martedì, luglio 20, 2010

Da Aragonés a Del Bosque.

Quattro anni, due trionfi ascrivibili a uno stesso ciclo, ma anche due allenatori diversi e due concezioni diverse in dettagli non irrilevanti, pur all’interno dello stesso stile di gioco.
Nel ripercorrere il cammino e l’evoluzione della Spagna verso la vittoria mondiale, dobbiamo cominciare dalla premessa, da quello che aveva lasciato Luis Aragonés. “El Sabio” consegnava una squadra arrivata progressivamente a giocare a memoria, praticamente perfetta nelle ultime due gare dell’Europeo, ma non fu certo il risultato di una pianificazione rigida, bensì di tentativi in successione che a partire dalla miglior combinazione delle caratteristiche dei singoli hanno affermato un’identità riconoscibile e un sistema di gioco equilibrato.
Messo da parte il fallimento del mondiale 2006, nel quale la Spagna cercò di proporre un 4-3-3 sicuramente più offensivo di quello attuale ma anche più fragile, Aragonés puntò tutto sull’amalgama fra talenti del centrocampo simili ma compatibili. Il successo nacque proprio da questo particolare: nel mentre che ogni giocatore con la propria qualità rafforzava il discorso di fondo (il possesso-palla) non limitava le soluzioni complessive della squadra, che riusciva a coprire bene tutto il campo e ad affrontare una gamma di situazioni di gioco differenti.
Personalmente credo sia proprio questo il modo migliore di costruire una squadra: di solito invece si tende a pensare al contrario, in termini di opposizioni rigide, per cui se voglio avere una squadra equilibrata da un lato devo avere un palleggiatore e dall’altro un rubapalloni, un terzino che spinge e uno che difende e basta (magari un centrale adattato… moda atroce…), un attaccante bravo di testa e uno piccolo, e così via… Il rischio in questo modo è avere una squadra dove globalmente non si fa bene né l’una né l’altra cosa. Meglio invece radunare più giocatori possibili adeguati a tradurre l’idea di fondo che deve ispirare la squadra (che può essere il possesso-palla come nel caso della Spagna ma anche un altro migliaio di stili di gioco diversi), e solo una volta stabilito questo terreno comune, accogliere possibili apporti alternativi (per cui ti può far sì comodo una torre alla Llorente, ma solo partendo dalla premessa che sappia interpretare il tikitaka).
Comunque Aragonés in Austria prima di approdare a questo esito dovette passare per gare indubbiamente poco brillanti come quelle del girone. La Spagna dell’Europeo partì con un 4-4-2 nel quale a centrocampo Senna e Xavi fungevano da centrali (ma in fase di possesso Xavi si staccava nettamente dal brasiliano), Villa e Torres erano le punte e, dettaglio da non trascurare, sugli esterni, Iniesta (destro) e Silva (mancino) partivano rispettivamente da destra e da sinistra.
Qualcosa è cominciato a cambiare a partire dal quarto con l’Italia, per completare la mutazione nella splendida semifinale con la Russia: Iniesta e Silva si erano già scambiati la fascia, mentre l’infortunio di Villa nel corso del primo tempo produsse l’entrata di Cesc Fabregas. Ecco la Spagna di Aragonés. Ecco il tourbillon in mezzo al campo.
