domenica, gennaio 31, 2010

Nessuna trappola da Sporting e Depor.

Si aspettava la prima giornata di ritorno con un certo interesse, perché potenzialmente capace di riservare sorprese e movimento in testa alla classifica: si pensava al Riazor come un campo storicamente indigesto (non vinceva dal 1991) per un Real Madrid oltrettutto decimato dalle assenze (Lass e Mahamadou Diarra, Van der Vaart, Cristiano Ronaldo, Higuaín, Pepe e Garay), e si pensava allo Sporting come una delle squadre più valide della classe media, almeno per quanto visto nel girone d’andata.
Invece, lo Sporting ha confermato il calo recente e non si è mai mostrato capace di giocarsela realmente alla pari, mentre il match del Riazor si è rivelato poco più che un allenamento per i merengues. Alle due grandi è bastato presentarsi in orario al campo, dare una spolveratina allo stemma sulla maglia e passare all’incasso.

Un pochino più tesa e seria comunque la sfida del Molinón. Le sorti sono dipese essenzialmente da un fatto: il Barça, per la prima volta da un po’ di partite, non ha trovato ostacoli alla sua idea di gioco. A differenza di Villarreal, Tenerife e Valladolid (che prima di prendere due gol in un colpo solo aveva inquietato Valdés), lo Sporting ha scelto di ripiegare su un baricentro medio-basso, senza tentare il pressing alto. Il Barça, che è tornato a sfoggiare la coppia di centrali Márquez-Piqué della passata stagione, ha avuto i primi passaggi sempre sicuri, guadagnando così metri decisivi. Márquez e Piqué, bravi a “provocare” portando palla (il messicano torna su standard che quest’anno non avevamo ancora apprezzato), attirano i centrocampisti avversari e liberano un po’ di spazio per Xavi, Iniesta o Messi, nel primo tempo di ieri costantemente accentrato tra le linee.
Non è che le occasioni siano fioccate, perché lo Sporting si è dimostrato tutto sommato attento nella sua trequarti ad accorciare fra difesa e centrocampo e a raddoppiare (Ibrahimovic poi ha ancora una volta perso il suo duello, davvero momento nero per lo svedese: stavolta gli avversari non difendono alto, ma lui continua a farsi anticipare, a muoversi troppo poco dalla propria mattonella), però il Barça ha potuto distendersi senza troppi patemi, portare tutti i suoi effettivi nella metacampo avversaria, isolando Bilic dal resto dei compagni e guadagnando anche posizioni favorevoli per pressare, anticipare sulle respinte e riconquistare palla facilmente una volta persa (e quelle poche volte in cui lo Sporting è potuto ripartire ci hanno pensato le straordinarie qualità atletiche di un Abidal in gran condizione). Dominio territoriale assicurato, e si tratta perciò di aspettare che il gol cada come un frutto maturo.
La sorpresa viene piuttosto dalla dinamica dell’azione del gol, che arriva in contropiede: vale uguale, Pedrito smarcato in profondità da Iniesta non si formalizza. Ancora una volta il canario, schierato al posto di Henry, dimostra un acuto senso del gol: se Ibrahimovic avesse metà del suo intuito nello smarcarsi e della freddezza davanti al portiere, parleremmo del miglior attaccante del mondo senza discussioni.
Il secondo tempo è più irregolare e frammentato, anche perché la pioggia appesantisce notevolmente il campo e rende le azioni più confuse. Il Barça non ha la stessa continuità di manovra, ma potrebbe comunque chiudere in più di un’occasione la partita. Lo Sporting prova a metterci più furore, ma non va oltre episodi e calci piazzati. Asturiani in una fase un po’ di stallo, devono ancora trovare un nuovo assetto stabile a centrocampo dopo la partenza di Míchel (ieri Preciado ha provato il giovane Portilla, ex del Racing, accanto a Rivera) e soffrono il calo rispetto a inizio stagione di uomini importanti come Diego Castro e Miguel de las Cuevas.

Al Riazor si è capito ben presto che anche il Madrid d’emergenza (con Guti e Granero ai lati del rombo, Sergio Ramos centrale, Arbeloa e Marcelo terzini e un impalpabile Raúl in attacco) è inaccessibile per l’attuale Deportivo.
I padroni di casa puntavano a una gara alla pari, colpo su colpo e senza barricate. Subito è emersa la totale inconsistenza della loro proposta: con la fascia sinistra, il punto di forza tradizionale, devastata dalle assenze di Guardado e Filipe e ridotta a un inadeguata binomio Manuel Pablo-Pablo Álvarez (due destri sulla fascia sbagliata, e se per Manuel Pablo si capisce che altro in rosa non si trova, per l’altro non si comprende l’insistenza di Lotina nello schierarlo fuori ruolo: non cambierebbe nulla spostare Juan Rodríguez a sinistra, anzi da incursore qual è avrebbe più angolo di tiro), e un Valerón, unica stampella rimasta a Lotina per elevare il discorso, sottotono e persino banale in alcuni frangenti.
Il Depor ha provato ad attaccare ma lo ha fatto male: la mancanza di qualità si è riflessa in giocate prevedibili e precipitose portate al massimo da tre-quattro giocatori, senza elaborazione e senza salire con tutta la squadra, il che ha contribuito a sfilacciare prontamente l’undici di Lotina dando al Madrid ampi spazi per manovrare. Siccome il catenaccio non rientrava nei piani del Deportivo, non è rimasto che stare a guardare, con una mansuetudine peraltro non nuova nei galiziani. Xabi Alonso fa circolare il pallone senza disturbi, Granero lo appoggia correttamente e segna pure il gol del vantaggio. Un monologo senza ostacoli culminato nello stupendo contropiede dello 0-2, uno dei più bei gol del campionato: Guti, nell’unico sprazzo della sua partita, liberato davanti al portiere non tira ma scarica verso l’accorrente Benzema con un tacco che nella stesso momento in cui spiazza e meraviglia chiarifica all'estremo tutta l’azione, lasciando al francese un elementare appoggio a porta vuota. Plastico, non c’è che dire.
Il secondo tempo, francamente inguardabile perché gli uni non sanno giocare e gli altri non ne hanno più voglia, riserva soltanto il gol su rigore del rientrante Riki che pretenderebbe addirittura di riaprire una partita mai esistita, come conferma il secondo sigillo di Benzema. Importante questa doppietta per il francese, che ha bisogno di qualche gol, anche facile, per ingraziarsi i propri tifosi. Non è infatti un giocatore d’impatto immediato: un attaccante portato più a creare spazi e a supportare la manovra, che non cerca ardentemente il gol ma ci arriva soltanto quando è proprio obbligato e e non ci sono alternative. Se ci aggiungiamo una certa discontinuità e quell’aria sempre un po’ distante, l’amore del Bernabeu risulta ancora da conquistare. Ma resta potenzialmente il miglior attaccante del Real Madrid.

Etichette: , , , ,

sabato, gennaio 30, 2010

Cartagena sogna.


Dietro a Hércules e Real Sociedad, che sembrano aver ormai spiccato il volo, la terza inquilina dell’ambito attico con vista Primera è l' FC Cartagena, anzi come i suoi tifosi affettuosamente lo chiamano, el Efesé, dall’acronimo di “Fútbol Club” pronunciato però alla maniera diffusa nella città murciana che, come avviene in altre zone della Spagna (Andalusia e Canarie) e in tutta l’America Latina, accomuna indistintamente in una esse sorda la pronuncia delle consonanti “s”, “z” e “c”.
Se la città della quale è espressione è carica di storia come poche altre in Spagna (fu fondata dal generale cartaginese Asdrubale nel 227 a.c., da qui partì Annibale per la Seconda Guerra Punica e i romani la conquistarono ribattezzandola Cartagonova, il nome peraltro dell’impianto in cui gioca l’Efesé, che sulla maglietta sfoggia il “marchio” di una delle attrazioni turistiche locali, il teatro romano), non si può dire altrettanto della squadra di calcio, che è alla prima partecipazione assoluta in Segunda di una vicenda che ebbe inizio soltanto nel 1995, a partire dal fallimento della precedente squadra cittadina, il Cartagena FC (non è uno scherzo, proprio lo stesso nome ma all’inverso).
Il Cartagena FC, fondato nel molto più remoto 1919, dopo aver sospeso l’attività per alcuni anni ha ripreso a giocare, e al momento si trova in Tercera, ma nel frattempo è stato il nuovo Efesé ad averne raccolto l’eredità fra i tifosi storici, diventando la prima squadra cittadina.

Città colma d’entusiasmo per un exploit sorprendente ma che ha tutte le basi per non rivelarsi qualcosa d’effimero. Il progetto è serio, la società ambiziosa, e se la nave è stata varata da poco si è comunque affidata a vecchi lupi di mare. Nell’undici titolare quasi tutti infatti hanno una sufficiente esperienza in Primera (Clavero, Expósito, Pablo Ruiz) qualcuno la conosce come le sue tasche (Víctor), qualcun altro ancora addirittura vanta importanti esperienze internazionali (De Lucas, Cygan). Insomma, non dei pivellini pronti a montarsi la testa alla prima serie di vittorie. Più problematica del fattore psicologico è semmai la dimensione della rosa, forse troppo corta per reggere una maratona quale è la Segunda División. Problema del quale è comunque consapevole la società, molto attiva in questa finestra di mercato invernale. Sono già arrivati tre rinforzi (il terzino sinistro Signorino dal Getafe, il prestito del difensore centrale dell’Athletic Bilbao Etxeita, l’ala destra Balboa dal Benfica, ex canterano madridista piuttosto scottato a dire il vero dalle precedenti fallimentari peregrinazioni). Manca solo un nome per l’attacco, reparto fortemente sguarnito, e a conferma della predilezione del club per i nomi di provata esperienza e spessore si parla addirittura di Nuno Gomes, che per la categoria sarebbe veramente un colpaccio.
Al di là dei nomi e dei ritocchi, induce all’ottimismo quello che c’è già: una squadra che a detta di buona parte degli addetti ai lavori gioca un calcio fra i più brillanti della categoria, sotto la guida di Juan Ignacio Martínez, cavallo di ritorno per il club che guidò già nel 2005-2006, fallendo l’attacco alla Segunda solo ai play-off. Prima del ritorno due esperienze su altre panchine della serie cadetta, al Salamanca nel 2007-2008 e all’Albacete la passata stagione, col rammarico per un esonero determinato più dalle divergenze coi vertici societari che dai cattivi risultati sul campo.


