venerdì, maggio 28, 2010

Anche gli ingegneri nel loro piccolo finiscono nel tritacarne.


Il profumino del cadavere in decomposizione si fiutava già da settimane, Florentino Pérez ha sancito semplicemente l’ufficialità: Manuel Pellegrini non è più l’allenatore del Real Madrid.

Pellegrini è stato sempre sopportato più che sostenuto da Florentino. Il sobrio presidente merengue al suo ritorno la scorsa estate optò per una posizione un po’più defilata per quanto riguardava le scelte tecniche, almeno più defilata rispetto all’ultima fase della sua precedente gestione, quando impose la linea dei Zidanes y Pavones e l’abolizione della classe media dei Makelele e Cambiasso. Già la scorsa estate la sua opzione favorita era José Mourinho, ma la decisione finale la lasciò alla direzione tecnica composta da Valdano e Pardeza. La predilezione di Valdano andava invece a Wenger, e così nell’impossibilità di arrivare al tecnico dell’Arsenal, la scelta alla fine cadde su Pellegrini, profilo simile a quello del tecnico alsaziano.
Pellegrini ha trovato però più apprezzamento fra i tifosi merengues (i quali in maggioranza hanno continuato ad appoggiarlo anche dopo l’eliminazione dalla Champions) che fra i vertici societari e i giornali. “Marca” ha scatenato dal giorno 1 della gestione Pellegrini una campagna indecente contro il tecnico cileno, accusato anche delle guerre e della fame nel mondo; Florentino invece ha taciuto (alla trasmissione radiofonica “El Larguero”, parlando già da ex, Pellegrini afferma di non aver praticamente parlato col presidente da agosto in poi), ma il suo silenzio nascondeva secondo i meglio informati una fiducia chiaramente a termine, e col passare dei mesi su Pellegrini ha preso forma una cappa sempre più opprimente. Soprattutto dopo l’eliminazione dagli ottavi di Champions, il suo Real Madrid ha perso fiducia e prospettive a lungo termine, relegato alla banale quotidianità di una Liga che anche se vinta non avrebbe placato gli appetiti megalomani sbandierati in estate dalla società. Stando così la situazione, anche i progressi registrati sul campo, quelle cose buone che il Real Madrid di Pellegrini avrebbe anche fatto vedere, vengono irrimediabilmente guastati e il futuro, il progetto, semplicemente cessano di esistere.

Se la cosa di questi tempi non suonasse irrimediabilmente demodé, diremmo che Pellegrini è stato il miglior allenatore del Real Madrid dopo Del Bosque. Perlomeno l’unico che, pur non avendo vinto nulla (a differenza di Capello e Schuster), è riuscito a dare un’identità riconoscibile alla sua squadra, e questo anche tenendo in conto che la rosa a sua disposizione era sicuramente superiore a quelle di Capello e Schuster.
Ci ha messo un paio di mesi a trovare un undici-tipo e un assetto tattico, ma il Real Madrid ha giocato quest’anno più di una partita francamente convincente, anzi ne ha giocate pure di più rispetto al Barça, che però lo ha surclassato sul piano della maturità e dell’”autocontrollo”, come hanno dimostrato anche i due scontri diretti.

Tre le fasi fondamentali nella gestione tattica di Pellegrini. La prima, in pretemporada e nei due mesi iniziali, ha visto il tecnico cileno cercare di adattare al contesto madridista il suo ormai classico 4-4-2 senza esterni di ruolo visto al Villarreal. Geometrie simili, ma con un’interpretazione nettamente più veloce e verticale, date le caratteristiche di elementi come Cristiano Ronaldo, Kaká e Higuaín. Questo almeno nelle intenzioni, perché le prime uscite vedono un Real Madrid molto confusionario e disordinato, con tendenza a portare palla troppo centralmente e a spezzarsi in due. Il punto più basso in questa fase della stagione lo si tocca con l’umiliante uscita dalla Copa del Rey per mano dell’Alcorcón.
Con la squadra spezzata in due, vengono maggiormente in evidenza le carenze di Marcelo quando difende nella propria area, e così Pellegrini passa dalla formazione ultra-offensiva della prima giornata (Raúl e Benzema di punta, Cristiano Ronaldo e Kaká che partono dalle fasce) a un undici un po’ più coperto: Arbeloa entra nell’undici titolare come terzino sinistro, Marcelo viene avanzato a centrocampo ma non proprio come esterno, perché il disegno del centrocampo cambia, si passa al rombo: Lassana Diarra si defila un po’ a destra anche per risultare un po’ meno ingombrante per Xabi Alonso, partito senza riferimenti utili per sviluppare il suo calcio nel caos d’inizio stagione, ma poi assestatosi su altissimi livelli.
A cambiare progressivamente però è tutto il Real Madrid: più coralità, pochi tocchi, ripartizione degli spazi più razionale, nessun punto di riferimento dalla trequarti in su, triangolazioni e inserimenti in corsa, copertura efficace anche delle fasce sebbene per la critica più superficiale l’assenza di esterni di ruolo la impedisca (nonostante ciò, sempre a “El Larguero”, Pellegrini si toglie un sassolino affermando di essersi opposto alla cessione dell’ala pura Robben oltre che di Sneijder). I merengues si muovono meglio come blocco, allungano e allargano gli avversari nel mentre che accorciano con più facilità fra i reparti: Casillas (peraltro piuttosto sottotono) da anni non riceveva così pochi tiri in porta, la difesa alta ha funzionato bene anche dopo l’infortunio occorso a Pepe, con un Albiol quasi sempre impeccabile, affiancato più spesso da Sergio Ramos, adattato al centro (con Arbeloa a destra), che da Garay. In attacco invece Higuaín scalza Benzema a suon di gol.
Col Real Madrid più coeso e capace di difendersi col pallone nella metacampo avversaria, anche Marcelo terzino torna utilissimo, anzi un bel valore aggiunto. Questo permette a Granero di affacciarsi nel ruolo di mezzala, anche se il rendimento del canterano risulterà quasi sempre al di sotto delle attese.
Questa fase della stagione madridista, la più convincente, dura fino all’esaltante rimonta casalinga col Sevilla, forse la miglior partita di tutta la Liga 2009-2010, una gara che porta al picco massimo dell’efficacia e della plasticità tutte quelle prerogative di velocità e verticalità esposte precedentemente. Il problema è che una grande squadra però si vede ancor più che dai picchi di rendimento dalla capacità di gestire in maniera indolore anche quelle fasi un po’ meno brillanti. Si chiama maturità, ed è quello che è mancato al Real Madrid nella partita che ha segnato la sua stagione e il destino di Pellegrini. Già nei mesi precedenti il calo nei secondi tempi era stata una costante del Real Madrid, accettabile contro gli avversari estremamente inferiori della Liga, ma letale non appena un Lione, avendo rischiato di andare sotto di due-tre gol nel primo tempo, mette il naso fuori dalla metacampo e scopre che la squadra dei Casillas, Xabi Alonso, Kaká e Ronaldo in realtà se la sta facendo sotto.
La quinta eliminazione consecutiva dagli ottavi di Champions apre la terza e ultima fase della stagione madridista, quella della disillusione. Partite vinte in maniera burocratica, gioco al ribasso (tranne lo scontro casalingo col Valencia), e qualche modifica nell’undici titolare, col ritorno al 4-4-2, con Granero (o Guti) e Van der Vaart (rimpiazzo di Kaká durante l’infortunio del brasiliano) falsi esterni e Gago al posto di Lass. Serve a poco, il Barça non frena e Pellegrini è già spacciato.

Ora si cambia, ancora una volta: all’insegna del consueto understatement, il Real Madrid aggredisce il mercato alla ricerca del meglio che c‘è. Un anno i migliori giocatori, e se non funziona, l’anno dopo si spende per l’allenatore più bravo. Quindi Mourinho, che dovremo chiamare El Especial. Prima il messaggio alla concorrenza, poi eventualmente il piano: non sappiamo infatti se quella di Mourinho sarà una rivoluzione o una riforma. Chiaramente cambieranno la filosofia di gioco e i metodi di lavoro, il punto è sapere se cambierà anche la rosa o se invece il portoghese chiederà semplicemente qualche ritocco ad integrare il nucleo già di Pellegrini.
Se fosse rimasto il cileno, il primo fondamentale acquisto avrebbe dovuto essere quello di una mezzala capace di parlare lo stesso linguaggio di Xabi Alonso, armonizzandosi coi movimenti del basco più di quanto non abbiano fatto Marcelo e Lass, che son parsi più delle pezze messe lì per necessità che delle soluzioni sposate con convinzione da Pellegrini. La soluzione era già in casa, e si chiamava Sneijder, l’unico vero errore (non Robben) del mercato madridista.
Ora però non si sa come giocherà Mourinho, se manterrà il rombo, i falsi esterni o se invece chiederà esterni puri: il nome di Di Maria sembra suggerire la seconda ipotesi, ma comunque bisognerà aspettarsi una grande versatilità tattica dall’allenatore portoghese, come da consuetudine. Un aspetto positivo di Mourinho è sempre stato quello di sapersi sempre adattare a ciò che offre l’organico più che imporre sue scelte preconcette, come invece fanno altri allenatori come Benítez o Capello: al Chelsea ha giocato col centravanti-boa e con due ali, con il rombo, all’Inter ha giocato con giocatori pesanti e leggeri, modificando sempre lo stile di gioco. Questo fa pensare che possa ripartire da ciò che ha lasciato Pellegrini più che lanciarsi in richieste esose. Se il Madrid spenderà ancora molto, tendo a pensare sarà più per le mani bucate di Florentino (finchè le banche prestano…) che per le ansie di Mourinho.
L’unica esigenza certa, che sarebbe rimasta anche con Pellegrini, è quella di rimpolpare la difesa, o aggiungendo un centrale oppure (ipotesi più probabile) comprando due terzini e impostando definitivamente Sergio Ramos centrale (che sarebbe un peccato: se hai già lui come terzino, Maicon non è così necessario).

PS: chi cerca un bravo allenatore, non uno speciale ma uno bravo, ne può trovare uno appena svincolatosi dal Real Madrid.

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sabato, maggio 22, 2010

Con Villa vai sul sicuro.

Presentato ufficialmente il primo colpo per la prossima stagione di Liga, peraltro ampiamente nell’aria. David Villa al Barcelona per 40 milioni di euro.

Dopo la scommessa persa con Ibrahimovic, il Barça ha deciso di puntare sul valore più affidabile che il mercato potesse offrire. David Villa ha 28 anni, secondo chi scrive è il miglior attaccante spagnolo, si trova nel pieno della propria maturità ma non ha vinto ancora nessun grande trofeo (questo è importante), assicura gol, tantissimi gol e una piena funzionalità tattica all’interno del modello di gioco blaugrana. Un innesto perfettamente razionale, insomma.
Villa è uno che a differenza di Ibrahimovic o Messi sente come prima esigenza il gol, ma non è un parassita, bensì un giocatore che sa crearsi da solo le occasioni e che ama dialogare coi compagni palla a terra, svariare e non offrire alcun punto di riferimento. Un giocatore che si trova a suo agio anche nello stretto, requisito imprescindibile per giocare al Camp Nou.
Particolarmente gustosa in chiave-Barça è poi la sua completa adattabilità a tutte le zone del tridente: proseguendo nel paragone con Ibrahimovic, il Guaje non è un giocatore utilizzabile solamente al centro. Può benissimo partire anche dalla fascia (dalla sinistra comunque, a destra non avrebbe angolo di tiro), tenendo in conto che il tridente del Barça prevede tre attaccanti veri che hanno ampia libertà di cercare la conclusione e non due larghi che crossano e un poveretto al centro che aspetta; questo renderà il turnover estremamente agile per Guardiola, non chiudendo particolari spazi alla crescita di Bojan (che vanta una polivalenza uguale a quella di Villa, oltre a caratteristiche simili) e in fondo non escludendo nemmeno un possibile rilancio di Ibrahimovic.

