima ala destra, appena entrata, caratterizza la rimonta dei Gunners. Non è un giocatore che mi entusiasmi particolarmente, lo trovo un po’monotematico, però se ha lo spazio non lo ferma nessuno, e quello che succede è che il Barça in questa fase finale della partita non si sostiene più come prima sul suo possesso-palla, non ha più il monopolio del ritmo e subisce la velocità dell’Arsenal. Così, costretto un po’ di più nella propria metacampo, Maxwell accusa tutte le sue debolezze nell’uno contro uno: Walcott ha un passo fuori dalla sua portata, ed è su quella fascia che l’Arsenal alimenta le proprie speranze. Cambiano i ritmi e lo scenario tattico, il Barça nell’ultimo quarto d’ora riesce a riproporsi solo in contropiede, ed è la ricerca di maggior velocità negli spazi a motivare l’ingresso di Henry (applauditissimo dai suoi ex tifosi) al posto di Ibrahimovic. La continuità di gioco però nel finale è tutta dell’Arsenal, i blaugrana arrivano col fiatone e incassano il rigore del 2-2 di Fabregas, con annessa espulsione di Puyol per chiara occasione da gol (squalificati sia lui che Piqué per il ritorno). Un vero peccato, però ci si è divertiti.

FOTO: elpais.com

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