Altri giocatori. Portieri: Castilla. Difensori: Txiki (terzino destro/centrale), Chus Herrero (centrale), Etxeita (centrale), Signorino (terzino sinistro), Santi Santos (centrale), Javi Casas (terzino sinistro). Centrocampisti: Héctor Yuste (centrale), Sielva (centrale), Miguel Falcón (centrale), Balboa (esterno destro/ala), Tonino (esterno sinistro/terzino). Attaccanti: Tato (seconda punta/ala/esterno), Quintero (ala/esterno).


Il Cartagena-champagne


La squadra di Juan Ignacio Martínez ha un’impostazione e una filosofia di gioco tipicamente spagnola. Vive con, per e attorno al pallone. Il possesso-palla come mezzo non solo per divertire lo spettatore, ma come base per organizzare ed equilibrare il collettivo. Mai buttare via la sfera, ricerca della trama elaborata sin dalle retrovie, coi difensori centrali larghi per permettere ai terzini di salire e guadagnare così opzioni di passaggio in zona centrale; il vertice basso del centrocampo che arretra per fornire un appoggio ai difensori ad inizio azione, il portiere stesso chiamato a giocare palla a terra per garantire superiorità numerica su eventuali tentativi di pressing avversario. Un’elaborazione che nella sua ossessività raggiunge talvolta effetti pericolosamente stucchevoli, come su quei rinvii da fondo campo battuti rigorosamente rasoterra (soluzione introdotta dal Barça di Guardiola e scimmiottata ultimamente anche dall’Almería di Lillo), con i difensori centrali e il portiere che scherzano col fuoco passandosi il pallone nei pressi della porta e regalando più di una rimessa nella propria trequarti al pressing avversario, quando non di peggio.

Longás e Víctor, la mente. Rinviare lungo dal fondo e andare in pressing sulla seconda palla non sarebbe cosa balzana, ma è certo che al di là dei dettagli è su questa base che il Cartagena ha costruito la sua sorprendente prima metà di stagione.
La spina dorsale, i custodi principali di quest’identità si chiamano Antonio Longás e Víctor, i due giocatori attorno ai quali il Cartagena si distende armoniosamente, occupa la metacampo avversaria e si ordina e compatta anche in vista della successiva fase di non possesso.
Longás è una meraviglia, proprio una dannata meraviglia. A vederlo giocare ti rendi conto di quando sia alto il livello medio dei centrocampisti spagnoli per poter relegare in Segunda uno così. Venticinque anni, la sua carriera ha stentato a decollare per la presenza davanti a lui di gente di volta in volta oggettivamente inaccessibile: assieme a Lafita era la perla della cantera del Zaragoza quando però in prima squadra Aimar & C. chiudevano ogni spazio, mentre la scorsa stagione l’ha passata in Segunda B con il Barça Atlétic, piazza se vogliamo prestigiosa ma con ovvie inesistenti possibilità di accesso al mondo dei marziani della prima squadra. In mezzo nel 2007-2008 ha già avuto un’esperienza in Segunda con il Tenerife, ma è quest’anno che sta avendo la sua piccola consacrazione.
Non si muove foglia che Don Antonio non voglia, praticamente tutte le azioni passano da lui. Martínez lo ha messo al centro del suo sistema: qualche passo avanti rispetto al “pivote”, si muove con una totale libertà che dimostra di meritarsi pienamente, accompagnando alla fantasia il senso di responsabilità nelle giocate, alle finte spettacolari lucide geometrie. Può abbassarsi per prender palla dai difensori ma può anche spingersi fino alla trequarti per tentare il dribbling o l’uno-due ai limiti dell’area avversaria: i compagni si fidano di lui e sanno che è un rischio calcolato, che non perderà palle stupide e che saprà alternare alle percussioni lo scambio corto e i cambi di gioco millimetrici, col pallone attaccato al piede e un controllo eccellente dei tempi di gioco.
Víctor non ha certo il peso tirannico sulla squadra di Longás, però è un punto d’appoggio importante. Premessa storica doverosa: stiamo parlando di uno dei miti del recente calcio spagnolo di provincia. Fra Valladolid, Villarreal e poi di nuovo Valladolid, con la ciliegina di una presenza in nazionale nel febbraio 2000, sono ben 95 i gol totalizzati in Primera.
Ora gli anni sono trentacinque però, e il suo stile di gioco ha dovuto per forza adeguarsi: dalla seconda punta piccola e guizzante (1,66 x 64 chili) che era in gioventù Víctor si è riciclato in tattico esperto nei movimenti tra le linee, intelligente nell’aprire varchi nel sistema difensivo avversario e nell’assicurare a Longás e compagnia una sponda per sviluppare il gioco di triangolazioni e inserimenti a sorpresa dalla trequarti in su. Lo spunto non c’è più, ma il tocco di palla rimane quello di sempre, e anche la calma e la classe nel finalizzare a tu per tu col portiere (7 gol finora, aiutano anche i rigori).

Lafuente, De Lucas e Toché, il braccio. Attorno a Longás e Víctor si agita un tourbillon, uno sciame impazzito che solo per comodità possiamo riassumere in un 4-1-3-1-1. Dalle fasce ronzano Ander Lafuente e Quique De Lucas: gli spazi creati da Longás, Víctor e dal centravanti Toché li occupano loro, i guastatori. Martínez non chiede tanto di restare larghi e da lì creare la superiorità numerica, quanto piuttosto la sorpresa inserendosi a rimorchio, con tagli dall’esterno verso il centro. Nell’intento di togliere punti di riferimento sono frequenti sono anche i cambi di posizione fra i due giocatori, e non di rado l’uno va a trovare l’altro sulla fascia opposta, sovrapponendosi e “sovraccaricando” il sistema difensivo avversario in quella particolare zona.
Giocatori dai movimenti comunque diversi, perché molto diverse sono le caratteristiche: a sinistra Lafuente fornisce l’elettricità, il cambio di ritmo che lo rende l’uomo chiave dei veloci ribaltamenti che il Cartagena sa proporre non appena gli si apre il contropiede. Una rivelazione il quasi 27enne basco, prima le squadre minori dell’Athletic Bilbao (Baskonia e Athletic B) poi tanto Cartagena inframmezzato solo dalla scorsa annata al Granada CF, comunque in categorie sempre inferiori alla Segunda. Piccoletto dal baricentro basso e dai movimenti rapidissimi sul breve, ipercinetico e iperattivo.
Lafuente è ficcante nelle iniziative palla al piede, De Lucas invece è meno appariscente e più sornione, essenziale e pericoloso nel gioco senza palla. Sfruttando il movimento costante dei compagni sul fronte offensivo, legge bene il momento in cui proporrre l’inserimento in area avversaria, talvolta ritrovandosi come uomo più avanzato della squadra ad azione in corso. Raramente cerca il fondo, non ha né il passo né la mentalità dell’esterno, più spesso aiuta al centro a costruire la manovra per poi avvicinarsi a fari spenti alla zona-gol (4 gol). L’ottimo destro poi lo rende uno specialista dei calci piazzati, suo pezzo forte da sempre, da quando a fine anni ’90 era una promessa dell’Espanyol, prima di vivere un’esperienza al Chelsea pre-Abramovich certo non gloriosa ma che “fa curriculum”.

Di fatto unica prima punta di ruolo nella corta rosa cartagenera è stato finora Toché, chiaramente un mestierante da Segunda, che però il suo lo fa (9 gol): ariete classico, sgomita coi centrali e li tiene impegnati, carente di tecnica ma con peso e una conclusione potente col destro.
Quello che si avvicina di più a una punta in rosa è il 26enne Jesús Rodríguez “Tato”, cresciuto negli arcirivali regionali del Murcia: è un attaccante che però tende prevalentemente a svariare sulle fasce, venendo oltrettutto più spesso impiegato come esterno ogniqualvolta si affaccia nell’undici titolare. Tato è un giocatore generoso e portato ad attaccare lo spazio, agile e potente in progressione, discretamente incisivo nelle percussioni palla al piede ma non particolarmente acuto nella lettura delle situazioni, oltre che discretamente negato in zona-gol. Come ruolo, caratteristiche fisiche e movimenti ricorda un po’il Riki del Deportivo, anche se è destro.
La carta che Juan Ignacio Martínez è solito giocarsi a partita in corso è però Alberto Quintero, 22enne nazionale panamense, aletta un po’anarchica e sgrammaticata ma ideale quando le squadre si allungano, per la grande velocità e la sfrontatezza nell’uno contro uno.