Infatti l’acquisto di Villa si può interpretare sia come una reazione al fallimento di Zlatan sia come una mossa complementare all’eventuale permanenza dello svedese. Nel ragionamento la chiave è Henry: nei piani iniziali per la stagione appena conclusa, era il francese infatti che doveva mantenere lo sfogo in profondità tagliando da sinistra e garantendo così un’occupazione razionale degli spazi anche con la presenza di Ibra, un giocatore che ingombra parecchio la trequarti con la sua tendenza a venire incontro al pallone.
Henry lascerà Barcellona, lo sappiamo, ma lo sostituirà un giocatore ugualmente (anzi, ancora di più) propenso ad attaccare gli spazi in profondità. Sia che parta al centro, sul filo del fuorigioco, sia che parta invece da sinistra, con la diagonale. In questo secondo caso, aumenterebbe lo “spazio vitale” a disposizione di Ibrahimovic, e un ipotetico tridente Messi-Ibrahimovic-Villa risulterebbe ben bilanciato. Sulla carta, l’acquisto di Villa migliora anche Ibrahimovic insomma. Questo senza dimenticare che la situazione dello svedese rimane del tutto incerta: un’offerta sostanziosa dall’estero suggerirebbe di liberarsene, ma l’ingaggio del Guaje permette già di gestire con molta più calma questa situazione, con le spalle coperte al meglio.

Ultima considerazione, quasi ovvia, riguarda l’ulteriore mazzata che questa operazione di mercato infligge all’”equilibrio” interno alla Liga: il fatto che la stella della principale outsider (la quale nel frattempo preannuncia una vera e propria economia di guerra che potrebbe portare al sacrificio anche di Silva) vada a rinforzare la squadra fresca campione parla da solo.

FOTO: elmundodeportivo.es

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giovedì, maggio 20, 2010

I 23 per il Sudafrica.

Portieri: Iker Casillas (Real Madrid), José Manuel Reina (Liverpool/ING), Víctor Valdés (Barcelona).

Difensori: Raúl Albiol (Real Madrid), Álvaro Arbeloa (Real Madrid), Joan Capdevila (Villarreal), Carlos Marchena (Valencia), Gerard Piqué (Barcelona), Carles Puyol (Barcelona), Sergio Ramos (Real Madrid).

Centrocampisti: Xabier Alonso (Real Madrid), Sergio Busquets (Barcelona), Cesc Fábregas (Arsenal/ING), Andrés Iniesta (Barcelona), Javier Martínez (Athletic Club), David Jiménez Silva (Valencia), Xavi Hernández (Barcelona).

Attaccanti: Jesús Navas González (Sevilla), Juan Manuel Mata (Valencia), Pedro Rodríguez (Barcelona), Fernando Llorente (Athletic Club), Fernando Torres (Liverpool/ING), David Villa (Valencia).


Fra chi non chiama Zanetti, Cambiasso e Banega, chi non chiama Benzema e chi chiama Kleberson e Julio Baptista, non ci si può lamentare. Piccoli appunti, soggettivi e del tutto opinabili, ma lista finale di Del Bosque è francamente buona.
Tre novità assolute (Víctor Valdés, Javi Martínez e Pedrito) e tre esclusioni un po’ dolorose dalla lista dei 30 preconvocati (Senna, Cazorla e Güiza) le note di maggior rilievo.

Cominciamo dalle novità. Valdés era strameritato, e l’unico dubbio veniva dal possibile dualismo con Casillas, perché il portiere blaugrana ha fatto le cose sin troppo bene, disputando una stagione decisamente migliore del madridista che pure, per un discorso di buonsenso e continuità, è giusto che rimanga non solo il titolare indiscusso ma anche il leader di questa nazionale.

Javi Martínez è l’unico che personalmente mi fa storcere il naso. Non per il valore assoluto del navarro, che è ottimo, ma per il suo inserimento in un contesto così caratterizzato come quello della nazionale spagnola. Javi Martínez è un cursore che si divora il campo, box-to-box, più da Premier che da squadra che avanza a piccoli passaggi e ritmi lenti. Straordinario per capacità aerobica, dinamismo e carica agonistica, valido anche tatticamente (in più di una occasione quest’anno nell’Athletic si è trovato a fare il centrocampista più basso, quasi un pivote bloccato davanti alla difesa nel 4-4-2 atipico con Gurpegi esterno destro), tuttavia Javi sembra non averlo proprio nelle corde il gioco a uno-due tocchi, il palleggio fitto al quale inevitabilmente dovrà adattarsi una volta calato nel contesto.
Anche per questo amareggia un po’ la defezione di Senna, che nella Spagna Campione d’Europa era un giocatore semplicemente perfetto perché non solo copriva egregiamente davanti alla difesa, ma una volta rientrato in possesso del pallone non spezzava mai la continuità del palleggio. Purtroppo il brasiliano ha pagato una stagione mediocre al Villarreal, dove ha finito il campionato da riserva (Garrido ha preferito arretrare Ibagaza al suo posto, con un solo centrocampista difensivo, il meritevole Bruno Soriano): dovrebbe fare le sue veci Sergi Busquets, con qualche possibile sbavatura in più nella metacampo difensiva, ma con una fedeltà totale all’idea di gioco della nazionale, simile (anche se con tratti profondamente diversi) a quella del Barça.

Infine Pedrito. Circa un mese fa scrissi che non lo avrei convocato. Invece ho cambiato idea, guarda un po’. Non che lo ritenga superiore per valore assoluto a tutti i suoi concorrenti, è che è talmente in striscia positiva, talmente benedetto dalla musa che forse è meglio tenerselo buono e approfittarne se sarà il caso, non si sa mai.
Questo piuttosto rende non necessaria la convocazione di Mata: seppure non uguali, lui e Pedrito sono più o meno la stessa tipologia di giocatore. Un attaccante che parte largo ma più che cercare il fondo (come invece fa Navas, lo specialista di fascia migliore di tutto il calcio spagnolo) taglia e punta alla porta avversaria. Siccome la musa sta dalla parte di Pedrito, e siccome il blaugrana è praticamente ambidestro, e può giocare su tutte e due le fasce al contrario del “mancino chiuso” Mata, io alla fine avrei lasciato a casa il valenciano in favore di una punta centrale o di un giocatore in più negli altri reparti.

Le tre novità si inseriscono in una rosa forte ed equilibrata, ben disegnata in tutti i reparti. Non manca nulla, si può dire.
La difesa farà perno al centro sulla coppia del Barça Piqué-Puyol: l’incognita naturalmente non sta nella qualità del duo, ma nella forma con cui potranno arrivare al mondiale. È un’incognita che riguarda tutti i giocatori del Barça super-impegnato in questa stagione, giocatori che costituiscono il nucleo principale di questa nazionale.
Sergio Ramos tornerà fisso a destra dopo essere stato utilizzato anche troppo al centro in questa stagione madridista, mentre Capdevila sulla fascia opposta resta l’unico di ruolo, per mancanza di grandi alternative e perché comunque si tratta di uno dei pilastri dello spogliatoio. C’è comunque Arbeloa che si può adattare come terzino di riserva su entrambe le fasce. In questo caso meglio non dargli tutta la fascia per quelle che sono le sue carenze di profondità: con un giocatore largo però il madridista dimostra buon tempismo nella sovrapposizioni. Pedrito sarebbe il suo partner ideale in un’ipotetica Spagna B.
Albiol una garanzia come primo rincalzo per i centrali (anche se con lacune evidenti nell’impostare), mentre l’ultima piazza è andata a Marchena. Può lasciare perplessi questa scelta, per un giocatore un po’ passato di cottura, impiegato poco quest’anno nella sua squadra (e spesso a centrocampo), ma bisogna dire che le alternative percorribili non erano tante, trattandosi perlopiù di giovani ancora in attesa della maturazione (vedi Marcano, un talento potenzialmente da nazionale ma molto irregolare al Villarreal nella stagione appena conclusa) o non del tutto affidabili (Amorebieta). Così, Del Bosque ha preferito puntare sull’esperienza.
Un’altra soluzione, quella per la quale io avrei optato, sarebbe stata la convocazione di Iraola lasciando Arbeloa come possibile quarto centrale oltre che come terzino di riserva. Ma il bilbaino è stato ignorato anche fra i 30 preconvocati, dove invece figurava Azpilicueta dell’Osasuna.

Il centrocampo, grande fiore all’occhiello. Due posti sono più che mai sicuri: Xabi Alonso davanti alla difesa, senza la concorrenza di Senna e sull’onda di una stagione che lo ha visto al vertice nel suo ruolo; Xavi qualche metro più avanti, perché anche se altri giocatori (Cesc e Iniesta) si possono pure definire superiori è sempre lui a incarnare l’anima di questa nazionale.
Il resto è più incerto, anche se ci si augura che Del Bosque opti per i due falsi esterni (Silva a destra e Iniesta a sinistra) per creare la superiorità nel mezzo, il caos organizzato senza posizioni fisse e la densità di palleggio che rappresenta la vera arma in più della Spagna, sicuramente molto di più del 4-4-2 classico con esterni di ruolo che rende questa squadra molto più leggibile nelle sue azioni, come hanno dimostrato gli esperimenti abbastanza infelici tentati in Confederations Cup contro Iraq e Sudafrica.
Quindi meglio Silva e Iniesta (sì, ma quale Iniesta vedremo? Grosso punto interrogativo) e meglio giocarsi Pedro e soprattutto Navas (per le sue caratteristiche atletiche e per lo stile di gioco diretto può fare grossissimi danni entrando in campo fresco) a partita in corso. L’ultima incognita dipende dalla scelta del modulo: Del Bosque alterna spesso due punte o una sola, e in quest’ultimo caso un'altra piazza a centrocampo diventa disponibile. A tal proposito, si spera che il CT non perseveri in una scelta già compiuta nelle amichevoli e poco comprensibile oltre che vagamente inquietante: preferire Busquets a Cesc, una scelta che sull’altare di un equivoca ricerca di maggior sicurezza difensiva sacrificherebbe ulteriormente il giocatore dei Gunners, il cui status di riserva risulta già abbastanza sorprendente.

In attacco i mattatori restano il neo-blaugrana Villa e Fernando Torres (anche lui però dovrà sciogliere i dubbi sulla sua condizione), preziosissimi per la capacità di vedere la porta, allungare le difese avversarie e coprire anche le fasce svariando e rendendo sopportabile l’assenza di esterni di ruolo nell’undici titolare.
Una bella notizia il ruolo di terzo attaccante riservato a Fernando Llorente: parliamo di un giocatorone strameritevole della convocazione. Fortunatamente preferito a Negredo, perché Llorente ha tutte le qualità che ha Negredo (gioco aereo, spalle alla porta, magari solo un po’ meno cattiveria nel finalizzare) e in più un senso della manovra del tutto estraneo al sevillista. “Fernandote” è preziosissimo perchè aggiunge il gioco aereo, la possibilità di semplificare il gioco coi cross quando opportuno, ma senza mai tradire l’idea di gioco principale, le combinazioni palla a terra nel quale il bilbaino, a dispetto della stazza, sguazza come un pesce nell’acqua. Protegge palla spalle alla porta magnificamente, ma sa perfino svariare sulle fasce alla ricerca dell’uno contro uno. Insomma, non è uno Zigic buttato lì alla ricerca della mischia.
Manca una quarta punta centrale, dove prima c’era Güiza: devo dire che non ho la più pallida idea di come abbia giocato in Turchia, però in nazionale il suo lo ha sempre dato, un’alternativa da non sottovalutare per le doti in contropiede e nel movimento senza palla fra i centrali. Non indispensabile, però ipoteticamente era più spendibile a partita in corso rispetto a un Mata.