La presenza di Iniesta e Silva sulla fascia inversa rispetto al piede preferito portò i due ad accentrarsi, come movimento naturale per andare alla rifinitura o più raramente al tiro. La presenza di Cesc offrì un punto d’appoggio in più alla manovra del centrocampo, e così la Spagna trovò il suo fattore principale di superiorità e anche di equilibrio. La progressiva sincronizzazione dei movimenti dei falsi esterni e delle mezzeali permise un costante dominio in mezzo senza che per questo l’azione si facesse troppo asfittica centralmente. Senna era l’unico a rimanere un po’ bloccato a protezione della difesa, mentre da Xavi in poi era una continua rotazione, finalizzata a un progressivo avanzamento nella metacampo avversaria. Il fatto che a Xavi si aggiungessero centralmente Iniesta e Silva (più Cesc), senza pestarsi i piedi, permetteva di avere quasi sempre assicurata la superiorità rispetto a schieramenti avversari non solo di due centrocampisti centrali ma anche di tre. E nonostante questo non sguarniva le fasce, perché attirando avversari al centro apriva spazi lateralmente alle sovrapposizioni di Ramos e Capdevila, fermo restando che sia Silva che Iniesta rimanevano capaci di offrire il riferimento largo al portatore di palla e propiziare situazioni di superiorità numerica contro i terzini avversari.
Insomma, tentativo per tentativo, quella Spagna arrivò a un’occupazione razionale degli spazi e a un dominio esemplare dei tempi di gioco, alternando magistralmente più registri nel corso delle due partite finali dell’Europeo (passando dall’attacco a difesa schierata al contropiede e mantenendo una notevole disciplina nei ripiegamenti difensivi).
Subentrato alla guida della nazionale, Vicente Del Bosque chiarì nella prima conferenza stampa i propri capisaldi: mantenere l’ossatura e la filosofia di gioco ereditata da Aragonés, ma aggiungendo qualche ritocco, poco ingombrante ma comunque personale. Il primo, dichiarato, quello di ampliare le alternative offensive chiamando esterni di ruolo e ali.
Proposito che ha trovato una realizzazione piuttosto limitata in questo biennio: Vicente se la tenta già nella prima gara di qualificazione, l’1-0 casalingo alla Bosnia, ma Diego Capel è un pesce fuor d’acqua, un sassolino nell’ingranaggio del tourbillon dei vari Xavi, Silva, Iniesta & C.. Del Bosque ci ha poi riprovato nella Confederations Cup dell’estate 2009, quando l’assenza di Iniesta consentì un inserimento di Albert Riera (comunque più portato di Capel a fornire appoggi anche in zone interne) nell’undici titolare. L’undici più “rivoluzionario” scelto dal CT spagnolo in questa competizione è quello contro l’Iraq: Mata e Cazorla esterni, un 4-4-2 classico, simmetrico. Il risultato è scialbo: 1-0 al minimo sindacale, linee di passaggio sin troppo leggibili per il catenaccio iracheno, qualche traversone scontato di troppo, rinuncia al rimescolamento di posizioni e alla superiorità fra mediana e trequarti.
Esiti deludenti, almeno sul piano del gioco, che verranno ripetuti nella finale terzo-quarto posto della Confederations, contro il Sudafrica. Anche qui 4-4-2 simmetrico, Cazorla e Riera sulle fasce, altra prestazione banale, al di là del contesto scarsamente competitivo che indubbiamente invitava a un certo rilassamento.
Tolti questi due tentativi poco fruttuosi, la Spagna della Confederations Cup generalmente si sistema con un 4-4-2 asimmetrico: Villa e Torres di punta, ma l’esterno a destra è più falso di Giuda, si chiama Cesc Fabregas (Silva in panchina invece, già si preannuncia l’ostracismo del mondiale) e aiuta costantemente Xavi e Xabi Alonso nel creare superiorità in mezzo. Ecco, Xavi e Xabi Alonso: Del Bosque parte con loro due centrali, sostanzialmente la formula già di Aragonés, con Xavi che si stacca in fase di possesso e il basco che invece rimane come riferimento più basso. Ma la finale terzo-quarto posto presenta una novità che sembra dettata da semplice turnover ma invece avrà importanti sviluppi futuri: Xavi riposa in panchina, al centro ci sono Xabi Alonso e Busquets. Nessuno li staccherà più.