Il Cartagena “pane e salame”


Il quadro rose e fiori descritto precedentemente può però perdere spesso la vivacità dei suoi colori in una categoria tanto livellata come la Segunda. Dalla prima all’ultima la differenza di qualità è molto meno ampia rispetto alla Primera, e con la tecnica e il fisico a non spiccare particolarmente da una squadra all’altra, la tattica aumenta il suo peso. Non sorprende perciò che più d’una squadra, col passare delle giornate, abbia raffinato le strategie per far giocare male il Cartagena brillante capolista della prima fase di stagione.
L’Efesé va in cortocircuito se ad inizio azione blocchi le comunicazioni fra i difensori e Longás, tagliando così fuori anche gli altri quattro giocatori offensivi. Quindi, un pressing alto sui due difensori centrali quando cercano gli scambi palla a terra, e anche un inseguimento sul centrocampista che si abbassa per cercare di aiutare i difensori a far uscire il pallone dalla trequarti difensiva.
Il Cartagena fatica a distendersi, gli avversari possono alzare la linea difensiva senza preoccuparsi troppo perché Toché non ha la velocità per attaccare gli spazi alle spalle, e se il Cartagena fatica a distendersi fatica pure a difendersi, perché non si trova comodo a ripiegare nella propria metacampo (notevole in particolare il menefreghismo difensivo di De Lucas) e in queste situazioni tende a spezzarsi in due tronconi. L’esempio migliore lo ha fornito il Nàstic che sbancò il Cartagonova eseguendo minuziosamente la strategia esposta.

La risposta di Martínez è stata perciò un “Piano B” da alternare al sistema di gioco principale quando opportuno. La mossa: togliere Víctor (anche per un calo di rendimento riscontrato nel veterano rispetto allo scoppiettante inizio di stagione) e inserire un centrocampista in più, Miguel Falcón, sulla stessa linea di Longás per un 4-1-4-1 più abbottonato. La ragione è elementare, poter disporre di un uomo in più in copertura per semplificare i ripiegamenti, però questo Piano B ha finora dato risultati alterni, l’ultimo dei quali la severa bocciatura in casa dell’Hércules capolista e vittorioso con pieno merito nello scontro diretto.
Il Cartagena così intende rischiare meno, ma diventa anche una squadra più normale, con una minor varietà e ricchezza di soluzioni. Manca l’appoggio fornito da Víctor, e le azioni offensive sono meno corali e dipendono maggiormente dalle palle recuperate e dai ribaltamenti rapidi di Lafuente. Inoltre non sembra la soluzione ideale per esprimere tutto il potenziale creativo di Longás, che si esalta andando a chiedere e a portare palla a destra e a manca, senza altri a pestargli i piedi in mezzo al campo. Massima libertà e più ampio raggio d’azione possibile insomma, mentre nel Piano B si trova un po’ irrigidito sul centro-destra.


Mariano, Pascal e gli altri


Se la base dell’equilibrio del Cartagena risiede in gran parte nel possesso-palla, e all’interno di questo nell’insostituibile direzione d’orchestra di Longás (si son visti tutti gli effetti dell’assenza del numero 10 nel deludente 0-0 di sabato scorso ad Albacete: marmellata inguardabile a centrocampo, Cartagena irrimediabilmente banalizzato), non è da sottovalutare comunque l’apporto di esperienza e di intelligenza tattica dei due giocatori che completano la spina dorsale della squadra: Mariano Sánchez, la diga davanti alla difesa, e Pascal Cygan, il leader del reparto arretrato.

L'Architetto che distrugge. Mariano, 32 anni e prima esperienza in Segunda, ci racconta una storia davvero rara nel professionismo calcistico attuale. Lo chiamano “El Arquitecto” per la sua laurea, laurea per ottenere la quale non ha esitato a ritirarsi dal calcio giocato per ben cinque anni. E dire che, giunto diciottenne nella capitale per gli studi universitari, lo aveva persino reclutato la cantera del Real Madrid: Mariano però in poco tempo non ritiene fattibile combinare le due attività, e così torna a giocare solo a 23 anni, ripartendo dalla Tercera e, parole sue, dovendo ancor prima riprendere la semplice confidenza nel contatto con l’oggetto sferico. E pure nella scelta delle squadre in cui giocare dopo il ritorno all’attività continuerà a pesare la vicinanza a casa, Levante e dintorni, e all’azienda familiare (anche il padre infatti è architetto).
In campo Mariano Sánchez ci sa stare: mancino, non un prodigio di tecnica ma un giocatore efficacemente lineare, dal buon senso tattico. Davanti alla difesa vigila gli inserimenti avversari dalla seconda linea e copre nei ripiegamenti gli spazi lasciati sguarniti dai suoi compagni di centrocampo o dai terzini. Questo eccedendo raramente negli interventi, e anzi spesso rigiocando palloni utili. Non è irrinunciabile come Longás, ma di briciole ai concorrenti ne lascia ben poche.
In questo senso il caso che richiama maggiormente l’attenzione è Óscar Sielva, 18enne mediano in prestito dall’Espanyol, potenzialmente uno dei più promettenti talenti spagnoli nel ruolo, tuttavia nettamente sottoutilizzato finora (7 presenze, e solo 3 dall’inizio, impiegato anche in una posizione scomoda da esterno). Qualche minuto in più come “pivote” di rincalzo lo ha trovato il 22enne Héctor Yuste, murciano doc, in una posizione alla quale Juan Ignacio Martínez può adattare anche Miguel Falcón.

Esperienza in difesa. Pascal Cygan susciterà un sorrisino in qualche tifoso dell’Arsenal, ma in un contesto come la Segunda la sua notevole esperienza internazionale (oltre ai Gunners la Champions League con Lille e Villarreal) pesa tutta. La sua assenza per infortunio negli ultimi due mesi ha indubitabilmente sottratto carisma e affidabilità alla linea difensiva bianconera. Lentissimo, macchinoso e un po’ goffo ma con discreto piazzamento, prestante e forte nel gioco aereo e nei contrasti, con il suo compagno Pablo Ruiz (caratteristiche simili al francese: gioca di posizione e di stazza, magari con un pizzico di agilità in più nelle chiusure laterali) si arrabatta anche nell’impostazione dalle retrovie.
Come centrale di rincalzo più convincente dell’ex zaragocista Chus Herrero è parso il catalano Txiki, che pure di ruolo non sarebbe centrale. È il jolly della difesa: ha cominciato la stagione da terzino destro titolare, ma scalzato dall’ex Athletic Bilbao Unai Expósito (che pur restando mediocre si è scoperto raffinato esecutore di punizioni: già due gol… sopra la barriera e a foglia morta!) si è riciclato in mezzo o anche a sinistra (come nella sconfitta di Alicante con l’Hércules), pur essendo destro di piede. Da centrale può far valere caratteristiche assenti sia in Cygan e Pablo Ruiz che in Chus Herrero, in particolare la rapidità e l’anticipo. Concede qualcosa invece nella marcatura in area di rigore, difettando anche di forza e di qualche centimetro rispetto ai concorrenti.
Completa la difesa a sinistra il 32enne Clavero, terzino di piena garanzia per la categoria, rapido, disciplinato e continuo, dei laterali in rosa quello di maggior profondità offensiva, poca tecnica ma buon tempismo nelle sovrapposizioni. Ancora inedito l’acquisto invernale Franck Signorino (resosi indispensabile per la totale sfiducia nutrita da Martínez verso Javi Casas, altro scarto bilbaino impiegato finora per la bellezza di zero minuti), che ai tempi del Nantes godeva di buon mercato ma che a Getafe era finito nel dimenticatoio fra un infortunio serio e la scarsa considerazione dei tecnici. Concentrato e affidabile fra i pali il 25enne Rubén, scuola Barça e discreta completezza nei fondamentali.

FOTO: laverdad.es; marca.com; laopiniondemurcia.es; futbolclubcartagena.com.

Etichette: , ,

sabato, gennaio 23, 2010

Il punto sul mercato invernale.

Chi non ha fatto da bravo in estate ripara in inverno, o almeno questa è la speranza. Con alcuni colpi per la prossima stagione già delineati (Canales al Real Madrid: praticamente fatta, ma l’anno prossimo dovrebbe continuare al Racing, girato in prestito dal Madrid un po’come avvenne per Garay), la finestra invernale del mercato chiuderà solo a fine mese, ma a grandi tratti i movimenti e le strategie essenziali sono già delineate.

Protagoniste di questa sessione sono Zaragoza e Atlético Madrid, la prima in maniera realmente incisiva, la seconda con ritocchi di prestigio probabilmente più mediatico che tecnico, almeno a breve termine.
Difficile infatti risolvere i gravissimi problemi strutturali dei colchoneros a stagione in corso e con quello che può passare il mercato a gennaio. Merce non risolutiva a breve termine, ma comunque buona: il diciannovenne Eduardo Salvio, seconda punta/trequartista/ala, è il nuovo talento designato del calcio argentino, anche se la maturazione incompleta, fisiologica per uno della sua età, diventa sempre un grosso rischio per un giocatore sudamericano che piomba in corsa in un campionato europeo (Gago non ne è ancora uscito), tanto più in un ambientino simpatico come quello dell’Atlético.
Salvio è il primo mattone nel piano di ringiovanimento che l’Atlético studia per la prossima stagione: piano dettato anche dalla crisi acuta delle casse societarie, che induce a prenotare giocatori a fine prestito (Mario Suárez: bene a Mallorca, ma onestamente non se ne immagina l’utilità nel contesto del centrocampo colchonero; Diego Costa invece, eccellente in un Valladolid pieno di problemi, può trovare una grande valorizzazione) e giovani in scadenza di contratto (Fran Mérida: grandi qualità, ma personalità tutta da definire).
Anche Tiago Mendes è un giocatore che personalmente non mi dispiace, però non è certo quel riferimento in cabina di regia di cui l’Atlético ha bisogno da tempo immemore. Il portoghese è una mezzala (meglio in un centrocampo a tre centrali, e qui c’è già un ostacolo al suo inserimento) lenta ma dinamica, precisa e con una buona continuità d’azione, però può ben figurare soltanto all’interno di un contesto di squadra già strutturato, cosa che l’Atlético non ha e che lui non può fornire.
Bel colpo comunque essersi liberati, con una buona iniezione di liquidità, di Sinama Pongolle (acquisto sbagliato in principio, approdato allo Sporting Portugal) e Maxi Rodríguez (all’Atlético qualcosa di buono l’ha dato, ma ormai risultava un peso: sembrerebbe l’ennesimo affare discutibile di Benítez).