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Chirurgico.

Brutto, estremamente brutto, ma efficace. Le riflessioni profonde le lasciamo all’estate, in cui la dirigenza avrà tempo di riprogrammare adeguatamente il progetto, nel mentre il Sevilla si gode la Copa del Rey e un quarto posto, risultati non da poco in una stagione nella quale l’immagine offerta dagli andalusi è stata sinceramente pessima.

Una finale non contraddistinta da un bel calcio (questo non ce lo si poteva aspettare), ma comunque intensa, sentita, sanamente nervosa e concitata: una finale vera, insomma. Barcellona invasa da quasi ottantamila fra tifosi colchoneros (in quarantaduemila!!!) e sevillistas, addirittura bandiere spagnole sugli spalti del Camp Nou, ritmo sin dal primo minuto.
La partita l’ha indirizzata la sassata di Diego Capel in apertura: il biondo ha approfittato degli acciacchi e del recente sottoutilizzo del delizioso Perotti per recuperare un po’ di ribalta. Giocatore esecrato dal sottoscritto, ma certi spunti sono impossibili da negare. Quando non c’è da pensare, quando deve solo buttarsi a testa bassa negli spazi e ha l’uno contro uno già servito, Capel può fare sempre molto male, ed una buona fetta di questa Copa è sua: non solo ieri, ma anche nell’ottavo col Barça, dove i suoi spunti decisero buona parte della gara d’andata.
A partire dal vantaggio immediato, la partita del Sevilla (da notare la conferma del 19enne canterano Luna sulla fascia sinistra difensiva: coraggioso Antonio Álvarez a promuoverlo di punto in bianco proprio nelle due gare più importanti della stagione, ieri e ad Almería sabato scorso) ha avuto un solo scopo: distruggere il gioco altrui.
Perlomeno idee chiare, e una certa concentrazione nell’applicarle. Ben raccolto, con marcature strette che hanno imbrigliato parecchio la capacità creativa dei solisti dell’Atlético (Kun e Forlán a secco). L’Atlético è piaciuto più di altre volte, ma solo nelle intenzioni. L’intenzione di giocare la palla con calma, da un lato all’altro, una certa fiducia nella propria capacità di fare la partita, ma pochi pericoli creati a conti fatti.
Inizialmente sembrava che l’Atlético potesse cogliere buoni frutti dalla sua fascia destra, come al solito la più battuta dai colchoneros, con Reyes che da destra accentra la distribuzione del pallone e le attenzioni degli avversari, creando spazio per le buone sovrapposizioni di Ujfalusi (sempre un po’ sottovalutato l’apporto offensivo del ceco). Però alla lunga il Sevilla chiude tutti gli spiragli, segue anche le sovrapposizioni ripiegando con gli esterni di centrocampo, respinge tutti i tentativi con Squillaci ed Escudé molto attenti al centro della difesa, e attraverso questa partita di puro contenimento esalta anche l’apporto di un giocatore come Zokora, che a recuperare e ripartire si trova molto meglio che a ragionare e impostare.
Non solo questo, il Sevilla usa da maestro tutti quei piccoli espedienti non ortodossi (falletti, perdite di tempo, proteste, scaramucce provocate e no) che servono a spezzettare la partita e far passare il tempo molto più velocemente per l’Atlético. Atlético che trova qualche idea in più con l’ingresso in corsa del solito ispirato “dodicesimo” Jurado (al posto di Simão, ancora e sempre sottotono), ma a onor del vero è il Sevilla ad andare più vicino al secondo gol in precedenza, quando un geniale colpo di tacco di Kanouté smarca Negredo per un rigore in corsa fallito abbastanza miseramente. Antonio Álvarez si copre ancora di più togliendo proprio Negredo per aggiungere al centrocampo Romaric, e allo scadere è Navas (eccellente, manco a dirlo) in un contropiede provocato da una perdita di Perea (…mmhhh…) ad emettere la sentenza definitiva.
Ora in casa Sevilla l’importante è non fermarsi a questo. La qualificazione alla Champions (preliminare permettendo), e i relativi incassi, offrono un’occasione perfetta per rifondare la squadra senza essere costretti a grossi sacrifici economici. La squadra ha perso tutto lo slancio e lo splendore dell’era Juande Ramos. Fra giocatori probabilmente alla fine di un ciclo (Kanouté ci regala le ultime perle, di Renato non si hanno più notizie, Luis Fabiano potrebbe andarsene dietro un buon compenso) e troppi acquisti fallimentari nelle ultime stagioni (Konko, Romaric, Duscher e compagnia… Zokora invece ha reso ma solo per quelle che sono le sue limitate caratteristiche, alla lunga potrebbe diventare un equivoco), bisogna iniettare forze fresche. Partendo da un allenatore che, dopo la parentesi da traghettatore di Antonio Álvarez, sappia disegnare una nuova struttura, e ripartendo in sede di campagna acquisti dalla qualità più che dai muscoli, soprattutto a centrocampo. Qualità che potrebbe arrivare anche da una cantera vivacissima, perché no.

FOTO: elpais.com

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domenica, maggio 16, 2010

FC BARCELONA CAMPIONE DI SPAGNA 2009-2010

Ventesima Liga per il Barça, record di punti (99), Messi capocannoniere con 34 gol come Ronaldo nel ‘96-’97. Al di là dei numeri, che vanno comunque pesati nel contesto di una concorrenza (Real Madrid a parte) troppo debole, è una conferma, il secondo titolo nazionale consecutivo di Guardiola (col contorno non disprezzabile della Supercoppa di Spagna, d’Europa e del Mondiale per club) per un ciclo che sembra destinato a durare.

Erano tre le fondamentali incognite/difficoltà che si presentavano al Barça all’inizio della stagione. Due arrivavano sull’onda del Triplete della passata temporada, e risiedevano rispettivamente nella capacità di gestire una stagione intensissima, con impegni ogni tre giorni, e di confermare i livelli di gioco scintillanti dell’anno scorso.
Per quanto riguarda il primo aspetto, va detto che il Barça ha rischiato, perché se l’è giocata su sei fronti con una rosa insolitamente corta per un club dal potenziale economico simile.
Nonostante ciò, non si può dire che i blaugrana siano arrivati completamente stremati alla fine della stagione, e in qualche modo Guardiola è riuscito a organizzare un turnover, contando sulla polivalenza di buona parte dei suoi giocatori (ad esempio l’utilissimo Puyol che può adattarsi a destra, fare il vice di Alves e lasciare uno spazio ai tanti, forse troppi centrali in organico) e anche sulla partecipazione, almeno nelle gare di campionato di profilo più basso, di canterani come Jeffren o anche, seppure appena intravisti, Jonathan dos Santos e Thiago Alcantara. Cantera che qualche soldino dovrebbe farlo risparmiare anche la prossima estate.
Negativo invece il bilancio complessivo della campagna-acquisti (Ibrahimovic, Chigrinskiy e Maxwell), nettamente negativo, ma non ritengo comunque che questi abbiano indebolito la squadra o pesato in maniera così decisiva sull’unico insuccesso stagionale, l’uscita dalla Champions con l’Inter (in quel caso prima ancora di un Ibrahimovic orribile c’è stato un Barça orribile).

Per quanto riguarda il gioco invece, è successo qualcosa di ampiamente preventivabile: il Barça 2009-2010 ha avuto ben poco della brillantezza di quello della stagione precedente. È un classico delle grandi squadre al secondo anno di ciclo: pur senza tirare indietro la gamba o snobbare gli impegni, imparano a vivere un po’ di più di rendita. Non poteva essere così invece la passata stagione, quando invece il nuovo Barça di Guardiola doveva a tutti costi dimostrare di aver voltato pagina rispetto alle ultime due decadenti stagioni dell’era Rijkaard, nell’atteggiamento ancora prima che nei risultati, giocando a mille ogni secondo di ogni partita.
Dobbiamo tenere quindi ragionevolmente conto di questo credito ed esercitare un po’ di indulgenza nel giudicare una stagione nella quale, tra tante gare vinte giochicchiando, il Barça DOC lo abbiamo apprezzato in un numero di partite che si può anche contare sulle dita di una mano (ma i primi 20 minuti in casa dell’Arsenal sono la cosa più potente che ho visto negli ultimi anni di calcio). I blaugrana però, Inter a parte, hanno dimostrato la personalità di chi sa rimboccarsi le maniche al momento del dunque e dare tutto quello che ha, ultimo esempio questo rush finale di Liga risolto in scioltezza nonostante due trasferte insidiose, a Siviglia e soprattutto a Vila-Real.

La terza incognita riguardava la variazione non da poco all’interno del modello tattico rappresentata dal cambio fra Eto’o e Ibrahimovic. Caratteristiche e movimenti radicalmente opposti, con lo svedese che viene incontro al pallone e nelle intenzioni di Guardiola doveva rappresentare come centravanti di manovra una fonte di gioco in più. La cosa non è riuscita, per le cattive prestazioni di Ibrahimovic nella seconda metà della stagione e anche perché son venuti meno altri sfoghi in profondità che il Barça metteva inizialmente in conto (l’eclissi di Henry, giocatore molto importante per allungare le difese, ma anche la flessione di Alves, che la profondità la dovrebbe dare dall’altro lato, e infine, indirettamente, anche l’assenza del vero Iniesta, capace di spingere dietro il baricentro avversario con la sua capacità di saltare da solo una linea andando palla al piede).
Di fronte a questo, bisogna dare atto a Guardiola di aver sperimentato buone alternative per aggirare il problema: prima il quasi 4-2-4 che, nell’impossibilità di arrivarci attraverso il centravanti, ha poggiato tutta la profondità della squadra su Messi, potenziandone al massimo gli effetti. Con Pedro ed Alves a destra a portare via i raddoppi che Messi subiva sulla fascia, Leo al centro della trequarti ha esondato di brutto: se prima era lui ad attirare il terzino e liberare lo spazio per le sovrapposizioni di Alves, in questo caso son stati gli altri a liberare lui fronte alla porta, e la cosa si è notata nei Messicidi sofferti da Valencia, Zaragoza e Stoccarda in una sola settimana, e, soprattutto, dall’Arsenal al Camp Nou.
Altra incisiva variante proposta nelle ultime partite è stata il ritorno al 4-3-3 ma con Messi falso centravanti: come l’anno scorso nelle gare-clou con Real Madrid e Manchester United, solo che la presenza di Ibrahimovic al posto di Eto’o rendeva impossibile adattare lo svedese alla fascia destra. QuindiGuardiola ha dovuto prima di tutto arrendersi all’evidenza dell’inefficacia di Ibrahimovic, relegarlo in panchina e lasciare così il palcoscenico al tridente leggero con Pedro e Bojan ai lati di Messi. Due canterani portati a tagliare in diagonale come gli Eto’o ed Henry dell’anno passato, lasciando a Messi lo spazio per staccarsi dai difensori centrali e creare superiorità sulla trequarti.

Tante soluzioni per la squadra più matura e più meritevole di questa Liga 2009-2010.

FOTO: sport.es

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sabato, maggio 15, 2010

Analisi Mallorca.


Anche in una Liga svalutata, certe imprese meritano una sottolineatura. Vada come vada, sia Champions o Uefa, quello del Mallorca è un miracolo. Una delle principali candidate alla retrocessione in estate, lasciata in grave crisi finanziaria dalla nefasta gestione di Vicente Grande, ancora in cerca di acquirenti e ad oggi del tutto ignara dell’eventuale partecipazione alle coppe europee nella prossima stagione, con il visto dell’Uefa ai bilanci del club ancora in sospeso e con l’Athletic Bilbao che reclama ancora parte della cifra pattuita per Aduriz.