Il 5-0 al Belgio, a settembre, e il 2-1 nell’amichevole con l’Argentina, nel novembre 2009, rappresentano le due partite più belle dell’era Del Bosque, e sono già delineate alcune delle soluzioni poi sposate al mondiale, dal trio Busquets-Xavi-Xabi Alonso in mediana (sia contro il Belgio che contro l’Argentina) a Villa largo a sinistra in un tridente contro i belgi (con l’Argentina invece sarà la punta centrale, dato il ritorno di Iniesta nell’undici e l’assenza dell’infortunato Torres). Soluzioni in comune con il mondiale, ma anche differenze sostanziali, su tutte la presenza di Silva come falso esterno destro, presenza coincisa non a caso con due partite così brillanti.
La formazione schierata nell’esordio mondiale contro la Svizzera è esattamente uguale a quella dell’amichevole con l’Argentina (Silva-Xavi-Busquets-Xavi-Iniesta), ma l’esito ben diverso ne determinerà il seppellimento. Ripensandoci a mente fredda, non era tutto da buttare in quella Spagna vista contro la Svizzera: a tratti aveva mostrato un controllo sicuramente superiore a quello delle gare successive del girone o del quarto col Paraguay. Molti appoggi, molta densità in mezzo, possibilità di avanzare in blocco, in maniera compatta. Il problema venne dalla mancanza di verticalità nei movimenti offensivi, dalla scarsità di opzioni per concludere nell’area avversaria e anche da una certa leziosità frutto forse della convinzione di aver la strada già spianata.
Contro l’Honduras Del Bosque cerca una scossa, cambia la formazione per non far sentire nessuno al sicuro e per dare un messaggio più offensivo. Un 4-3-3 dove Torres gioca dall’inizio, si vede per la prima volta nel mondiale Villa a sinistra, e dove spunta Navas, all’unica presenza da titolare. Ovviamente il problema non è l’Honduras, liquidato in un inizio convincente per ritmo e voglia, ma quello che si intravede oltre la partita contro l’Honduras, che si nota nel secondo tempo e si concretizza appieno nella partita col Cile, brutta, soffertissima (finchè sono 11 contro 11, gli uomini di Bielsa danno lezione di calcio) ma sbrigata grazie anche a una buona dose di fortuna. Contro il Cile non c’è più Navas, ma Iniesta che parte teoricamente da destra, però il problema rimane lo stesso: in seguito ai cambi di formazione, la Spagna sembra aver smarrito quella compattezza attorno al pallone che caratterizza le sue migliori prestazioni.
Villa risolve più individualmente che altro, in un contesto di squadra poco favorevole. Cominciano a emergere gli effetti indesiderati del centrocampo Busquets-Xabi Alonso-Xavi. Busquets e Xabi Alonso sono un punto fermo probabilmente perché Del Bosque non ritiene nessuno dei due individualmente capace di surrogare il lavoro del Senna dell’Europeo, e quindi si sente più comodo con due giocatori un po’ più bloccati a palla persa 8la differenza con Aragonés è che quest’ultimo affiancava Xabi Alonso a Senna in un doble pivote soltanto a vantaggio già acquisito, quando già si aprivano gli spazi per il contropiede).
Così facendo però la Spagna non sembra più equilibrata, sembra anzi perdere le distanze e le gemetrie consuete, e inoltre forza i suoi talenti del centrocampo in mansioni non del tutto congeniali: nessuno dei tre gioca male, però Xabi Alonso si trova spesso in una posizione di mezzala sinistra che lo costringe a ricevere in zone e situazioni non ideali, spalle alla porta o comunque oltre la linea della palla (quando invece la sua situazione prediletta è partire vertice basso per ricevere lo scarico delle mezzeali o degli esterni e rigiocare subito, magari con uno dei proverbiali suoi cambi di gioco); anche Xavi, in più di un’occasione relegato in un’equivoca posizione di trequartista, si trova costretto spalle alla porta, ma non solo, non è mai protagonista come vorrebbe, viene coinvolto troppo poco perché escluso dalle prime fasi della manovra, quelle in cui può toccare più palloni e dettare i tempi. Ci si deve accontentare di apparizioni più sporadiche, della capacità del catalano di trattenere palla senza farsela sottrarre, della sua capacità di palleggio nello stretto, ma mai del Xavi che ha pieno controllo del gioco.
Risulta troppo appesantito l’inizio della manovra, con due se non tre giocatori che proprio per indole vengono a prendere palla molto bassi, schiacciando troppo indietro la squadra. Non solo i palleggiatori in mediana, ma anche Piqué, forse il difensore centrale più dominante del calcio mondiale, risulta limitato: l’assembramento di centrocampisti subito davanti al blaugrana funziona di fatto come uno specie di tappo che impedisce a Piqué, talvolta in un certo imbarazzo al momento di valutare le opzioni di passaggio, di costituire un fattore determinante per la fase offensiva della propria squadra. L’”effetto Piquénbauer”, quello che permette a tutta la squadra di guadagnare metri nella metacampo avversaria quando a portare palla è il catalano, non si è mai visto in questo mondiale, e non è un caso che il mondiale di Piqué sia stato buono ma sensibilmente inferiore alle sue massime, enormi possibilità.