Il Zaragoza è un altro discorso, urgevano valori solidi e immediatamente spendibili per la lotta-salvezza, e onestamente non si poteva acquistare meglio finora. Passare in attacco dall’intoccabilità di Arizmendi agli innesti del cileno Humberto Suazo e di Adrián Colunga (scambio di prestiti, al Recreativo va Braulio) ti ricorda immediatamente che la dimensione di questo club dovrebbe andare ben oltre la bassa classifica.
Chupete” Suazo è un lusso: pallino personale, uno dei migliori attaccanti del Sudamerica, vedi quella pinguedine sfacciata e non gli dai un soldo, invece è pure veloce, ed è un grande attaccante perché non solo finalizza ma sa crearsi anche da solo le occasioni da gol, oltre ad avere buoni movimenti senza palla (in nazionale si è perfettamente inserito al centro del tridente dell’esigentissimo, maniacale Bielsa).
Colunga è un emergente, ottimo all’esordio in Primera la scorsa stagione, in rottura col Recre invece quest’anno. Un attaccante piccolo, molto rapido e verticale, che può indifferentemente giocare prima o seconda punta o anche partire dalla fascia. Ha il baricentro basso e movimenti repentini negli ultimi metri, istinto e buona tecnica, oltre a margini di miglioramento che potrebbero convertirlo in una futura rivelazione.
Insomma, non sarà Diego Milito+Oliveira+Aimar+D’Alessandro+Matuzalem, ma se a Suazo e a Colunga nel tridente sommi Lafita, e poi aggiungi a centrocampo due creativi come Ander Herrera e Jorge López c’è di che arrossire al pensiero di un’ipotetica nuova retrocessione.
Gli altri acquisti son più di complemento, ma ampliano comunque la scelta: Eliseu, fallimentare alla Lazio ma già sopravvalutato al Málaga, ha già esordito assieme a Suazo nel penoso 0-0 casalingo con il Xerez, colpendo un palo su punizione. Largo a destra nel tridente ma utilizzabile anche a sinistra (è mancino), è un giocatore che ha nella velocità indiavolata il punto di forza, discreto tocco e controllo di palla, ma di trascurabile impatto a difesa avversaria schierata. Entra in concorrenza con Pennant, finora una delusione cocente.
Ha esordito domenica scorsa anche l’ultimo nuovo acquisto, il centrocampista ceco Jiri Jarosik, impiegato in una curiosa posizione di difensore centrale che sottolinea tutti i problemi che sta incontrando il Zaragoza nella ricerca di un assetto difensivo stabile ed efficace, ancora di più dopo la pesantissima decisione di mettere fuori rosa Ayala presa da José Aurelio Gay. Innesto non indispensabile Jarosik, comunque forte di una vasta esperienza internazionale.

Subito dopo Atlético e Zaragoza c’è il Valencia, con un solo ritocco ma assai valido. Alejandro “Chori” Domínguez dal Rubin Kazan, trequartista argentino dalle qualità indiscutibili, entra in gioco per tutte e tre le posizioni della trequarti, come rincalzo per Silva o come finto esterno utile pronto ad accentrarsi e fornire supporto tra le linee proprio al canario. La presenza di un sostituto di ruolo per Silva (anche se con caratteristiche diverse: Silva fa girare la squadra, Domínguez invece è più attaccante, vive più di spunti e accelerazioni) consente di impiegare in pianta stabile Banega in mediana, dove serve di più, e permette alternative in grado di aumentare lo spessore della manovra di tutto il Valencia.

Poi ci sono le bisognose di attaccanti: il Málaga, vittima dell’inadeguatezza di Baha, della totale mancanza di feeling con la rete del pur ottimo Obinna, ricorre all’ecuadoriano Caicedo, che cerca un rilancio dopo non aver trovato alcuno spazio fra i millecinquecento attaccanti reclutati dai berlusconi thailandesi e dagli sceicchi del Manchester City, al quale tuttora appartiene il cartellino (in mezzo c’è stato anche un infruttuoso prestito allo Sporting Portugal).
Il Getafe intende limitare la Soldado-dipendenza con Miku (chiuso al Valencia, buon rincalzo qui, già in gol nel quarto d’andata di Copa del Rey a Maiorca), l’Espanyol non centra il bersaglio con l’italo-argentino Osvaldo, attaccante di movimento che si aggiunge ai tanti già presenti in rosa e non colma la carenza di gol determinata dall’evidente declino di Tamudo e dall’ancora incompleta maturazione di giovani comunque interessanti come Callejón e Ben Sahar. Espanyol che in ogni caso più che di giocatori ha bisogno di ritrovare la serenità che ne faceva una delle squadra più promettenti ad inizio stagione.
Avrebbero bisogno di un attaccante anche il finora inoperoso Tenerife e il catastrofico Xerez, impegnato però in tutt’altro tipo di ristrutturazioni. Passaggio di proprietà dal contestato Joaquín Morales a un gruppo argentino capeggiato da Federico Souza, che ha subito rimosso dalla panchina il modesto Ziganda per ingaggiare il connazionale Gorosito. Gorosito o non Gorosito, in Primera con Mario Bermejo, Míchel e Antoñito là davanti non ci rimani comunque.
Chiude la lista il Sevilla col prestito di Stankevicius, una toppa per ovviare in corsa al ritiro dal calcio dello scalognato Sergio Sánchez, afflitto problemi cardiaci che a Siviglia visti i precedenti hanno fatto drizzare prontamente le antenne.

TABELLA

Etichette: , , ,

lunedì, gennaio 18, 2010

Un Valencia da corsa.

Uno dei migliori Valencia della discontinua e ancora irrisolta gestione Emery sbriciola il Villarreal (4-1) nel derby della Comunitat. In una stessa serata si concentrano tutte le condizioni ideali perché il lieto evento si verifichi: il terzetto Villa-Joaquín-Mata ispiratissimo, la connessione Silva-Banega, la motivazione a mille, l’avversario tagliato su misura.
Il Villarreal infatti è sempre uguale a se stesso: nelle serate buone una squadra che può mettere sotto chiunque, in quelle cattive una squadra che lascia giocare tanto l’avversario. Seconda ipotesi rispettata, e Valencia che ha tirato una bella boccata d’aria dopo le tante difficoltà incontrate in casa finora, curiosià statistica del campionato che.
Non deve necessariamente fare la partita e crearsi pazientemente gli spazi nella metacampo avversaria il Valencia, ma col Villarreal che come sempre cerca di venire su palleggiando in blocco può sfruttare anche in casa il suo contropiede manovrato. Contropiede esaltante stasera per velocità d’esecuzione e partecipazione di tutti i giocatori. Ondate che hanno travolto il Villarreal, già da prima dell’espulsione (giusta, ma il fallo avviene appena fuori area) del canterano Kiko, promettente ma sciagurato nell’occasione, che origina il rigore del 2-0.

Il Valencia gira il coltello nella piaga di un Villarreal che nei suoi difensori centrali tende sempre a soffrire le verticalizzazioni: Villa asfalta la coppia improvvisata Godín-Kiko, ma in generale è tutto il movimento offensivo del Valencia che evidenzia una superiorità e un'ispirazione schiaccianti.
Non si sa da dove arrivano, ma son dappertutto: Villa che detta il passaggio sul filo del fuorigioco, Mata e Joaquín che tagliano dentro, Silva che arriva in seconda battuta per concludere a sorpresa o scaricare su altri inserimenti dei compagni, i terzini Bruno e Mathieu che si fiondano in sovrapposizione. Differenza di passo imbarazzante e grande facilità di gioco.
È vedendo questo Valencia che si capisce il perché della tanto discussa condizione di riserva di Zigic: per quanto il serbo si affanni a ribadire il suo ottimo livello, questa non sarà mai la sua squadra. I ritmi e le traiettorie che caratterizzano i piccoli attaccanti del Valencia sono totalmente incompatibili con quelli del serbo. O lui o gli altri, l’unica possibilità è un impiego a partita in corso, che peraltro può essere utile in casa e nei minuti finali contro avversari particolarmente rinunciatari, vedi la vittoria con l’Espanyol maturata grazie a un gol proprio di Zigic negli ultimi secondi utili.

Ora resta da fare il salto di qualità decisivo, e cioè un Valencia che sappia imporre un gioco indipendentemente dall’avversario, quello che fa realmente grande una squadra. Da un anno e mezzo Emery cerca una formula offensiva più elaborata, mantenendo il contropiede come arma più affilata ma provando a non dipenderne in esclusiva come ai tempi di Quique.
Ancora non ha trovato la continuità di gioco desiderata, solo sprazzi, ma non mancano le premesse per una crescita ulteriore: la chiave è, scusate l’ennesima ripetizione, la coesistenza dei due giocatori fondamentali per dare volume alla manovra: Silva per la capacità di offrirsi e proporre triangolazioni fra le linee, Banega per dare i tempi giusti alla transizione offensiva quando parte dalle retrovie. Pochi giocatori al mondo in quel ruolo hanno la classe per arrestarsi, resistere ad attacchi ripetuti senza mai perdere palla, temporeggiare e ripartire solo quando i compagni sono smarcati. Al di là del golazo che ha sbloccato la partita di stasera, l'argentino è il giocatore capace di dare quell’altra dimensione che ricerca Emery per il suo Valencia.