Invece no, un rendimento casalingo formidabile (14 vittorie, 1 pareggio e 3 sconfitte, bilancio inferiore solo a Barça e Madrid), quarta difesa della Liga (44 gol subiti) quinto attacco (57 gol) che corrisponde perfettamente al quinto posto in classifica che gli isolani sperano di veder mutare al termine di quest’ultima giornata che proporrà in contemporanea Mallorca-Espanyol e Almería-Sevilla.

Chi altri può essere il principale artefice di un simile capolavoro se non un signore che si trova gli undici giocatori per scendere in campo giusto giusto al termine del mercato estivo, e con molta pazienza assembla prestiti, scarti e incognite in una squadra vera? Gregorio Manzano non ci sarà l’anno prossimo, il suo ingaggio è troppo oneroso per le casse societarie e probabilmente spiccherà il salto verso una realtà più grande l’anno prossimo (si parla insistentemente del Sevilla), una seconda chance meritatissima dopo l’esperienza anonima all’Atlético Madrid nel 2003-2004. In due tappe, “Goyo” ha legato quasi indissolubilmente il suo nome a quello del Mallorca, preso in corsa e salvato nel 2005-2006 quando Cúper al suo ritorno nelle Baleari non sapeva più che pesci pigliare. L’arma segreta di Manzano non è altro che il pragmatismo, il non legarsi né a un modulo fisso né a un’idea di gioco dogmatica che prescinda dai giocatori.

La prerogativa migliore di questo Mallorca è il contropiede, per le caratteristiche dei giocatori e la capacità di prepararsi e sfruttare intelligentemente i corridoi. Anche partendo da qui bisogna considerare l’alternativa tattica fondamentale attorno alla quale si è mosso Manzano durante la stagione, ovvero quella fra il 4-4-2 con un solo centrocampista difensivo (Martí o Mario Suárez) più Borja Valero nel doble pivote, e il 4-2-3-1 con Martí e Mario Suárez insieme e Borja Valero a sostegno di Aduriz unica punta.
La seconda opzione può sembrare superficialmente più equilibrata, ma in realtà è la prima, che in effetti è stata quella più praticata (con il doppio mediano speso soprattutto a partita in corso), a permettere un’occupazione più razionale degli spazi, oltre ad essere storicamente prediletta da Manzano, già nei Mallorca del passato, quando Ibagaza veniva accompagnato dal solo Lozano o Guillermo Pereyra davanti alla difesa.
Il Mallorca è una squadra che ama ripiegare, invitare l’avversario a scoprirsi e colpirlo di rimessa, ma con una sola punta il rischio talvolta è quello di sprofondare eccessivamente nella propria metacampo in fase di non possesso; due punte invece permettono un’uscita più facile per distendersi in contropiede e rubare metri all’avversario, che sarà così sempre consapevole del rischio che comporta perdere palla mentre prova ad attaccare a pieno organico alzando i terzini e lasciando scoperta la zona alle loro spalle.

Altri giocatori. Portieri: Lux, Nauzet. Difensori: Corrales (terzino sinistro). Centrocampisti: Bruno China (centr. centrale), Varela (esterno destro), Pezzolano (trequartista), Tuni (esterno sinistro). Attaccanti: Alhassane Keita.


Una zona che può sfruttare al meglio il Mallorca se a gestire il contropiede ci sono due punte. Una più avanzata centralmente, di solito Aduriz, e l’altra che cerca invece proprio questi movimenti dal centro verso le fasce, ad allargare la difesa avversaria. La seconda punta può essere Víctor Casadesus (3 gol in 26 partite, 19 dall’inizio), più portato al dialogo coi centrocampisti, oppure il camerunese Webó (6 gol in 30 partite, ma solo 12 dall’inizio), più sgobbone, più lottatore, portato a contendere palloni su tutto il fronte offensivo, utile anche nelle spizzate per prolungare verso Aduriz. Molto più ridotta la partecipazione del guineano Keita, forse troppo poco impiegato perché sebbene un po’ pasticcione e anarchico ha sempre dimostrato cose interessanti, segnalandosi come l’attaccante più audace ed estroso nelle iniziiative individuale, oltre che particolarmente rapido.

.Una punta cerca quindi questo taglio verso la fascia, e così apre il corridoio centrale a Gonzalo “Chori” Castro, l’elemento più pericoloso del contropiede bermellón. L’uruguagio era una sorta di oggetto misterioso fino al girone d’andata della stagione passata, poi gradualmente ha trovato più spazio fino a esplodere in questo campionato (6 gol in 34 partite). Castro è un giocatore tremendamente diretto, quando vede lo spazio carica a testa bassa e la velocità e la potenza lo rendono difficilmente contenibile. Partendo da sinistra vuole avere campo libero per esplodere il suo poderoso sinistro, e proprio per questo talvolta Manzano, a partita in corso e quando sa di avere il contropiede a favore lo sposta pure a destra proprio per permettergli di arrivare facilmente al tiro. Castro ha buona tecnica, ma sembra un po’ monotematico: concepisce il gioco quasi esclusivamente in verticale e alla massima velocità, e perciò a ritmi più bassi e in situazioni tattiche diverse, a difesa avversaria schierata, il suo contributo diventa molto più trascurabile.La lama più affilata del Mallorca però è naturalmente Aritz Aduriz, bomber basco da sempre estremamente affidabile (12 gol in 33 partite) che ha raccolto l’eredità di Güiza. In profondità e sul filo del fuorigioco è veloce e sempre insidioso, magari senza la stessa genialità nel movimento fra i centrali di Güiza, però probabilmente più completo, capace anche di svariare sugli esterni e magari di puntare l’uomo. Rispetto a Güiza ha anche un miglior colpo di testa, grazie soprattutto a un’elevazione eccezionale.

Non ci può essere contropiede comunque senza un giocatore bravo a lanciarlo, e il contributo di Borja Valero in questa stagione è stato fondamentale, continuo e ispiratissimo. Non un giocatore da grande squadra, ma un “medio centrocampista spagnolo”, quindi un ottimo centrocampista, di quelli che sanno far girare il pallone e la squadra. Manzano ha sempre prediletto i giocatori di questo tipo da piazzare nel cuore del centrocampo, dal già citato Ibagaza al Jurado della scorsa stagione (che però veniva utilizzato in una posizione più avanzata, da trequartista). Borja Valero ha i tempi di gioco e la capacità di dare tranquillità ai compagni, offrendo sempre un’opzione comoda per respirare e mantenere palla, ma sa anche mandare i compagni in porta con un solo passaggio.

Borja Valero rappresenta il legame fra le due anime del Mallorca: abbiamo detto che la situazione ideale per questa squadra è sicuramente il contropiede, ma se ha preso così tanti punti in casa è anche perché ha saputo muoversi quando ha dovuto fare la partita, senza una qualità entusiasmante ma con una coralità apprezzabile, vedi ad esempio la recente vittoria di Bilbao dove i maiorchini sono andati ad imporre il loro gioco senza farsi troppi problemi.
In questa fase oltre a Borja Valero si rivela un giocatore importante l’esterno destro, Julio Álvarez. Caratteristiche esattamente opposte a quelle del collega di fascia Castro: zero profondità, ma ottimo destro (con Borja Valero si incarica di gran parte dei calci piazzati) e buon senso della manovra. Non cerca mai il fondo (di ruolo sarebbe più una mezzala) ma si avvicina al portatore di palla e rende possibili combinazioni più fitte sulla trequarti, in collaborazione con gli attaccanti o con Borja Valero quando svaria da quelle parti. Il movimento di Julio Álvarez è l’apripista ideale per Felipe Mattioni, promettente terzino destro brasiliano, con grande facilità di corsa, doti di palleggio e ispirazione prettamente offensiva, che non ci pensa su due volte ad attaccare lo spazio. Mattioni ha evidenti lacune difensive, ma può dare più credibilità alla versione manovriera del Mallorca, e in ogni caso resta globalmente superiore a Josemi, forse il terzino destro più debole dell’intero campionato.
Le principali alternative a Julio Álvarez sono rappresentate dallo spostamento di Borja Valero a destra (ma con ampia licenza di accentrarsi), dall’avanzamento dello stesso Mattioni e dall’ex Betis Varela, altro giocatore dalla grande facilità di corsa più propenso alle praterie che agli spazi stretti, tuttavia molto meno impiegato rispetto alle passate stagioni, nelle quali la sua presenza fra i titolari era quasi fissa.

Assicura solidità l’asse centrale, imperniato su Martí e/o Mario Suárez a centrocampo e sul leader difensivo Nunes. I due mediani hanno poca fantasia ma sono molto precisi, continui e tatticamente validi, con una nota di maggior dinamismo il veterano Martí (che ai tempi del Sevilla poteva anche adattarsi a cursore di fascia), con un po’ più di geometria Mario, che l’anno prossimo probabilmente tornerà all’Atlético Madrid, che lo ha promosso dal proprio settore giovanile e ne detiene tuttora il cartellino.

Nunes è un centrale fisico e di personalità, una sicurezza di testa e nei contrasti, senza durezze eccessive ma con buon tempismo nelle coperture. Accanto a lui è stato impiegato più spesso Rubén (altro ex canterano madridista come Borja Valero) rispetto a Ramis. Rubén ha reso, è anche lui un centrale che si basa sulla prestanza e sul gioco aereo, ma personalmente preferisco Ramis, che di tutti i centrali ha il piede migliore per avviare l’azione. Una difesa che si fa valere sul piano della concentrazione e della disciplina tattica, ma che tende a soffrire se presa alle spalle dalle verticalizzazioni.

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mercoledì, maggio 12, 2010

Una Grande che ritorna.


Doverosa premessa: non parliamo né di una partita di alto livello né di una squadra che precisamente incanti il mondo per come gioca. Niente di tutto questo. Però da ieri sera potremmo tornare a parlare di nuovo di una grande. L’Atlético Madrid potrebbe avere un’occasione unica per accantonare la mitologia dell’eterno sfigato e ritornare al ruolo che gli compete storicamente. Non è la Champions League, d’accordo, ma per quanto possa sembrare banale vincere aiuta a vincere. La vittoria della Coppa Uefa (Europa League? Bleah!), e chissà magari anche una doppietta con la Copa del Rey che a dicembre scorso poteva appartenere tutt’ al più al parto di una mente malata, rischia di diventare uno spartiacque decisivo nel consolidamento di questa nuova credibilità che, pur mancando ancora tantissimo per migliorare (e questo tantissimo passerà in buona parte per il prossimo mercato estivo), Quique Sánchez Flores ha indubbiamente apportato ai colchoneros.