Nella squadra riveduta e corretta da Del Bosque dopo il tonfo con la Svizzera, i collegamenti fra il blocco arretrato esposto sopra e i due attaccanti+Iniesta sono irregolari, e senza punti d’appoggio facili la squadra fatica a distendersi. Affidandosi agli uno contro uno dalla metacampo in su (eccellente il mondiale di Ramos anche per questo motivo: ha dovuto sobbarcarsi tutta la fascia spesso senza contare sull’effetto sorpresa, dovendo portare palla in mancanza dei tempi e degli spazi per andare senza in sovrapposizione: compito alla portata di pochissimi terzini) e persino a qualche lancio lungo di troppo, tende a perdere palla prima che centrocampo e attacco possano avvicinarsi a dovere. In questo spazio, l’avversario può giocare palla più comodamente (come fatto ad esempio dal Cile, ma lo avrebbe potuto fare anche l’Honduras con un livello tecnico decente), trasformando quindi un problema di possesso-palla in un problema anche di equilibrio difensivo, anche se la Spagna comunque subisce sempre pochi tiri in porta, dato uno spessore intrinseco sempre superiore a quello avversario.
La separazione fra i due blocchi si attenua nella gara contro il Portogallo, dove Iniesta gioca stabilmente accentrato in una sorta di quadrilatero molto stretto con Xavi (l’altro vertice alto) e Xabi Alonso e Busquets (vertici bassi). La manovra tuttavia pecca ancora di agilità, e nel successivo quarto con il Paraguay arriva la prestazione forse peggiore di una Spagna sfilacciata e priva del controllo che desiderebbe.
Questo spinge Del Bosque a ricorrere per la semifinale con la Germania alla mossa più azzeccata del suo mondiale, il mattoncino personale di Don Vicente sulla vittoria finale: Pedro. Per accorciare un po’ la squadra, il CT rinuncia alle due punte, escludendo un Torres fuori forma per dare spazio al giocatore del Barça. La cosa sorprendente è che quest’ultimo, di ruolo un’ala, viene impiegato in realtà in una posizione ibrida sulla trequarti, sul centro-destra, mai coperta prima, che richiama più l’interpretazione di Silva che quella del Pedrito del Barça. Fatto sta che il blaugrana risulta determinante, fra le linee propizia una situazione di incertezza fra Khedira e Schweinsteiger e libera un po’ Xabi Alonso e Xavi per giocare di fronte. È la partita in cui la Spagna tiene meglio il campo, quella che giustifica la vittoria finale del torneo.
Arrivata al traguardo, la Spagna di Del Bosque propone un sistema di gioco che definirei “offensivo castrato”. Cioè, il principio di fondo rimane quello ereditato da Aragonés, avanzare col possesso-palla alla ricerca di spazi nella difesa avversaria schierata, ma diminuiscono le opzioni per rifinire e finalizzare dalla trequarti in su. La composizione del centrocampo titolare tende a diradare i giocatori che si muovono oltre la linea della palla, e ancora di più diminuiscono i giocatori portati ad attaccare l’area avversaria con gli inserimenti. La mossa-Pedrito poi, se da un lato è stata importante per recuperare densità sulla trequarti, ha costretto a rinunciare all’altra positiva intuizione di Del Bosque in questo mondiale, ovvero Villa a sinistra. Con Torres in panchina il Guaje è tornato a fare l’unica punta, al centro: lo può fare, lo ha fatto in tutti questi anni al Valencia cavandosela anche a difesa avversaria schierata, ma deve comunque avere garantita la possibilità di svariare verso le fasce o qualche metro fuori dall’area, deve poter ricevere e puntare fronte alla porta sapendo che c’è qualcuno subito pronto ad occupare gli spazi che “svuota” con questi movimenti. Ma non era il caso di questa nazionale, con tanti centrocampisti bravissimi ad elaborare ma come visto portati a stazionare bassi: Villa così si è trovato in più di un momento a lottare spalle alla porta, a fare quasi da boa, inevitabilmente soffrendo.
Scelte transitorie comunque, e pure vincenti: c’è da pensare che col ritorno in piena forma di Torres, con la provata flessibilità tattica di Del Bosque, e magari con qualche nuovo nome, vedremo un’altra versione ancora della Spagna, come se non bastassero le mille varianti che abbiamo già visto in questi quattro anni. I quattro anni che sconvolsero il calcio spagnolo.

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lunedì, luglio 12, 2010

Età dell'oro.

FOTO: as.com

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