Etichette: , ,

domenica, gennaio 17, 2010

Si fa presto a dire grande squadra.

Al di là della sconfitta, il Real Madrid nella grande classica della Catedral compie un netto passo indietro, che conferma e amplifica le difficoltà di Pamplona ridimensionando al contempo le brillanti vittorie casalinghe con Zaragoza e Mallorca.
Se al Reyno de Navarra la ribalta se l’era in parte rubata l’avversario, qui non è che l’Athletic abbia tramandato ai posteri magnifiche gesta. Anzi, chiariamolo subito per evitare equivoci: l’ultima cosa che fanno i Leoni è giocare a calcio. Ruggire, graffiare, mordere, magari anche vincere (ultimamente gli riesce di frequente), ma giocare a calcio proprio no. Ce l’avrebbero anche nei piedi, ma la testa Caparrós l’ha programmata diversamente.

Con Jokin la coperta è sempre corta e il campo troppo lungo. L’arma decisiva dei padroni di casa è stata la partenza sparata che ha sopraffatto il Real Madrid nel giro di pochi minuti, prima con un doppio palo (Gurpegi da fuori e Toquero su una respinta più facile da sbagliare che altro) e poi col colpo di testa di Llorente solo nell’area piccola su calcio d’angolo, favorito da una sponda involontaria di Lassana Diarra.
Dopo il vantaggio, l’Athletic ha rispettato minuziosamente il copione di (non) gioco delle ultime partite. Copione che prevede un cambio di assetto rispetto all’inizio della stagione: sempre un 4-4-1-1, ma non più con due esterni alti, bensì con Gurpegi sulla fascia destra ma pronto a stringere verso il centro e comporre una sorta di “trivote” con Orbaiz che rimane sul centro-sinistra e Javi Martínez che retrocede a chiudere davanti alla difesa. Aggiungendoci un sacrificatissimo Yeste largo a sinistra, un blocco di otto giocatori distante chilometri da Fernando Llorente, povero cristo incaricato di tenere palla e inventarsi la vita, sperando che almeno qualcuna delle corsette demagogiche strappa-applausi di Toquero lo sostenga in qualche modo.
Athletic squilibrato, perché non lo si è soltanto quando ci si butta tutti avanti alla rinfusa. Se prima i zurigorri soffrivano le riprese per l’eccessivo dispendio che comportava il pressing disordinato esercitato nei primi tempi (almeno in casa), ora decidono consapevolmente di non giocare acquattandosi nella propria metacampo. Di rilanciare il gioco non se ne parla nemmeno, non esiste neppure un abbozzo di contropiede perchè per quello ci vogliono almeno un paio di passaggi mentre qua la distanza dagli attaccanti dal resto della squadra è troppa e si lancia subito.
Il segreto della geniale ricetta di Jokin sta tutto nell’evitare in ogni modo che l’avversario segni per primo (sennò apriti cielo, come a Maiorca), aspettare che si innervosisca col passare dei minuti e sfruttare l’episodio isolato con Llorente o magari affidandosi nella ripresa al cambio di passo e alla genialità di Muniain (che comunque ieri non ha giocato) quando gli altri hanno la lingua fuori. Certo, la cosa finora ha funzionato, a Santander, ad Almería e a Zaragoza le cose sono andate proprio così, Javi Martínez a ridosso dell’area sta coprendo uno spazio prima molto sensibile, San José promette accanto ad Amorebieta, gli avversari creano meno occasioni da gol, però…

…però una cosa sono Racing, Almería e Zaragoza, un’altra un Real Madrid che si è visto regalare dall’avversario una metacampo per tutti i novanta minuti, ma senza mai sapere che farsene. Più tiri, e ci mancherebbe, un palo di Benzema nel primo tempo, un paio di azioni pericolose, ma mai un vero assedio, l’Athletic ha sofferto relativamente poco pur essendosi volontariamente inabissato nei pressi della propria area di rigore.
Fa cadere le braccia l’ottusità con cui il Madrid si è chiuso gli spazi praticamente da solo. Spicca la partita negativa di Kaká, ma prima di lanciarsi contro la prestazione scialba del brasiliano, che indubbiamente manca dello spunto che lo ha reso famoso, occorre sottolineare come i compagni attorno si siano messi di grande impegno per mandare in malora tutto il contesto che avrebbe potuto esaltare le caratteristiche di Kaká.
Ai due lati del rombo, Compare Marcelo e Compare Lass si segnalano particolarmente: la loro funzione dovrebbe essere quella di allargarsi o stringere verso il centro per fornire l’appoggio a seconda dei movimenti dei compagni, degli avversari e della zona in cui si trova il pallone. Ma evidentemente i due prendono troppo sul serio lo schemino disegnato sulla lavagna, si cercano una zolla e da quella non si schiodano, oppure quando lo fanno vanno immancabilmente a pestare i piedi ai compagni in zona centrale. Non parliamo poi della gestione del pallone, quasi sempre coi tempi sbagliati, tocchi di troppo che non fanno che appesantire la manovra.
In questo modo i terzini Arbeloa e Ramos si trovano ad avanzare quasi sempre portando palla invece che attaccando lo spazio in corsa, diminuendo drasticamente l’effetto-sorpresa delle scorse partite, in mancanza di appoggi e di movimenti dei compagni che gli aprano spazi per l’inserimento. Io mi accentro e nel mentre tu ti allarghi, io vengo incontro al pallone e tu tagli dentro: sono questi gli unici movimenti che possono aprire spazi contro una difesa schierata, ma il Madrid li esegue pochissimo, in una serata in cui le comunicazioni fra i reparti e la gestione degli spazi hanno lasciato molto a desiderare.

Nonostante le sue conclusioni siano state le più pericolose, anche la prestazione di Benzema (tornato titolare per via dell’infortunio occorso al lanciatissimo Higuaín) ha rafforzato questo discorso: troppo discontinuo l’apporto del francese, che pure quando è ispirato è uno dei migliori attaccanti di manovra che ci siano. Pochi appoggi e una scarsa creazione di spazi per i centrocampisti: in queste condizioni, ingabbiato dai suoi stessi compagni, non c’è da sorprendersi che Kaká abbia finito con l’abbassarsi eccessivamente per venirsi a prendere i palloni, e non è una stranezza nemmeno la prestazione sottotono di Xabi Alonso, che come ogni regista ha bisogno di riferimenti per far correre il pallone, non potendosi certo inventare dal nulla geometrie che necessitano in egual misura della visione di gioco del singolo e della corretta disposizione d’insieme. Xabi Alonso è il termometro del Real Madrid come Xavi lo è del Barça: se loro giocano male, vuol dire che sta giocando male tutta la squadra.

L’unico che ha provato ad uscire da quest’imbuto è stato Cristiano Ronaldo, uno dei pochi a salvarsi, in certi momenti impegnato in una battaglia solitaria (e col pubblico del San Mamés è stato amore a prima vista, che ve lo dico a fare). Teorica seconda punta ma di fatto largo sulla fascia destra per cercare di dare un po’ di ampiezza, attivo ma impotente, perché le citate difficoltà del Real Madrid nel variare il gioco in zona centrale e crearsi spazi tra le linee hanno agevolato gli avversari nel concentrare i propri sforzi nei raddoppi sul portoghese, al quale è rimasta soltanto la carta del tiro da fuori concessa da un Athletic che nella sua recente svolta tattica tende sempre a difendere troppo basso.
Pellegrini ci ha provato cambiando proprio i due lati debolissimi del rombo di centrocampo, inserendo Guti (al rientro) e Granero al posto di Marcelo e Lass, giocatori più portati a snellire la manovra e agli uno-due: con il contemporaneo ingresso di Raúl per Benzema qualcosina è migliorato e il Real Madrid si è avvicinato di più ad Iraizoz, sfruttando anche il panico crescente dei padroni di casa, ma non è bastato né per evitare l’accenno di fuga del Barça (a +5 dopo la comoda vittoria casalinga col Sevilla) né per rimuovere la sensazione che a questa squadra manchi ancora un bel po’ di lavoro per raggiungere l’eccellenza promessa in estate.

Etichette: , ,

lunedì, gennaio 11, 2010

Il Madrid ha una marcia in più?

Ad oggi il Real Madrid convince di più: si sta scoprendo come squadra, con l’entusiasmo del primo anno di un nuovo progetto, quell’entusiasmo che invece il Barça di Guardiola ha dovuto forzatamente mettere da parte. Ora si tratta di gestire e far fruttare il creduto accumulato col Triplete, e sebbene i blaugrana non abbiano finora fallito alcuno dei propri obiettivi stagionali, questa gestione continua a non convincere.

Vi sfido ad elencarmi le partite della stagione in corso nelle quali il Barça abbia eseguito fino in fondo, senza incertezze e senza contrattempi, il proprio spartito. Supercoppa di Spagna, Zaragoza, Inter…e poi? E poi tanti balbettii e tante gare vinte con una sufficienza che nello stesso momento in cui ti persuade della forza della squadra ti suscita un altro genere di perplessità.
Il Barça è “mès que un club” anche perché non si alimenta di soli risultati. A questa deve accompagnare una messa in scena che non ha solo valore estetico ma deve anche servire per intimidire gli avversari e rinforzare l’autostima e la fiducia dei giocatori nel modello. Fattori che l’anno scorso permettevano ai culè di partire con un virtuale gol di vantaggio sull’avversario praticamente in ogni partita.
Quest’anno, altra storia: gli avversari hanno un po’ mangiato la foglia e il Barça non si propone con la stessa brillantezza.