È stata una finale bruttina ma “vissuta”, nella quale più che la capacità di imporsi di una delle due squadre ha pesato l’abilità nell’approfittare degli errori avversari e piazzare il colpo decisivo negli episodi, fatto che ad una semplice lettura delle rispettive formazioni rende perciò logico il risultato finale.
L’idea iniziale del Fulham era chiaramente quella di lasciare l’onere di fare la partita all’Atlético. Zamora e Gera ripiegano vicini al centrocampo, e lasciano relativamente liberi Perea e Domínguez di giocare la palla. Qui, come quasi sempre capita, per l’Atlético casca l’asino, dovuto all’incapacità di verticalizzare dei centrocampisti e anche a una certa prevedibilità dei movimenti offensivi del 4-4-2, con pochi tagli, pochi scambi di posizione e una scarsa varietà di opzioni di passaggio per il portatore di palla (aspetto preoccupante, perché già al Valencia Quique non aveva dimostrato una particolare attenzione per una fase di possesso elaborata). Insomma, la solita difficoltà a stabilire dei collegamenti fra il 4+2 dei difensori+Raúl García e Assunção e i 4 giocatori offensivi.
Reyes, in tutta la stagione il giocatore più importante nel dare spessore e continuità alla transizione offensiva, anche stavolta come ad Anfield è assente ingiustificato; l’Atlético non si può appoggiare né su di lui né tantomeno su Simão, che queste caratteristiche peraltro non le ha mai avute e che anche ieri ha proseguito sulla falsariga di tutta una stagione che ne sta annunciando a chiare lettere il declino. L’unica opzione praticabile per i difensori in possesso del pallone risulta così troppo spesso Forlán: frequentemente Perea e Domínguez saltano i centrocampisti e cercano di servire direttamente l’uruguaiano, che offre il consueto movimento tra le linee, anche se il più delle volte i difensori colchoneros semplicemente buttano via la palla.
Non va meglio comunque al Fulham, che patisce anch’esso i piedi ruvidi dei propri difensori centrali e ancora di più la prestazione inconsistente del duo Murphy-Etuhu in mediana, che spesso rimangono bloccati sulla stessa linea, offrendo un riferimento sin troppo facile ai centrocampisti dell’Atlético che vanno in pressing (qui ottimi davvero Raúl García e Assunção, così come nella copertura degli spazi davanti alla difesa). L’unica risorsa per il Fulham è Bobby Zamora, notevole boa spalle alla porta, immarcabile (anche per un favoloso Domínguez, che emerge sempre più come uno specialista coi fiocchi) nelle sue continue sponde che aprono nuove possibilità di avanzamento a tutta la squadra oltre che creare terreno fertile alle incursioni dalla seconda linea di Duff, Davies e Gera (anche questo non scherza quanto a movimento senza palla!).

Però nemmeno Zamora permette al Fulham di controllare la gara, e così si rimane un po’ impantanati in mezzo al campo, dove una volta assunta l’incapacità di creare a difesa avversaria schierata diventa decisiva la palla rubata e la ripartenza rapida. E qui il vantaggio è tutto dalla parte dell’Atlético, perché il suo centrocampo seppure sterile e orizzontale è meno propenso alla perdita stupida di quello del Fulham, e soprattutto perché la capacità di sfruttare gli spazi e di inventare dal nulla dei suoi attaccanti ha pochi eguali in Europa.
In tale contesto va sottolineata la prestazione di Agüero, eroe della partita almeno al pari di Forlán: il Kun è intelligentissimo a cercarsi uno spazio, alle spalle del centrocampo del Fulham, qualche metro avanti a Forlán e leggermente defilato sul centro-sinistra, dal quale fare un male cane a tutto il sistema difensivo avversario. Non si tratta solo del dribbling nello stretto inferiore solo a quello di Messi, o del baricentro basso che lo fa stare attaccato al terreno anche con le cannonate, si tratta di prendere palla sempre fronte alla porta, di mandare al manicomio Baird, di attirare anche il centrale destro Hughes e creare perciò i presupposti perché al centro dell’area di rigore si possano fiondare Forlán o qualche centrocampista in inserimento. La tendenza di questi incursori colchoneros sarà quasi sempre quella di nascondersi alle spalle dei difensori inglesi al momento del cross (così si notano meno… furbi eh?), ma la caparbietà e l’intelligenza del Kun troveranno la miglior ricompensa proprio nel momento-clou.
Comunque la tendenza è quella di un Atlético che senza dominare il gioco fa comunque più male sulle ripartenze improvvise, come dimostrano il palo di Forlán nel primo quarto d’ora e soprattutto il gol dell’1-0, sempre di Forlán, fortunoso perché l’assist di Agüero è in realtà un tiro ciccato, ma innescato in ogni caso proprio da una fuga in contropiede, stavolta di Reyes.

Però il Fulham dimostra grande orgoglio, pareggiando quasi subito, alla prima occasione seria della partita. Zamora si conferma tatticamente fastidiosissimo: su invito profondo di Konchesky si smarca con un movimento dal centro verso sinistra che non è nettamente verticale e quindi rende impossibile alla linea dell’Atlético salire per il fuorigioco; così facendo trascina Perea allontanandolo da Domínguez e creandosi il varco nel quale affondare una volta vinto il contrasto col colombiano: è un po’ macchinoso Bobby, perde l’attimo per finalizzare, ma sul successivo contro-cross è Davies che può concludere al volo per l’1-1.
Gli inglesi tornano subito a coprirsi per gestire gli ultimi cinque minuti del primo tempo (l’Atlético ci prova con un tiro da fuori di Forlán che impegna Schwarzer), ma nella ripresa fiutano l’odore del sangue e passano apertamente all’attacco.
I primi 20-25 minuti del secondo tempo sono nettamente del Fulham, e anzi la sensazione è che giunti a questo punto ci creda di più e abbia più energie dell’Atlético, che non riesce più a sporcare i primi passaggi della squadra di Hodgson. Così almeno in questa fase i londinesi possono assorbire in maniera indolore l’uscita dell’acciaccato Zamora, sostituito da Dempsey (partito sorprendentemente in panchina per chi lo ritiene l’elemento forse più tecnico del Fulham): se Zamora infatti poteva fungere da stampella per uscire dalla metacampo difensiva attraverso i lanci lunghi, ora il Fulham può fare a meno di questa soluzione perché è già più raccolto nella metacampo avversaria, con Murphy ed Etuhu meno rigidi rispetto al primo tempo e con gli esterni molto più coinvolti a ridosso dell’attacco, con tagli verso l’interno più che con la ricerca del fondo, soprattutto nel caso di Duff che parte da destra e comincia a toccare più palloni, seppure senza guizzi individuali pericolosi. Pericoloso, molto pericoloso è invece il destro di prima intenzione col quale ancora una volta Davies impegna De Gea in una magnifica risposta d’istinto. “Van der Gea” non ha tradito nemmeno stavolta, è pronto per questi appuntamenti e giustifica la chiamata fra i 30 preconvocati di Del Bosque.
È l’ora di Jurado per Quique: con Manolo al posto di Simão, da falso esterno sinistro, si cerca una nuova via per far distendere la squadra, un anello di congiunzione fra l’orizzontalità di Raúl García-Assunção e l’attacco. Ma in realtà, anche qui come nel caso di Zamora, il cambio incide meno di quanto potrebbe, perché l’Atlético ha ripreso campo già prima dell’ingresso dell’andaluso.

Gli ultimi 20 del primo tempo e tutti i supplementari si giocheranno in gran parte nella metacampo del Fulham. Va detto che la superiorità dell’Atlético non è qualitativa, ma quantitativa. Semplicemente è presente più tempo nei pressi dell’area avversaria, si prende quasi tutti i calci d’angolo della partita, mette qualche cross e non rischia in transizione difensiva (Dempsey usa un po’ della sua tecnica per proteggere palla e far salire i compagni, ma il Fulham fatica comunque a guadagnare campo: troppi metri da percorrere e poca benzina ormai. Ora sì che si sente la mancanza di Zamora), ma la sua manovra per quanto continua è sempre molto ruminata, e anche l’ingresso di Salvio per Reyes al 77’ non cambia granchè le cose (anzi, il “Toto” va maluccio).
Il Fulham riesce a tenere le posizioni difensive, ma non quando partono i solisti colchoneros, che se vogliono sono incontrollabili. Forlán si scambia frequentemente la zona di competenza col Kun, e anche lui parte in affondo sulla sinistra: micidiale quando a fine primo tempo supplementare ne fa fuori due, mette il pase de la muerte dal fondo, ma prima Salvio (che ha anticipato troppo il movimento verso la porta, per cui arriva col corpo leggermente in avanti rispetto al passaggio) e poi Agüero incredibilmente non la mettono dentro.
Il momento buono è però soltanto rimandato: a cinque dalla fine, quando la partita si avvia verso i calci di rigore, la velocità e la testardaggine di Agüero strappano un pallone a Hughes vicino alla linea di fondo: siamo ancora sulla fascia sinistra, ancora difesa del Fulham sbilanciata verso quel lato, ma stavolta sul cross ad arrivare prima è l’attaccante dell’Atlético, un Forlán aiutato dalla buona sorte che indirizza il suo esterno sporco in fondo al sacco grazie a una deviazione di Hangeland. Due a uno e tutti a Neptuno!

FOTO: marca.com

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lunedì, maggio 10, 2010

Tende al blaugrana.

Ha voluto comunque riservarci la suspence, rimettendo inconcepibilmente in discussione (vedi l’allucinante dinamica del gol del 3-2 di Luis Fabiano) una partita che per i valori espressi in campo giustificava uno scarto di 4-5 gol e che invece fino all’ultimo secondo di recupero ha alimentato le speranze di rimonta gracchiate dalle radio sugli spalti del Bernabeu, ma si può dire che sì, dopo ieri il Barça il grosso l’ha fatto, e la Liga è ormai su un piatto d’argento. Manca il Valladolid al Camp Nou, i castigliani si devono ancora salvare e nel calcio non si sa mai, ma il pronostico è chiaro, tanto più che anche il Real Madrid si dovrà comunque sudare i suoi tre punti in casa di un’altra squadra alla disperata ricerca della salvezza, e cioè il Málaga.

Se sabato scorso pareva più giusto rimarcare la reazione d’orgoglio e la qualità di gioco espressa col Villarreal dopo la disfatta con l’Inter, in questo caso è inevitabile invece sottolineare che se quella vista ieri al Sánchez Pizjuan era davvero la sfida fra la prima e la quarta squadra del supposto secondo miglior campionato del mondo, beh, allora qualcosa non va nel supposto secondo miglior campionato del mondo, se proprio non vogliamo fermarci ai già ridicoli 96 e 95 punti totalizzati dalla prima e dalla seconda finora.
Per essere una partita ad altissima tensione, nella quale anche i padroni di casa si giocavano tutto (ma la contemporanea inattesa sconfitta del Mallorca a La Coruña ha mantenuto salvo il quarto posto), l’immagine offerta dal Sevilla è stata a dir poco scandalosa. Non solo l’incapacità di uscire in fase di possesso dalla consueta orizzontalità e dal modulo “calciobalilla”, coi reparti inchiodati, ma anche pochissima aggressività sull’inizio dell’azione del Barça.
Quindi Piqué prende palla, salta fischiettando la prima linea sevillista (Luis Fabiano+Kanouté a supporto del centrocampo), quindi Zokora-Renato centralmente vanno in inferiorità contro Xavi-Busquets-Keita+Messi (di nuovo falso centravanti), quindi tanti saluti, la partita del Sevilla è finita già qui.
Con la superiorità strategica così facilmente assicurata, a un Barça determinato manca soltanto la finalizzazione. Se ne incarica il trio d’attacco Pedro-Messi-Bojan, tutto all’insegna della cantera. Molto interessante la prestazione della prima linea, oltre che brillante: si è rivista infatti una variante tattica che con la cessione di Eto’o era stata data per persa. La stagione scorsa il Barça aveva dominato alcune partite-chiave (soprattutto il 2-6 al Bernabeu e la finale di Champions con lo United) spostando Messi al centro e lasciando Henry ed Eto’o larghi.
La possibilità sempre presente del taglio di Eto’o e Henry teneva in allarme i due difensori centrali avversari, che non potevano andare in raddoppio su Messi: Leo così poteva muoversi tra le linee relativamente libero e aiutare i tre centrocampisti centrali blaugrana a conquistare la superiorità numerica a centrocampo, una ragnatela inestricabile per l’avversario. Quest’anno la libertà tra le linee per Messi era passata invece attraverso la sperimentazione del “quasi 4-2-4”, ma con Ibra e col 4-3-3 non si era mai avuta, perché anche se nel tridente Messi si spostava al centro e Ibra faceva per allargarsi un po’, lo svedese non aveva comunque il taglio profondo dell’Eto’o adattato a destra, e quindi non poteva allungare a dovere la difesa avversaria.
Il gol del 2-0 invece dimostra come questa soluzione sia tornata disponibile, con Bojan (sempre più in striscia positiva di gol e di gioco, anche se ancora non del tutto esente da qualche ceffone correttivo, sul contropiede gestito in maniera infantile nel finale più che sul gol sbagliato a porta vuota) che raccoglie il sublime invito di Xavi tagliando da sinistra verso il centro proprio nello spazio lasciato da Messi.
Se poi sul primo gol Messi, come già tante altre volte in questa stagione, attacca lo spazio senza palla come un centravanti vero e non falso (a conferma di una comprensione del gioco cresciuta enormemente rispetto al Messi semplice dribblomane di inizio carriera), e se Pedro mette l’ennesimo timbro con un golazo (notevole la coordinazione da fermo, da fuori area: ambidestro come ce ne sono pochi, ti può piazzare indifferentemente un gol di destro come quello di ieri o un sinistro da metacampo come contro il Deportivo) si capisce che il Barça può fare davvero quello che vuole coi suoi attaccanti. Anche sprecare tonnellate di palle gol, rianimare un Sevilla in inferiorità numerica (espulsione di Konko) e mettere quasi a repentaglio una Liga della quale dovrebbe essere il più degno campione.