Tenerife rappresenta il picco di questo processo. Nonostante lo 0-5 finale, la partita peggiore dell’era Guardiola. Venti-venticinque minuti raccapriccianti, tre occasioni nitide (una traversa) per Alfaro che ha ancora una volta ribadito tutti i limiti realizzativi della divertentissima squadra canaria. Un vantaggio di due gol sarebbe stato il minimo vista la totale supremazia territoriale avversaria. Barça che non si era visto imporre il ritmo in maniera così sfacciata nemmeno dal Real Madrid e dal Villarreal.
Particolarmente deprecabile l’inizio della manovra (non si vede quasi più nemmeno lo schieramento a tre dietro sperimentato ad inizio stagione), con giocate approssimative, imprecisione e un’allarmante incapacità nell’innescare i centrocampisti e nel cambiare lato all’azione. Xavi, Busquets e Rafa Márquez spiccano in negativo, travolti dal pressing e dai ribaltamenti del Tenerife.
Poi però si verifica una di quelle ingiustizie di cui è fatto il calcio: chi ha i soldi e i talenti può passare alla prima azione. Dal nulla Bojan scappa sul fondo e serve il primo assist dei tre gol di Messi. Puyol nel mezzo approfitta di un’uscita a vuoto di Aragoneses per chiudere la contesa già nel primo tempo. Un cinismo del quale il Barça ha poco di che andare orgoglioso.
La partita va in discesa e degenera in goleada perché il Tenerife si scoraggia, il Barça si tranquillizza e mette in evidenza tutte le debolezze dell’avversario. Il sistema difensivo del Tenerife è, bisogna dirlo, qualcosa di davvero allarmante.
Il problema non risiede tanto nell’intenzione di aggredire con una linea difensiva altissima, quanto piuttosto nel tipo di marcatura adottato. Una marcatura a zona, ma una marcatura così aggressiva che in più di un occasione porta i giocatori a sforare dalla propria zona di competenza. Non so se sia tutto frutto di una scelta precisa di Oltra o se molto passi per la debolezza dei singoli.
Esempio: un terzino pressa l’ala avversaria e, puntando a non farla girare, la segue fino alla sua metacampo. Così lascia uno spazio alle sue spalle, dove si può infilare un altro avversario, sul quale in questo caso dovrà coprire il centrale allargandosi verso la fascia. E se si sposta il centrale, chi copre al centro? Insomma, un rimescolamento di posizioni molto pericoloso, che può crollare come un castello di carte di fronte ad attaccanti avversari tecnici e mobili, capaci di giocare a un tocco eludendo il tentativo di pressing e di scambiarsi le posizioni costantemente.
L’ideale per Henry, Bojan e Messi, che ieri calzavano a pennello con la difesa del Tenerife. Perfetto l’ispano-serbo, particolarmente bravo nei movimenti senza palla, molto più adatto di Ibrahimovic nel fornire uno sfogo immediato in profondità che ha rappresentato l’ancora di salvezza per un Barça con tante difficoltà a combinare dalle retrovie. Pochissime altre difese però si muoveranno come quella del Tenerife, e la competitività di Bojan, una carta potenzialmente importantissima per la stagione blaugrana, andrà saggiata in ben altri contesti, a partire dal dentro o fuori di mercoledì nella Copa.
Per quanto riguarda il Tenerife, rimane il rammarico per il fatto che una delle poche squadre per le quali valga la pena ad oggi di vedere una partita di Primera rischi la retrocessione: una simile fragilità nelle due aree si paga cara.

Il Barça di ieri somigliava al Real Madrid delle scorse stagioni, quello che subiva l’avversario fino a quando non pescava il gol che cambiava completamente corso alla partita. Nulla a che vedere con i merengues di quest’anno, prodighi di occasioni e con un livello di gioco di tutt’altro spessore, manco a dirlo.
Che l’onesto Mallorca, con tutto il rispetto, competa per il quarto posto, è un fatto ancora una volta preoccupante per la reputazione della Liga, ma quella di ieri non era una prova da sottovalutare per il Real Madrid. Senza due giocatori importanti come Lass e Ramos, ha dovuto cambiare la formazione e anche il modulo, passando dal centrocampo a qualcosa di meno definito, con Gago davanti alla difesa, Xabi Alonso leggermente più avanzato, Van der Vaart sul centro-sinistra (esce però per infortunio: al suo posto Granero, stesse mansioni e pure un gol all’attivo), Kaká trequartista e di punta Higuaín e Cristiano Ronaldo, portati ad allargarsi anche per creare la superiorità numerica assieme ad Arbeloa e Marcelo (ieri terzino).
Dettagli da nulla, perché una volta che l’idea di gioco è stata assorbito conta poco o nulla come disponi le pedine in partenza. L’idea di gioco è molto chiara: manovra elaborata ma molto rapida e verticale (stessa intenzione offensiva, ma diversa filosofia rispetto al Barça), niente posizioni fisse dalla trequarti in su e giocatori che non presidiano mai staticamente lo spazio ma lo occupano in corsa, per sorprendere la difesa avversaria schierata. Calcio moderno.
La cosa comincia a funzionare che è un piacere, con triangolazioni fitte e il terzo uomo sempre pronto a inserirsi. Merita una menzione Gonzalo Higuaín, che ai gol (tanti e nelle ultime giornate particolarmente belli) è tornato ad aggiungere movimenti funzionali al gioco di squadra come ai suoi primi tempi in Spagna.
Sapremo solo a fine stagione chi è più forte, ma in questo momento è il Madrid ad esercitare un maggior potere intimidatorio sugli avversari. Li spinge indietro, li obbliga a guardarsi sempre alle spalle coi suoi velocissimi incursori, cosa che non può dire il Barça ancora impegnato a metabolizzare del tutto il cambio Eto’o-Ibrahimovic. Certo, la classica della Catedral con l’Athletic (capace, più a livello ambientale che tecnico-tattico, di replicare la proposta dell’Osasuna che una settimana fa è andata di traverso a Cristiano e soci) ci dirà di più della gara di ieri.

Etichette: , , ,

domenica, gennaio 10, 2010

Testa alta e faccia tosta.

Sevilla-Racing, diciassettesima giornata della LIGA BBVA.
Ventiseiesimo minuto: passaggi rapidi del centrocampo ospite, Colsa filtra un pallone per Munitis smarcato tra le linee, la difesa sevillista pecca nel cercare il fuorigioco perché da dietro, in controtempo, si sta inserendo Sergio Canales. Il canterano si trova solo davanti a Palop che prova a chiudergli lo specchio. Potrebbe fare mille cose, ma ha già in mente la più giusta, che è anche la più geniale: colpo sotto, fuori dalla portata di Palop e palla che dolcemente si infila in rete.



Trentasettesimo minuto: in uscita da un calcio d’angolo il Racing ha un contropiede. Munitis lo conduce ma scivola. Gli subentra comunque Xisco, che non perde così il vantaggio sulla difesa avversaria e può servire un passaggio facile in profondità. Ancora Canales. Ancora uno contro uno con Palop. Portiere bevuto in un sorso, e va bene, ma fra questo dribbling e la conclusione a rete c’è un attimo interminabile del quale migliaia di tifosi del Racing approfittano per bestemmiare invitando calorosamente il ragazzo ad usare maniere più spicce.
È un misto di una giustificata intenzione di andare sul sicuro e di gusto sadico a partorire la finta con cui il nostro eroe manda a vuoto il ritorno di Adriano, finta che dopo aver scartato il portiere gli apre del tutto la porta avversaria. Adriano finisce impigliato nella rete come un merluzzo qualsiasi, e con tutta la stima per l’ottimo brasiliano, la cosa non manca di suscitare una risatina perfida. Canales corre a raccogliere gli applausi, persino quelli del buongustaio pubblico di casa, e nel mucchio di abbracci sbucano gli eloquenti occhi fuori dalle orbite di Serrano.
In settimana si era parlato di un interesse per Canales proprio del Sevilla. Biglietto da visita più che esaustivo, non c’è che dire.



Ogni fenomeno che si rispetti deve avere la sua teofania, e Canales l’ha messa in scena ieri. Coi suoi diciotto anni lo si potrebbe immaginare tranquillamente intento a danzare fischiettando sull’orlo di un burrone.
Parlando di Ander Herrera abbiamo sottolineato come un giovane esordiente non possa mai trasformarsi in trascinatore. Sarebbe esagerato e ingiusto contraddirci di fronte alla prestazione di Canales, perché la vittoria di ieri del Racing è frutto di un buon lavoro di squadra oltre che di un Sevilla ancora una volta orribile, però è innegabile che un giovane di questa qualità e personalità possa fornire una spinta di entusiasmo importantissima.Il Racing sembrava una delle candidate principali alla retrocessione dopo un mercato estivo che l’ha oggettivamente indebolito (molti giocatori dalla Segunda dimostratisi inadeguati, richiesti espressamente da quel Mandiá che ha anch’egli fallito nel suo approccio alla massima divisione) relegandolo al rango di squadra umile e ordinata ma tremendamente grigia, senza più uno Zigic a semplificare le cose. Scarsa creatività e scarso peso offensivo, i due problemi principali. Canales si è inserito come un palliativo formidabile per entrambi.
Due gol in casa dell’Espanyol e due ieri (oltre a uno al Bernabeu, al suo esordio assoluto, annullato ingiustamente: alla faccia del miedo escenico). Tchité, Geijo e Xisco (che ha comunque l’alibi di essere disponibile da poco) arrossiscono, senza dimenticare comunque l’apporto principale di Canales, quello che sa fare meglio: dare un tocco di qualità, più imprevedibilità e più alternative alla manovra, facendo giocare meglio i compagni che lo circondano nel momento stesso in cui gioca bene lui. I ragionieri Colsa e Lacen hanno trovato finalmente una sponda alla quale appoggiarsi e che li deresponsabilizza, permettendo loro di limitarsi a macinare il proprio gioco “sempliciotto”.

Anche Canales è un classico centrocampista offensivo della recente scuola spagnola: fantasioso e lineare al tempo stesso, geometrico ed estroso, elegante e pratico, risolutivo ma mai egoista, versatile e con una notevole comprensione delle esigenze del collettivo. Sempre a testa alta, sempre giocando in pochi tocchi e sempre alla ricerca di nuovi spazi dopo essersi liberato del pallone. Beninteso, l’assist che affetta la difesa avversaria resta sempre in canna.
Come già dimostrato nella nazionale Under 17 (campione d’Europa 2008) e Under 19, Canales può giocare indifferentemente da regista o da trequartista, sfruttando in un caso la visione di gioco e la capacità di dare ritmo alla circolazione del pallone (quello di cui avrebbe bisogno proprio il Sevilla intrappolato in un’orizzontalità biascicata in maniera sempre più indigeribile), nell’altro l’intuito nel fornire l’ultimo passaggio e il senso del gol, supportato da un eccellente tempismo negli inserimenti alle spalle della prima punta.

Una Liga non esaltante quanto a qualità di gioco e competitività generale, ma prodiga di nuovi talenti come non mai: da Canales a Muniain, da Ander Herrera a Omar (ala del Tenerife) e Iván González (difensore centrale del Málaga), ci sarà parecchio da divertirsi nei prossimi anni, anche per i CT della nazionale.

Etichette: ,

lunedì, gennaio 04, 2010

Copertina per Villarreal e Osasuna.

Il turno che poteva segnare l’aggancio del Real Madrid al Barça ha finito col diventare il turno di due outsiders, Villarreal e Osasuna. Profondamente diverse (i navarri guerriglieri dall’agonismo britannico, il Submarino votato da anni a un tiqui-taca esasperato), tutte e due le squadre sono accomunate dall’aver imposto il pareggio a Barça e Real Madrid senza barricate ma anzi imponendo la propria identità nel momento stesso in cui rendevano difficile affermare la propria ad avversari di tale spessore.
Più meriti degli avversari che demeriti di Barça e Madrid. Due partite di ottimo livello, un’isola di competitività che non può spezzare certo la preoccupante tendenza generale, ma che fa comunque piacere a chi non si rassegna a un duopolio così soffocante. Lo abbiamo già affermato altre volte, le colpe di un campionato così sbilanciato e impoverito non vanno attribuite a queste squadre di classifica media (nel caso dell’Osasuna) o medio-alta (Villarreal), quanto piuttosto al pochissimo che per un motivo o per l’altro continuano a offrire quelle che dovrebbero essere le immediate inseguitrici di Barça e Madrid, ovvero Valencia, Sevilla e Atlético Madrid (vi raccomando vivamente lo “spettacolo” del sabato al Vicente Calderón…).

Il punto di partenza di Villarreal e Osasuna è consistito in un ordinatissimo pressing alto che ha impedito alle loro due grandi avversarie di distendersi portando anzi il Villarreal a giocare per lunghi tratti nella metacampo blaugrana e l’Osasuna a ridurre considerevolmente la quantità di possesso-palla madridista rispetto alle consuetudini.
La quantità ma soprattutto la qualità, impedendo sempre agli uomini di Pellegrini di rovesciarsi in blocco nella propria trequarti, partendo dal pressing delle due punte Aranda e Pandiani, passando per l’accompagnamento di uno dei due centrali di centrocampo, Puñal o Nekounam, che a turno andavano a prendersi Xabi Alonso quando questi chiedeva palla ai suoi difensori, per concludere con una difesa alta attentissima nei movimenti collettivi e brillante in alcune individualità (Miguel Flaño e Azpilicueta su tutti, ma anche il rientro dal primo minuto del brasiliano Roversio è un’incoraggiante novità).
A partire da ciò, e anche da un Madrid un po’ disordinato a centrocampo (pochi appoggi per uscire dalla metacampo e quindi pochi contatti anche con i due attaccanti, qualche lancio lungo di troppo perciò), l’Osasuna non ha quasi mai ceduto territorio durante i novanta minuti. Meno positivo il bilancio offensivo: con il baricentro alto, Camuñas e Juanfran larghi sulle fasce e Aranda e Pandiani di punta, un atteggiamento aggressivo accompagnato però da scarsa lucidità e qualità negli ultimi metri. Poche occasioni, di fatto la maggior parte sui calci piazzati. Più tiri per il Real Madrid, ma più “per dovere” che come conseguenza di un dominio prolungato.

Non è stata una sorpresa comunque la buona partita dell’Osasuna, che analoga prestazione aveva offerto nello scontro casalingo col Barça. Evidentemente la squadra di Camacho esalta la sua proverbiale intensità e la sua buona organizzazione di gioco in partite come questa, dove deve anzitutto rispondere alle mosse dell’avversario. Più difficoltà ha attraversato quando invece ha dovuto proporre contro squadre di pari o inferiore rango. Non arrivavano nemmeno da un buon mese di dicembre i rojillos, mese caratterizzato da uno scadimento nei risultati e nel gioco, tra l’altro favorito da pesanti assenze come quelle dei due attaccanti Aranda e Pandiani.
I due attaccanti sono uno dei fattori che rendono più competitivo questo Osasuna rispetto a quello in netta parabola discendente della gestione Ziganda, appiattito su un 4-2-3-1 coi due centrocampisti centrali bloccati e una manovra troppo lineare con cross dalle fasce e spesso un solo giocatore a concludere in area di rigore.
Con Pandiani e Aranda in attacco invece è aumentata la pressione sulle difese avversarie, e le qualità di Aranda, buon attaccante di manovra, aumentano le alternative offensive in combinazione con Camuñas: l’ex Recre è un giocatore particolarmente utile, da esterno non solo offre ampiezza e vivacità nell’uno contro uno, ma anche la possibilità di variare il gioco con movimenti tra le linee che garanticono più soluzioni alla manovra dell’Osasuna. Un Osasuna che non ha la qualità per entrare fra le prime otto, ma che ha margini di miglioramento e intanto ha già dimostrato di saper tenere testa alle grandi. Cosa non da tutti in questa Liga.

Il Villarreal invece sta soltanto adesso risalendo verso le posizioni di classifica che gli competono. Frenato da un inizio di stagione inverosimile, caratterizzato più da sfortuna (più d’una partita dominata ma non vinta) e contrattempi (gli infortuni di giocatori-chiave come Cazorla e soprattutto Senna, ancora non al 100% della condizione) che da una reale involuzione nel gioco, nelle ultime giornate è andato di tre punti in tre punti: il pareggio di sabato costituerebbe secondo l’aritmetica una piccola battuta d’arresto, ma dato l’avversario e il contesto suggella in realtà il pieno recupero del Submarino Amarillo fra le migliori squadre di Spagna.

Al Camp Nou si è giocato a quello che voleva il Villarreal, un vanto mica da ridere. Già dai tempi di Pellegrini il Villarreal è la squadra che più di tutte in Spagna ha giocato alla pari con il Barça, mettendola sullo stesso piano.
In questa occasione si è assicurato la supremazia territoriale pressando l’inizio dell’azione blaugrana e contando sulla nulla profondità del Barça: alle assenze di Messi, indisponibile, e di Iniesta, entrato solo a gara in corso (al suo posto esordisce dal primo minuto il promettente Jonathan dos Santos, ma non è la partita ideale per mettersi in mostra), cioè dei due più capaci a portare palla, bisogna aggiungere la prestazione ancora una volta preoccupante di Ibrahimovic, non solo totalmente disinteressato ad attaccare lo spazio ma anche inesistente in quel gioco spalle alla porta che dovrebbe essere una sua specialità e permettere alla squadra di salire.
Compito facilitato per i centrali del Villarreal che non si sono praticamente mai dovuti guardare alle spalle. Spicca comunque il rendimento negli ultimi tempi di Marcano, che ha approfittato dei disastri ripetuti di un irriconoscibile Gonzalo Rodríguez per conquistarsi un posto da titolare al fianco di Godín. Un bel centrale mancino che sta confermando le speranze suscitate l’anno passato al Racing: alto ma molto rapido, intuitivo nell’anticipo, bravo anche nel rilanciare l’azione, ora come ora lo vedo quarto centrale della nazionale dopo Piqué, Puyol e Albiol, senza contare che la sua polivalenza (può tranquillamente giocare anche da terzino, e con doti offensive non troppo inferiori a quelle di Capdevila) libererebbe uno spazio a Del Bosque in sede di convocazioni, senza essere obbligato a ricorrere ad Arbeloa.