Almería, Espanyol (bell’omaggio a Tamudo, rispolverato apposta per consentire un degno addio al pubblico di casa), Zaragoza e Sporting si salvano (queste ultime due anche avendo perso), ma all’ultima giornata arriveranno quattro squadre tutte a pari punti (36) fra penultimo (Tenerife), terzultimo (Málaga) e quartultimo posto (Racing e Valladolid). Insomma, infarti assicurati, tenuto conto che per capire tutte le possibili combinazioni di risultati che determineranno le tre retrocesse bisogna conseguire una laurea apposita.
Conteranno la differenza reti negli scontri diretti in caso di arrivo a pari punti fra due squadre; conterà invece la classifica avulsa nel caso arrivino pari più di due squadre. In caso di ulteriore parità invece si calcolerà la differenza reti generale.
In corsa c’è persino il Xerez ultimo a 33 punti, che può sperare di salvarsi in caso di vittoria e di contemporanea sconfitta di altre tre squadre implicate (cosa difficile ma non impossibile, se si pensa che già Tenerife, Málaga e Valladolid giocheranno contro le prime tre classificate). Il Valladolid dipende da sé ma deve giocare al Camp Nou, molto meglio per il Racing che ugualmente ha bisogno solo di una vittoria e che attende in casa lo Sporting già salvo. Il Málaga non solo deve sperare di vincere col Madrid, ma pure contare sulla sconfitta del Racing o del Valladolid. Il Tenerife deve vincere a Valencia (campo difficilissimo, ma i chés sono già qualificati per la Champions) e contemporaneamente augurarsi la sconfitta di due fra Málaga, Racing e Valladolid. Scusate ma vi lascio qui, che mi è venuto il mal di testa…


CLASSIFICA
Barcelona 96
Real Madrid 95
Valencia 68
Sevilla 60
Mallorca 59
Getafe 55
Villarreal 55
Athletic 51
Atlético 47
Deportivo 47
Espanyol 44
Almería 42
Osasuna 42
Sporting40
Zaragoza 40
Valladolid 36
Racing 36
Málaga 36
Tenerife 36
Xerez 33

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sabato, maggio 08, 2010

Si salvi chi può.

Nella serata che potrebbe decidere il titolo, anche la bassa classifica ribolle. Di seguito una ricognizione di tutte le squadre coinvolte dalla matematica, anche quelle che possono dirsi quasi salve o virtualmente spacciate.


XEREZ


ULTIMO/30 PUNTI. DIFFERENZA RETI: -29. CALENDARIO: Zaragoza (casa); Osasuna (trasferta).

Applausi comunque. La salvezza è praticamente impossibile ormai, ma lo spirito dimostrato è encomiabile, e anche al di là dello spirito con Gorosito in panchina il Xerez ha mostrato soluzioni migliori in campo. Cambio di tecnico (modesto Ziganda) purtroppo tardivo, nonostante la sensibile crescita nei risultati.
Un Xerez che non rinuncia a giocare, nonostante le grosse carenze nel mezzo (con il prepensionato obeso Viqueira fuori gioco, manca chi veda al di là del proprio naso, anche se l’innesto di Víctor Sánchez accanto all’aspirapalloni Sidi Keita ha migliorato le cose rispetto al Bergantiños titolare della prima metà di stagione), e che trova le migliori soluzioni fra la trequarti e gli esterni: utilizzando più spesso il 4-2-3-1 che le due punte pure, Gorosito adatta sulla trequarti un esterno di ruolo (il mancino Momo e Calvo), alternando sulle fasce gli stessi Calvo e Momo e poi l’argentino Armenteros (buon giocatore) e soprattutto il cileno Orellana a destra, l’elemento maggiormente in evidenza: leggerino assai ma estroso e con un’ottima capacità nel trattenere il pallone e smarcarsi tra le linee con i tagli.
L’attacco è limitatissimo, sebbene Mario Bermejo (giocatore senza qualità che spiccano, ma capace di arrangiarsi un po’ in tutte le situazioni: spalle alla porta, in profondità, nel gioco aereo e nelle conclusioni sottomisura), storico mestierante delle serie inferiori, abbia ampiamente sconfessato (con 12 gol sonanti) nel girone di ritorno la sensazione di inadeguatezza alla categoria emersa nei primi mesi. La principale alternativa è un altro veterano del sottobosco, Míchel II, grezzo centravanti-boa, con l’acquisto invernale, l’argentino Alustiza impiegato spesso a partita in corso come seconda punta, ma mai dal primo minuto.
Gorosito preferisce una sola punta, come detto, e nelle gare più esigenti (soprattutto contro le grandi) adotta una variante più difensiva, un 4-1-4-1 con un uomo di pura copertura davanti alla difesa, solitamente il 36enne Vicente Moreno, ma anche (vedi Camp Nou) un difensore centrale adattato come l’ex sevillista David Prieto. Consolidata in difesa la coppia centrale formata dall’argentino Gioda e dal canario Aythami, deludente Renan fra i pali, il Xerez di Gorosito si è caratterizzato per una buona densità in fase di non possesso e per la capacità di ripartire senza buttare mai via il pallone.

FORMAZIONE TIPO (4-2-3-1): Renan; Francis, Gioda, Aythami, Casado; Víctor Sánchez, Sidi Keita; Orellana, Calvo, Armenteros; Bermejo.


VALLADOLID

PENULTIMO/35 PUNTI. DIFFERENZA RETI: -22. CALENDARIO: Racing (casa); Barcelona (trasferta).

Su questo blog generalmente le preferenze estetiche sono altre, ma non si può non simpatizzare con il fútbol anti-metrosexual del mitico Javier Clemente. L’unico, originale, con il marchio registrato. Personaggio detestato da una metà della stampa spagnola e guardato con sospetto dall’altra metà, ma con un carisma che nemmeno il suo più acceso detrattore potrebbe negargli, Javi ha subito imposto le sue ricette, gli inconfondibili difensori avanzati a centrocampo e, più sporadico, il doppio terzino. Nell’ultima partita casalinga col Getafe addirittura un “trivote” in mediana con Javier Baraja (fratello del “Pipo” valenciano, generalmente jolly difensivo con Mendilibar) a far legna accanto a Borja e Pelé (il migliore dei centrocampisti).
Al di là delle variazioni contingenti, la ricetta è comunque chiarissima: dopo la fallimentare parentesi di Onésimo, che aveva cercato un Valladolid più portato al possesso-palla (ottenendo risposte di sconcertante mollezza), si è tornati a privilegiare la riconquista del pallone come base, anche se con caratteri assai meno spregiudicati rispetto all’era Mendilibar. Quest’ultimo rischiava pressing e difesa altissima, Clemente infoltisce la propria metacampo, butta lungo il pallone e manda meno giocatori possibile in avanti, in modo da trovarsi subito pronto, blindato tutto dietro la linea della palla non appena l’attacco svanisce e gli avversari ne tornano in possesso. Per questo là davanti conta maggiormente rispetto a Mendilibar e Onésimo su Manucho, cristone capace di fare reparto da solo. Il forte Diego Costa, per caratteristiche tecniche e atletiche, si può adattare a partire anche da una posizione di esterno (ma con ampia licenza di incursione in area avversaria), mentre a ripresa inoltrata, con le squadre più lunghe, Clemente si riserva l’utilizzo di giocatori più leggeri e vivaci come il giovane rapidissimo esterno destro Keko (in prestito dall’Atlético Madrid), Alberto Bueno o il delizioso ma complicato Medunjanin. Altra novità di Clemente è la fiducia data al centro della difesa al portoghese Henrique Sereno, un altro degli acquisti invernali.
Le ricette di Clemente (mai una formazione uguale all’altra, quella sotto è puramente indicativa e ho trovato un po’ di difficoltà a inventarmela…) finora hanno pagato abbastanza, ma la salvezza resta lontanissima. Forse anche in questo caso il cambio in panchina è avvenuto con eccessivo ritardo.

FORMAZIONE TIPO (4-5-1): Jacobo; Barragán, Arzo, Sereno (Nivaldo), Nivaldo; Nauzet (Keko), Borja, Pelé, Javi Baraja, Diego Costa; Manucho.


TENERIFE

TERZULTIMO/35 PUNTI. DIFFERENZA RETI:-33. CALENDARIO: Almería (casa); Valencia (trasferta).

Una delle squadre più deboli ma anche più generose nei confronti dello spettatore, una delle più divertenti ma anche una delle più inconsistenti, con una differenza imbarazzante fra i 38 gol fatti (quintultimo attacco del campionato) e i 71 subiti (di gran lunga il dato peggiore di tutta la Liga). Un rendimento fuori casa catastrofico, una sola vittoria.
La squadra di Oltra se la gioca più o meno con tutti allo stesso modo, cercando di aggredire per prima. Ricerca della massima intensità e ritmo possibile nella manovra. Il tasso tecnico è quello che è, ma i movimenti sono mandati giù a memoria, l’offerta di appoggi ampia e nelle sue partite migliori il Tenerife fila che è un piacere: l’esterno di centrocampo stringe e si avvicina al portatore di palla, le punte a turno vengono incontro. Nel mentre l’esterno della fascia opposta si allarga per ricevere il cambio di gioco. Sempre due opzioni minimo per il portatore, e ottima copertura in ampiezza. I due terzini accompagnano costantemente l’azione offensiva, mentre nel corso dell’azione spesso uno dei due centrali di centrocampo si stacca per inserirsi a rimorchio. Benissimo fino alla trequarti, ma poi il Tenerife nel 99% dei casi si perde. Dove non basta l’organizzazione infatti deve subentrare il talento, la capacità di inventare e sorprendere. E al Tenerife ne manca, se è vero che una mole di gioco offensivo ragguardevole troppo spesso sfocia nel semplice cross buttato in area o nel tentativo velleitario da fuori area.
Nino i gol li fa sempre (13, finalmente in doppia cifra anche in Primera dopo una passata esperienza al Levante), è rapidissimo sul filo del fuorigioco e negli ultimi metri, ma la coppia che forma con Alejandro Alfaro non ha certo avuto lo stesso impatto che ebbe nella scorsa Segunda (39 gol in due!). Rispetto alle aspettative estive (quando sembrava che non dovesse prolungarsi il prestito dal Sevilla e i tifosi chicharreros lo attendevano come un salvatore della patria) Alfaro, accettabile dal punto di vista realizzativo (7 gol), vivace e intelligente nello smarcarsi fra le linee non è mai stato però particolarmente risolutivo come “colpi”. E né Dinei né Ángel (generalmente inseriti in corsa, con lo spostamento di Alfaro a destra quando Oltra intende rimontare uno svantaggio) hanno mai rappresentato alternative davvero credibili.
Sulla fascia sinistra ha perso la titolarità rispetto alla promozione Kome, in favore di Ayoze, che a sua volta tiene in panchina uno dei giovani talenti più stuzzicanti di questa Liga, Omar Ramos. Buono tecnicamente Ayoze, anche discretamente continuo e disciplinato, ma Omar ha margini decisamente superiori, ha il dribbling nel sangue e iniziative spettacolari (anche se talvolta un po’ testarde), sembra l’unico giocatore in rosa in grado di cambiare il volto a una partita, ed è una carta che a nostro avviso Oltra dovrebbe giocarsi con maggior convinzione per “scuotere” questo finale di campionato, senza dimenticare che uno dei due mancini, Omar (più portato allo spunto) e Ayoze (più manovriero), può comunque adattarsi anche a destra e in questo caso lasciare in panchina il più lineare Juanlu Hens.
Al centro il più importante è il regista Ricardo, e accanto lui in questo finale di stagione ha acquisito una certa continuità d’impiego l’argentino Román Martínez, cursore non rapidissimo ma capace di coprire un’ampia porzione di terreno con discreta proprietà di palleggio e un eccellente tempismo negli inserimenti che ha fruttato alcuni gol preziosi nelle ultime giornate, ribadendo un senso del gol già emerso nella passata stagione all’Espanyol, pure non ricchissima di soddisfazioni. Più limitati al semplice lavoro oscuro invece i concorrenti Richi e Mikel Alonso.
Quando non ha il pallone il Tenerife cerca di riconquistarlo subito, più vicino possibile all’area avversaria, adoperando la massima aggressività. È una delle pecche principali di questa squadra la debolezza in fase di non possesso. A volte l’entusiasmo permette di recuperare in breve tempo il pallone e dare continuità, e persino dominio, al gioco, ma troppo spesso la cattiva coordinazione fra i reparti e fra giocatore e giocatore lascia dei buchi clamorosi, ancora più devastanti in una squadra che tende a difendere molto alto. Nei difensori si nota una tendenza eccessiva a seguire l’uomo nella propria zona anche oltre la zona stessa di competenza, perdendo le distanze dai compagni di reparto.
Facendo un esempio, una volta che il terzino sinistro del Tenerife segue sino alla sua metacampo l’esterno destro avversario che retrocede per prendere palla, e una volta che gli avversari riescono a tagliare fuori il terzino del Tenerife con una combinazione, il terzino del Tenerife si troverà in una zona troppo lontana dal suo collega che gioca sul centro-sinistra della difesa, e questo centrale sarà chiamato a effettuare una copertura al limite, con uno spostamento laterale frettoloso nella zona lasciata sguarnita dal terzino. È un po’ migliorato quest’aspetto ultimamente, ma insomma, troppo spesso insomma la linea difensiva perde la sua coesione, e ciò accentua pure le carenze individuali dei difensori canari, alcuni davvero macchinosi e lenti (su tutti il centrocampista riconvertito Manolo Martínez, che comunque ha perso il posto a favore di Culebras, ora centrale titolare a fianco di Pablo Sicilia).
Insomma, il Tenerife ha grossissime chances di retrocedere perché non risolve quasi mai a suo favore le situazioni nelle due aree, quello che più conta.

FORMAZIONE TIPO (4-4-1-1): Aragoneses; Marc Bertran, Culebras, Pablo Sicilia, Héctor; Juanlu Hens, Ricardo, Román Martínez, Ayoze; Alfaro; Nino.

RACING

DICIASSETTESIMO/36 PUNTI. DIFFERENZA RETI: -18. CALENDARIO: Valladolid (trasferta); Sporting (casa).

Del lotto è la squadra più grigia, ma ha un’abitudine a cavarsela sempre bene o male che potrebbe sorprenderci anche stavolta, con due scontri diretti nelle ultime giornate. Arriva comunque a pezzi dalla goleada casalinga subita dal Sevilla, e con dati che lasciano piuttosto perplessi. Bizzarro soprattutto il rapporto fra casa e trasferta: fra le mura amiche del Sardinero solo 14 punti con differenza reti –17, mentre in trasferta 22 punti e bilancio più equilibrato fra gol fatti e subiti, solo –1. Statistiche che supportano la tesi di un Racing in grosse difficoltà quando c’è da fare la partita, soprattutto per le enormi lacune di immaginazione a centrocampo (cambia poco che accanto a Colsa Diop abbia rubato il posto a Lacen: il senegalese è un altro cursore). Con l’infortunio di Munitis (peraltro già in nettissimo declino) e Serrano si accentua la solitudine di Canales, che alla sua età non può vedersi chiedere di trascinare da solo una squadra modesta: 6 gol e lampi straordinari, un talento sotto gli occhi di tutti, ma anche una pausa fisiologica nel cuore della stagione. Non aiuta poi l’attacco meno dotato del campionato: Tchité, volenteroso e mobile ma pasticcione, ha raggiunto quota 9 grazie a qualche rigore, il bisonte Xisco è quello che è, Bolado è il più dotato, ma è inesperto ed è stato scongelato troppo tardi dopo il suo ritorno alla base nel mercato invernale.
Così al Racing viene bene soprattutto affidarsi al lavoro difensivo (grazie a una certa continuità negli uomini e nel modulo, un 4-4-2 semplice semplice ma generalmente affidabile), controllare un po’ le cose e aspettare l’episodio.

FORMAZIONE TIPO (4-4-2): Coltorti; Pinillos (Crespo), Torrejón (Moratón), Oriol, Christian Fernández; Arana, Colsa, Diop, Toni Moral; Canales; Tchité.


MÁLAGA

SEDICESIMO/36 PUNTI. DIFFERENZA RETI: -18. CALENDARIO: Getafe (trasferta); Real Madrid (casa)

Strano il calcio. Rispetto alla squadra rivelazione dell’anno scorso, il Málaga di questa stagione è nettamente più attrezzato, anche convincente per buoni tratti della stagione, ma tuttavia puzza sempre più di Segunda dopo l’inequivocabile blackout dell’ultimo quarto di campionato.
Muñiz l’ha anche organizzata bene questa squadra: fase di non possesso fra le più serie, una zona sobria e con distanze corrette e coperture puntuali, portata ad attendere con un blocco medio-basso più che ad aggredire col pressing alto. Anche in fase di possesso comunque il Málaga non rinuncia alla coralità. Fondamentale in questo senso, come detto più volte, l’apporto di Duda, uomo-chiave e di fatto regista della squadra dalla sua posizione di esterno sinistro. Duda non ha cambio di ritmo né conquista il fondo, però tiene palla, detta bene i tempi, permette alla squadra di raggrupparsi e salire attorno al pallone, oltre a costituire uno dei maggiori pericoli a palla ferma di tutto il campionato, col suo sinistro veloce e tagliatissimo.
Ha rappresentato però una grave menomazione la stagione discontinua, fra un infortunio e l’altro, del regista ufficiale, e cioè Apoño, impossibilitato a ripetersi sui grandi livelli della passata stagione. Ora è disponibile, ma in sua assenza Muñiz ha fatto prevelentemente alternare nel doble pivote il centrocampista difensivo Juanito (anche difensore centrale), il canterano Toribio e il tunisino Benachour, più spesso però trequartista (il suo ruolo).
Toribio ordinato, lontano anni luce dal peso sulla manovra di Apoño ma comunque positivo, buon segnale di una cantera che quest’anno ha aiutato parecchio: su tutti il ventiduenne difensore centrale Iván González (notevole per personalità e potenziale atletico), ma si sono affacciati anche il terzino sinistro Manu Torres (in concorrenza col danese Mtiliga), Javi López (esterno-centrocampista offensivo, 2 gol), Orozco (altro difensore centrale) e, con spezzoni molto più ridotti, Juanmi (attaccante, solo 16 anni e anche lo sfizio di un golletto in Copa del Rey), Portillo e Pedrito (a ciascuno il suo).
Molta scelta dalla trequarti in su: a destra non c’è un padrone fisso fra Valdo, più specialista del ruolo di esterno, e Fernando, che la fascia la cerca poco e preferisce inserisi sulla trequarti, mentre al centro della trequarti le cose migliori le ha fatte vedere il buon Benachour, posto che Forestieri non è esploso nemmeno qui, e Baha può sacrificarsi in appoggio al centrocampo oltre che partire centravanti, ma fa comunque poca differenza sul piano qualitativo.
Un attacco cui non manca la qualità, ma più semplicemente la capacità di andare al sodo e buttarla dentro: Obinna vivacizza tantissimo con la velocità, i dribbling e il movimento su tutto il fronte offensivo, ma davanti al portiere è negato (4 gol, e la cosa ha il suo peso quando in molte occasioni si vede schierato come unica punta), Baha non è da doppia cifra (5 gol in 31 partite), l’ecuadoriano Caicedo aggiunge alternative importanti al gioco (soprattutto il fisico da bestione che gli permette di fare reparto da solo e impegnare i centrali avversari), ma ha trovato solo 4 gol in 16 partite, accettabili come bilancio per uno che è arrivato in inverno, ma pochi in termini assoluti per la squadra.
Anche la difesa ha dovuto soffrire un contrattempo serio come l’assenza per infortunio in questo finale di stagione del centrale mancino Weligton, motivo per cui Muñiz ha dovuto sperimentare accanto a Iván González, ora adattando Jesús Gámez (con discreti risultati, ma è un po’ uno spreco perché così ti perdi uno dei terzini destri più completi e profondi della Liga), ora inserendo il citato Orozco o Stepanov, infine arretrando Juanito per queste ultime partite.

FORMAZIONE TIPO (4-4-1-1): Munúa; Jesús Gámez, Juanito, Iván González, Mtiliga; Fernando (Valdo), Toribio (Juanito), Apoño, Duda; Benachour (Baha); Caicedo (Obinna, Baha).


SPORTING

QUINDICESIMO/39 PUNTI. DIFFERENZA RETI: -13. CALENDARIO: Atlético Madrid (casa); Racing (trasferta).

Si è complicata di brutto la vita quella che nel girone d’andata pareva una delle squadre più convincenti in rapporto ai mezzi. Però ha smesso di giocare, e quando ti credi salvo con largo anticipo e invece ripiombi, può innescarsi allora una tendenza micidiale.
Rimangono comunque più che attrezzati per la salvezza gli asturiani, che ribadiscono come loro arma vincente la trequarti, fatta di giocatori rapidi, fantasiosi, portati a saltare l’uomo con una certa facilità. Lo Sporting non è una squadra che specula particolarmente, gli piace attaccare su ritmi alti e arrivare con un po’ di uomini in area avversaria, ma non ritiene necessario arrivarci attraverso azioni particolarmente elaborate: meglio se possibile chiamare fuori l’avversario, ripiegare un po’ e poi sfogarsi negli spazi. De las Cuevas ispira al centro (a dire il vero un po’ meno nel girone di ritorno, e al calo dell’ex colchonero non è nemmeno corrisposto un rilancio in funzione compensativa della sua validissima riserva, il canario Carmelo), Diego Castro invece è il solista principe: parte da sinistra ma essendo destro si accentra spessissimo (lasciando la fascia alle frequenti sovrapposizioni del terzino sinistro, Canella o José Ángel) per provare la conclusione a girare o lasciare il segno col suo dribbling, mortifero come pochi nella Liga. Anche Barral offre uno sfogo importante al gioco di rimessa, con la tendenza a defilarsi verso sinistra per poi puntare verso la rete nelle azioni di contropiede. Mate Bilic invece è un centravanti più classico, che dalla panchina offre l’alternativa del gioco aereo contro difese schierate, talvolta passando alle due punte in coppia con lo stesso Barral. Più lineare invece la fascia destra, con un tornante come Luis Morán. Importante scoperta invece Lora, mezzala riciclata con successo da Preciado nel ruolo di terzino destro.
Comunque è uno Sporting più maturo e completo rispetto a quello allegrone della stagione passata, che attaccava solo a ondate e imbarcava in difesa. Il salto di qualità nel girone d’andata è passato infatti per la leadership tecnica di Rivera a centrocampo, moto perpetuo capace di organizzare e garantire continuità alla manovra anche in fasi d’attacco necessariamente più ragionate (però il centrocampo ha accusato la partenza invernale di Míchel verso Birmingham), e per l’ottimo rendimento dietro della coppia formata da Botía, puntuale e pulito centrale 21enne di scuola Barça, e dalla montagna umana Gregory, difficilmente superabile nel gioco aereo.