Assicurato il controllo territoriale, il Villarreal ha poi proposto il suo calcio di possesso. Possesso-palla insistito che ha colpito il Barça dove è più debole, ovvero nella difesa statica della propria metacampo, come già il primo tempo del Clásico aveva dimostrato. A questo predominio è mancata la ciliegina della finalizzazione: Nilmar ha aiutato a creare spazi ma proprio non riesce a sbloccarsi dal punto di vista realizzativo, Rossi è stato sacrificato in panchina da Valverde per avere un centrocampista offensivo in più, cioè la rivelazione David Fuster, che si sta dimostrando funzionale all’idea di gioco e prezioso col suo fiuto del gol, una sorta di Pedrito amarillo.
Con l’acquisto di Nilmar ci si aspettava un attacco esplosivo che tarda però ad arrivare, ed è da qui senza dubbio (oltre che dal pieno ripristino di Senna nelle sue funzioni di leader) che passano le chances di crescita di un Villarreal che continua ad avere i difetti di sempre (l’assenza di cambio di ritmo negli ultimi metri) ma che mantiene anche una credibilità a prova di bomba.

Etichette: , , , ,

sabato, gennaio 02, 2010

Protagonisti: Ander Herrera (Zaragoza).

Pura razza tiqui-taca


Nome: Ander Herrera Agüera.
Luogo e data di nascita: Bilbao, 14/8/1989.
Altezza: 1,82 m.
Peso: 70 kg.
Ruolo: centrocampista offensivo (trequartista/mezzala/esterno).

Nel film ora diffuso nelle sale “Il mio amico Eric”, Eric Cantona, interrogato dal suo amico-postino-evocatore su quale fosse stato il momento più bello della sua carriera, anche di fronte alla rievocazione di gol spettacolari e decisivi, risponde senza alcun tentennamento: “non è stato un gol, è stato un passaggio” (nello specifico, quest' inconcepibile assist a Irwin). Se invece il protagonista del film fosse stato un centrocampista spagnolo contemporaneo, la risposta probabilmente sarebbe stata: “un passaggio… ma anche quello seguente, e poi quello ancora successivo…”.
È questa la filosofia della quale si nutrono i talenti spagnoli attuali: i vari Iniesta, Silva, Cesc, Xavi e compagnia sono accomunati dalla predisposizione a mettere il talento al servizio prima di tutto della squadra. Giocatori simili la cui resa collettiva è ben superiore alla semplice somma aritmetica delle individualità: ognuno rafforza e moltiplica le qualità del compagno, di passaggio in passaggio, di triangolazione in triangolazione.
È una scuola consolidata ormai, prova ne sia il ricambio che già si profila all’orizzonte: l’ultimo exploit alcune settimane fa è arrivato dal diciottenne del Racing Canales, protagonista di una doppietta sul campo dell’Espanyol all’esordio da titolare con la prima squadra. Ma pure nel Zaragoza in piena crisi il ventenne Ander Herrera ha il futuro tutto dalla sua.


Ander spicca per le sue qualità tecniche, per il senso del gioco e la capacità di muoversi in campo, anche se questa prima parte di stagione non gli ha certamente offerto le migliori occasioni per brillare.
Lanciato con successo da Marcelino nel girone di ritorno della passata Segunda, ha iniziato l’anno da primo rincalzo del centrocampo e della trequarti, decidendo col suo ingresso in corsa la gara d’esordio col Tenerife (al primo pallone toccato tunnel e passaggio filtrante che innesca l’azione del gol di Arizmendi). Altro spezzone nella trasferta di Siviglia, ma poi interviene il Mondiale Under 20: nella deludente spedizione egiziana guidata da Luis Milla, Ander è una sorta di dodicesimo uomo pronto a subentrare a Fran Mérida e Parejo come mezzala o anche a partire da una delle fasce rilevando Jordi Alba o Aarón, con un rendimento discreto, due gol all’attivo e qualche sprazzo d’alta scuola.
Il ritorno alla realtà di club lo vede impegnato a riconquistare posizioni nella graduatoria di Marcelino: soprattutto a partita in corso su una delle due fasce (più spesso a destra), senza riuscire però a emergere nella progressiva involuzione zaragocista che porterà infine all’esonero di Marcelino. Col nuovo tecnico José Aurelio Gay arriva un cambio di modulo, dal 4-4-2 al 4-3-3, e una maglia da titolare per Ander, da mezzala destra, ma la serata del Bernabeu passa in archivio come l’ennesima figuraccia che inevitabilmente coinvolge anche il nostro.
Data l’inesperienza non può essere certo questo ragazzo, figlio di Pedro Herrera, segretario tecnico del Zaragoza (di origini basche e tifoso dell’Athletic, da qui la spietata corte che il club vizcaino ha esercitato nei confronti di Ander, con insuccesso data la fede zaragocista del giocatore, nato a Bilbao ma cresciuto in Aragona), il salvatore della patria, ma è anche certo che il contributo di talento e di freschezza da parte di un giocatore relativamente meno compromesso con le recenti tristezze del Zaragoza e ancora sufficientemente “ilusionado” può rivelarsi importante.


Dal punto di vista tattico, Ander Herrera è un giocatore che al pari di Iniesta può indifferentemente agire da mezzala, trequartista o partire da una delle due fasce per poi accentrarsi e rifinire, certamente non per cercare la linea di fondo. La posizione ideale sarebbe quella di mezzapunta centrale, ma nel suo sistema di gioco Marcelino lo ha impiegato soprattutto da esterno, e qui si pone l’alternativa se schierarlo a destra o a sinistra.
In assoluto, essendo Ander un destro naturale, come tutti i giocatori di questo tipo preferisce partire da sinistra per accentrarsi, in modo da disporre di un angolo di passaggio più ampio; Marcelino tuttavia lo ha utilizzato prevalentemente a destra, fatto strano se si pensa che a sinistra ha invece giocato maggiormente quel Jorge López che proprio a destra, e proprio allenato da Marcelino, aveva dimostrato di trovarsi a meraviglia a Santander.
In prospettiva però, posto che Ander Herrera non ha comunque mostrato particolari difficoltà nel muoversi in quella zona, il suo impiego a destra può prospettare alla manovra del Zaragoza interessanti prospettive di crescita. La chiave è il recente ritorno di Diogo: se l’uruguagio recupererà la forma migliore e tornerà ad essere quel terzino capace di coprire l’intera fascia con grande esuberanza atletica e profondità, allora dal connubio con Ander potrebbe venire fuori una catena capace di produrre una grande mole di gioco: Ander gestisce i tempi, nasconde il pallone a attira avversari verso di sé, Diogo apre il campo e si fionda negli spazi così aperti.
Una copia in piccola scala del binomio blaugrana Xavi-Alves, tralasciando l’insignificante dettaglio che mancherebbe però un Messi… Comunque una carta da tenere in considerazione, ancora di più se il modulo resterà il 4-3-3 con una eventuale posizione di mezzala che pur facendolo tendere verso la destra garantirebbe ad Ander maggior centralità nella manovra rispetto al ruolo di esterno precedentemente ricoperto nel 4-4-2.


Anche tecnicamente si spera che Ander possa ricalcare le orme di Iniesta, seppure con una completezza e una brillantezza atletica nettamente inferiori. Ander è versatile perché il calcio bene o male è sempre lo stesso per chi come lui lo sa giocare: una questione di spazi, di ritmi e di pallone da controllare, qualunque sia la zona della mediana in cui ti trovi.
Drogato di uno-due, il calcio per lui è costante movimento e partecipazione, tecnica, stile, intelligenza e visione di gioco per aggirare gli ostacoli posti dai limiti atletici. Un po’ esile, preferisce affidarsi alle triangolazioni piuttosto che andare a sbattere contro gli avversari. Cerca sempre di conferire agilità alla manovra, liberandosi in pochi tocchi e non mantenendo mai una posizione fissa, con una particolare predilezione per lo spazio tra le linee.
Al tempo stesso però possiede la freddezza e la qualità per congelare il pallone quando opportuno. Assai difficile togliergli il pallone: paradossalmente sembra trovarsi più a suo agio quando gli avversari, anche più d’uno, lo attaccano in pressing, piuttosto che quando sulla fascia ha a disposizione l’uno contro uno “da fermo”, faccia a faccia con il terzino. Nonostante una notevole rapidità nel muovere il pallone sul breve, pare mancargli il dribbling secco, mentre quando deve proteggere palla, anche in spazi molto stretti, i suoi controlli con la suola lasciano il più delle volte all’avversariol’unica alternativa del fallo.
L’ aspetto speciale del gioco di Ander Herrera è però la visione di gioco: non solo per l’eccellente lettura dei ritmi da imprimere alla manovra e degli spazi da coprire in fase offensiva, ma anche per la capacità di inventare rifiniture fuori dall’immaginazione del giocatore medio. De la Peña e Guti sono difficili da raggiungere in questo senso, ma il ragazzo ha già dimostrato di poter far fuori una difesa avversaria schierata con un solo passaggio, liberando varchi apparentemente inesistenti, col pallone che quasi avesse gli occhi si ferma esatto esatto sulla corsa del compagno lanciato (vedere per credere quest’assist visionario, risalente alla passata stagione).
Nato ed educato al culto del passaggio, come i suoi omologhi possiede il difetto di considerare il gol come un di più, un extra non troppo necessario, una cosa quasi volgare, il che può rappresentare un danno quando la maggior parte delle squadre spagnole gioca con una sola punta e richiede quindi un buon apporto realizzativo agli inserimenti dei centrocampisti (le cronache narrano di un Aragonés CT ossessivo ai limiti dell’esasperazione su questo punto con Xavi & C.). Mancano la predisposizione e l’istinto ma manca anche la cattiveria, quasi mai lo si vede cercare la conclusione. Problema che rientra all’interno di quello più generale di una personalità ancora tutta da costruire e verificare ai massimi livelli, l’unico reale punto interrogativo sulla strada verso lo status di grande giocatore.

Etichette: , ,