FORMAZIONE (4-2-3-1): Juan Pablo; Lora (Sastre), Botía, Gregory, Canella (José Ángel); Diego Camacho, Rivera; Luis Morán, De las Cuevas, Diego Castro; Barral (Bilic).


ZARAGOZA

QUATTORDICESIMO/40 PUNTI. DIFFERENZA RETI: -17. CALENDARIO: Xerez (trasferta); Villarreal (casa).

Nell’analisi già effettuata sugli aragonesi, avevo sottolineato come i tanti cambi di giocatori e il cambio in panchina recassero come conseguenza logica una certa indefinitezza nello stile di gioco. Va aggiunto come aggiornamento che il lavoro di Gay non persuade del tutto, votando la squadra a un certo conformismo che non ne valorizza del tutto le potenzialità. Mi riferisco alla condotta troppo spesso meramente attendista, alla discutibile preferenza per Eliseu rispetto a Lafita, al mancato utilizzo contemporaneo di Suazo e Colunga, che pure per caratteristiche costituirebbero una delle coppie meglio assortite del campionato… Comunque, l’infortunio del magnifico cileno ha “risolto” il problema, lasciando Gay contento della sua mono-punta e mandando finalmente allo scoperto Colunga, Villa dei poveri in gol nelle ultime tre partite.
In ogni caso Gay non è stato assunto per una prospettiva a lungo termine, su tutto ora più che mai conta il risultato e il Zaragoza di fatto è a un piccolissimo passo dalla salvezza.


ALMERÍA

TREDICESIMO/41 PUNTI. DIFFERENZA RETI: -11. CALENDARIO: Tenerife (trasferta); Sevilla (casa).

Una ricaduta inaspettata, ma la netta vittori casalinga col Villarreal ha riportato la calma, e la salvezza matematica è solo a un punto. Il cambio in panchina, da Hugo Sánchez a Lillo, aveva prodotto un drastico cambio di rotta nei risultati, e aveva posto le condizioni per una salvezza ancora più anticipata, solo fino a un paio di settimane fa.
Il lavoro di Juanma Lillo è stato piuttosto interessante, e accompagnato dal risultato giusto potrebbe implicare anche la rivalutazione di un personaggio che nell’immaginario calcistico popolare spagnolo viene spesso bollato come un venditore di fumo. Enfant prodige della panchina col Salamanca a metà anni ’90, poi ridimensionato da una serie di esperienze negative, il suo punto debole è che adora parlare di calcio, in termini originali ma talvolta astrusi e involontariamente comici (se snoccioli piacevolezze come "Messi ha mejorado mucho, y espero continúe en ello, en no jugar de forma trascendente pelotas intrascendentes." è chiaro che un po’ te la cerchi…), e difendendo sempre un’idea di calcio spettacolare oltre il risultato si è esposto inevitabilmente agli sberleffi ogni qualvolta i fatti non seguivano le parole.
Maestro (lo ha allenato nei Dorados messicani) e al tempo stesso allievo (riconosce di essersi ispirato al suo Barça nella filosofia di gioco, fatte ovviamente le debite proporzioni) di Guardiola, Lillo non è un sognatore, ma un pragmatico iluminato che ha dimostrato di saper leggere le partite e praticare numerosi adattamenti all’interno del modello di gioco di base. Ereditata una squadra senza alcuna identità da Hugo Sánchez, Lillo ha impostato l’Almería sulla ricerca di un possesso-palla elaborato sin dalle retrovie, con l’imperativo strategico della supremazia in termini di opzioni di passaggio nel cuore del centrocampo. Quindi i moduli possono variare, ma in genere sono garantiti tre giocatori nel mezzo (punti fermi M’Bami sul centro-destra, importante per le doti di corsa negli spostamenti laterali, e soprattutto l’ordinatissimo argentino Bernardello davanti alla difesa, pallino personale) più uno che può essere o un attaccante che viene spesso a fornire l’appoggio, una mezzapunta (Corona importante prima dell’infortunio) oppure il jolly Soriano, che indifferentemente gioca mezzala (in concorrenza col peruviano Vargas) o incursore subito dietro le punte, sfruttando il gioco aereo e gli ottimi tempi d’inserimento.
L’esigenza della superiorità a centrocampo ha spinto addirittura a ricorrere al 3-4-3 (3-4-3 vero, con quattro centrocampisti puri e Michel e Cisma dietro, due terzini di spinta, specie il primo), alternato da Lillo al 4-3-3 e al 4-4-2 a rombo. Questo senza dimenticare la carta del contropiede, giocata volentieri quando le circostanze lo permettono, potendo contare su due giocatori velocissimi lanciati negli spazi, Crusat e Piatti. Con Diego Alves fra i migliori portieri del campionato, rappresenta invece un neo l’attacco, che non ha colmato il vuoto lasciato da Negredo: Goitom può fare da punto di riferimento ma la porta non la vede, Kalu Uche ha bei colpi ma un po’estemporanei, e da un punto di vista tattico la squadra difficilmente si può appoggiare su di lui.

FORMAZIONE TIPO (4-3-3): Diego Alves; Michel (Juanma Ortiz), Chico (Pellerano), Acasiete, Cisma; Mbami, Bernardello, Soriano (Vargas); Piatti, Uche, Crusat.


ESPANYOL

TREDICESIMO/41 PUNTI. DIFFERENZA RETI: -16. CALENDARIO: Osasuna (casa); Mallorca (trasferta).

Come all’Almería, manca solo un punto. Qui abbiamo già analizzato la seconda squadra di Barcellona.

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lunedì, maggio 03, 2010

Ci tengono.

Chiamato a una prova cruciale, contro uno degli avversari tradizionalmente più indigesti, in un contesto reso quantomai delicato dallo stress e dalla delusione per la brutta figura con l’Inter, il Barça rialza la testa e fa un gigantesco passo avanti nel cammino verso il titolo nazionale. Quattro a uno, con orgoglio, personalità e con stile, tantissimo stile, soprattutto in un primo tempo che si colloca fra le migliori prestazioni in assoluto della stagione, assieme a quella con l’Inter al Camp Nou (nel girone… che avevate capito, eh?), al secondo tempo della partita di Siviglia che pure costò l’eliminazione dalla Copa del Rey e naturalmente all’esibizione dell’Emirates. I blaugrana hanno ancora tanto da dire.

Avversario indigesto, dicevamo: il Villarreal è forse l’unica squadra in Europa che in tutti questi anni può vantarsi di aver fermato il Barça imponendogli la sua stessa medicina. Non in termini quantitativi (perché le percentuali di possesso-palla non si possono discutere al Barça), ma qualitativi: l’unica squadra dimostratasi capace di battere i blaugrana non solo chiudendosi a riccio e ripartendo con due-tre uomini, ma anche elaborando l’azione a pieno organico nella metacampo avversaria.

Anche nei primi dieci minuti di sabato sembrava potersi ripetere un copione del genere: Garrido usa comprensibilmente più prudenza nella scelta dell’undici (Joseba Llorente parte in panchina, nientre tridente ultra-offensivo con Nilmar e Rossi, un centrocampista in più, anche se accanto all’ormai insostituibile Bruno nel doble pivote ci va una mezzapunta come Ibagaza, con Cani e Cazorla falsi esterni), ma comunque in apertura di gara i suoi verticalizzano per un paio di ghiottissime occasioni sciupate clamorosamente da Nilmar, che ribadisce di essere decisamente più bravo a creare le palle-gol (come quella che servirà a Llorente peril gol della bandiera nella ripresa) piuttosto che finalizzarle.
È un avvio un po’ pazzo, divertentissimo, perché il Barça cerca ugualmente la partenza forte, ma inizialmente non riesce a tenere del tutto sotto controllo il ritmo a centrocampo, esponendosi quindi al batti e ribatti. È un’illusione però, e presto il Madrigal (che a dire il vero sembrava il Camp Nou per il chiasso dei tifosi ospiti) si trova ad assistere a un monologo culè. Grande eloquenza: colpisce soprattutto la naturalezza nei movimenti dei giocatori blaugrana, naturalezza che col pallone in movimento (a velocità alta, senza soluzione di continuità e in tutte le zone del campo) porta a prescindere dai ruoli fissi, mantenendo però un equilibrio e un’occupazione degli spazi di impeccabile razionalità.

Difficile distinguere fra difensori e attaccanti quando nel continuo lavoro di creazione di spazi Keita, Bojan e Maxwell organizzano una catena sulla fascia sinistra efficientissima, flessibile, elegante ed illeggibile per il sistema difensivo avversario: Keita solito maestro nei movimenti senza palla (il taglio che porta via il terzino destro avversario e lascia l’ala sinistra blaugrana libera di ricevere il cambio di gioco e puntare ha da tempo il copyright), Maxwell ancora una volta convincente in questo finale di stagione (lui si è tirato su a differenza di Ibra e Chigrinskiy) per le doti di palleggio e l’intelligenza tattica in fase di possesso, Bojan essenziale e affilato.
Difficile anche distinguere fra centrocampisti e attaccanti quando Messi è al tempo stesso l’uomo in più che aiuta a creare la superiorità in mediana appoggiando Xavi, Busquets e Keita e il primo attaccante, pronto a dettare il passaggio nello spazio come nell’occasione dello 0-1, ripristinando l’intesa con Xavi del Bernabeu. Con Ibrahimovic punito con la panchina, Leo torna falso centravanti nel cuore del tridente; la presenza di Bojan, più agile e duttile di Zlatan, però permette continui scambi di posizione, come quello che porta Bojan in zona centrale a segnare il bellissimo gol dello 0-3, un colpo degno del campione che sarà per destrezza, istinto e abilità. Forse un anno fa dopo aver realizzato il primo controllo il difensore avversario lo avrebbe immediatamente recuperato, forse questa è la volta buona per investire seriamente su di lui. Di certo sta dimostrando di meritarselo. Naturalmente in tutto questo Xavi, pure infortunato (ha giocato contro il parere dei medici, e sta scherzando col fuoco in vista del mondiale) fa quello che vuole (e anche Alves, uno di quelli al di sotto dei suoi migliori standard in questa stagione, è brillante, sia nell’appoggiare la manovra che nell’affondare in sovrapposizione), non solo col gol su punizione.
Il secondo tempo blaugrana è più al risparmio, limitando il ritorno di un Villarreal più intonato grazie al cambio fra Senna e Ibagaza (ben altra sostanza e continuità di gioco l’ispano-brasiliano rispetto al Caño impiegato in quel ruolo) e all’ingresso di Joseba Llorente per Cani.

FOTO: elpais.com

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